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Artext incontra Michele Dantini  [ eng ]

 

Artext - Partiamo da “Cythère”, la tua recente esposizione nelle sale dedicate al contemporaneo di Villa Bardini, a Firenze: una personale sul tema delle “complesse relazioni esistenti tra museo e mito, architettura modernista e narrazioni di viaggio, incontro e scoperta”.
Come costruisci un’esposizione, le relazioni con lo spazio?

Michele Dantini - Cythère è un progetto sulle relazioni tra collezionismo, arte, natura.
Esiste un’architettura “immateriale” che sorregge ogni nuovo progetto, una dimensione fantastica e desiderante che ha le pulsazioni, la perentorietà episodica, le impasses, le discontinuità e i silenzi di una conversazione.

 

Artext - Privilegi un contesto mentale, "assoluto", da dove investigare il processo dell’immaginazione, la genesi dell' immagine?-

MD - In parte sì, potremmo dire che è così. Sono alla ricerca di una dualità capace di destare emozioni simultanee e contrastanti. Prossimità e distanza, familiarità e straniamento: come per una vertiginosa domesticità, un’amichevolezza remota e inattesa, lievemente astrale.

 

Artext - Si dovrà parlare di una “genealogia” delle immagini, che nel loro persistere e mutare, nel volgersi, creano connessioni inattese, dischiudono territori e percorsi - quasi "geografie emozionali".

MD - Tengo molto al termine “cura”: sollecitudine, coinvolgimento, adesione alla storia sociale e naturale di luoghi. Ci sono molti artisti che lavorano seriamente sul tema della mobilità, prima in senso mentale, poi anche topografico.
Personalmente credo che esista una connessione tra “archivio” e biografia, narrazione e desiderio. Quanto alla mia geografia affettiva: sai di queste isole perdute tra il golfo di Guinea e i Caraibi minori, che l'Unesco classifica come “Small Islands Developing States”. Per la loro piccolezza sono estremamente vulnerabili a cambiamenti demografici, sociali, economici, ambientali.
Sono osservatori privilegiati per misurare l’invasività dei processi di globalizzazione. Le comunità che le abitano hanno storie di dislocazione forzata, assoggettamento, diaspora: hanno dovuto porre in atto per prime strategie di adattamento e resistenza, e lo hanno fatto nel modo più inventivo. Ho un mio penchant per i “piccoli mondi” e i loro autori contemporanei, Walcott, Kincaid...

Michele Dantini
Michele Dantini, Cythère #5, 2008

 

Artext - Nella specificità: il tuo interesse per la fotografia, e per le teorie che tra secondi Sessanta e Settanta hanno fondato la critica dell'immagine documentaria...

MD - Le obiezioni al voyeurismo scaltro e feroce della fotografia di reportage sono state molto importanti per me, soprattutto nei primi anni di attività, tra 2000 e 2003, nello spingermi a mettere a punto una sorta di protocollo di lavoro in contesti extraoccidentali, in situazioni di fieldwork.
La collocazione del testimone mobile e privilegiato all'interno dell’industria culturale occidentale può trasformare pena e marginalità in spettacolo e marketing autoriale: è una circostanza su cui non si può non riflettere. Considero favorevolmente l’interesse contemporaneo per “research-based practices” e scienze sociali, sono però persuaso che l’arte non abbia necessità di fissarsi in protocolli impersonali e dogmatici. Il dialogo, la conversazione si collocano. Esistono modi di conoscenza, di prossimità alle cose, che non richiedono concatenazione. Abbiamo ragioni consistenti per non sperimentare questa o quella forma di oralità come modello espositivo e di relazione? Dal 2003 ho preferito interrompere le performances documentarie: ho cercato di narrare comunità rurali africano-occidentali o antillane solo più indirettamente, attraverso loro autorappresentazioni, affidate a piccoli libri fragili e fortunosi, del tutto inaccessibili sul mercato globale.

 

Artext - Vorresti parlare di tue opzioni narrative e di montaggio?

MD - Il mio punto di vista, nel momento in cui mi accingo a costruire una narrazione nel contesto di una galleria o di un centro espositivo, è quello dell’elusività delle informazioni di cui disponiamo. Detto in altro modo: è mio proposito rivolgermi a uno spettatore sovrano, cui chiedo un contributo autonomo di elaborazione. Scelgo narrazioni discontinue e frammentarie, tali da coinvolgere creativamente e incoraggiare a diffidare di versioni (storiografiche o altro) ufficiali e definitive. Non si tratta di privilegiare la frammentarietà per se stessa, ma di riconoscere dimensioni etico-politiche (relazionali) al racconto, in particolare ai modi della sua costruzione.
Il montaggio ha estrema importanza nel preservare discontinuità, produrre silenzi e impasse. E’ importante che la sequenza si sottragga alla finzione (all’ideologia) dell’esaustività autoriale, risulti anzi indeterminata, almeno in parte aleatoria: produca incertezza, interrogazione, riflessività. Una simile narrazione, tanto nelle arti visive come nella letteratura non-fiction, segue norme e risponde a istanze diverse da quelle valide per il reportage: i media sono oggi del tutto ostili alla complessità, sono manipolativi e didattici. Né cercano né riconoscono, nel pubblico, un interlocutore affrancato e paritetico.
Quanto all’archivio: i siti narrativi, i “giacimenti” cui mi dedico e che esploro non sono già presenti, già demarcati e disponibili, al contrario. Di fatto gli “archivi” cui mi riferisco - dispersi o sigillati, ironici, spettrali - non esistono se non nell’incontro con il loro ricercatore elettivo.
Inteso nel senso della sua scoperta, l’”archivio” è creato contemporaneamente alla narrazione ed è un luogo del desiderio - non ha esistenza precedente, se non in potenza. “Archivio” e “narrazione” producono anamnesi e immaginazione di futuro.

 

Artext - "Renactment" e "augmented reality": sembrano questi i poli della tua attuale ricerca.

MD - Da circa quattro anni attraverso in modo idiosincratico l’arte concettuale degli anni e mi approprio di performance, statements, opere congeniali. Reinterpreto, disloco, riporto in scena. Sol Lewitt, Bas Jan Ader, Robert Smithson, Dan Graham, On Kawara, Paul Thek, Lee Lozano, Giulio Paolini, Alighiero Boetti. Anche in questo caso compongo una geografia elettiva, con modalità a tratti perfino puerili: ricalco con l’impiego della carta carbone copertine, frontespizi, indici, colophon di libri o statements che mi conquistano. Ad esempio: «Conceptual artists are mystics rather than rationalists».

 

Artext - Rosalind Krauss parla di un potere visivo chiamato "inconscio ottico", una forza indomabile e destrutturante che attraversa l'ambito della modernità. Nel nostro universo occidentale ed europeo il confronto è continuo, il suo ambito, l'iconologia che ne studia i parametri di continuità e contiguità.

MD - Credo che per la mia generazione le estetiche formalistiche e medium-oriented non siano state così avvincenti. Uso la fotografia insieme ad altri linguaggi - textwork, disegno, installazione, performance narrativa. Non faccio ricorso a forme massicce di postproduzione, preferisco dimensioni di rapidità e semplicità esecutiva.

Michele Dantini
Michele Dantini, Cythère #19, 2008

 

Artext - Vuoi dirmi qualcosa sul tuo “museo” personale, se esiste?

MD - Esiste una sorta di intenzionalità interna dell'immagine che preme per stabilire o ripristinare connessioni, comporre famiglie. Non so: nei mesi in cui mi sono dedicato a Secrets of perfect opalescence, progetto sulle foreste di nebbia e i vulcani oceanici tra Africa occidentale e Caraibi, le foreste romite, rovinose, arcane dei pittori tedeschi di scuola danubiana, come Albrecht Altdorfer, di Marco Ricci, Alessandro Magnasco e Tiepolo accompagnavano il processo. Maliose. Ritornanti.
Malgrado ciò, Secrets of perfect opalescence è un progetto sul confine inteso in senso politico, geografico, culturale, infine linguistico. La nebbia densa, torrida, opalescente che avvolge e nasconde la foresta sul fondo del cono vulcanico sigilla un mondo.

 

Artext - Il tuo lavoro è certo molto complesso e coinvolge ambiti diversi della ricerca artistica contemporanea. Narrazione, performance e lecturing performativo, critica dei media, rapporti tra fotografia e quadro, video, scrittura, installazione... Qual'è la connessione, l'idée fixe cui le parti tendono?

MD -  Immagino sia il momento abbastanza estatico e segreto, del tutto fuori controllo, attraverso cui le pratiche di formalizzazione, non importa quanto elaborate e rituali, riescono infine in un discorso sul mondo. La stella: estetico e politico assieme, desiderio e mondo.
Ho stima per scrittori e artisti civili, cui la cultura italiana secondo-novecentesca deve molto: Pasolini per il cinema e l'attività giornalistica; Fabro per le arti visive. Nel mio periodo di formazione, prolungato e girovago al pari di quello di molti altri studenti italiani delle generazioni Erasmus, ho abitato in Germania, tra Berlino, Stoccarda, Tübingen e Monaco, a Londra, Parigi, Zurigo, New York.
Sono venuto in contatto con una tradizione concettuale per niente autoreferenziale o accademica, che credo di avere almeno in parte assimilato: l'interesse per discipline contigue o in apparenza remote, per la collaborazione con urbanisti e architetti del paesaggio, antropologi, naturalisti, commentatori, amministratori progressisti, è parte della professione d'artista.
Sarei lieto che vi fossero artisti capaci di scrivere editoriali, chiamati a commentare circostanze o episodi di rilevanza collettiva. Sembra che in Italia questo non succeda, anche se osservo con un mio defilato interesse che un determinato orientamento né intimista né semplicemente estetizzante si viene costituendo attorno al collettivo letterario Wu Ming e al manifesto (dai toni qui e là sin troppo roboanti) “New Italian Epic”.

 

Artext -  Cosa fare dei molti “ego” autoriali, come raccontarli?

MD - Ho una qualche difficoltà a porre enfasi sul’”ego” autoriale, anzi nei miei progetti cerco proprio di evitare che questo accada. Non trovo che sia sensato oggi presupporre un’eroicità come di default dell'artista: la posizione ha perduto credibilità. La grande letteratura di viaggio e non-fiction, da Conrad a Naipaul, porta in scena in forma drammatizzata la complessità dei processi transculturali di comprensione e traduzione. Ma il “cuore di tenebra” si dà oggi in forma postetnografica: la distanza, se di questo desideriamo parlare, si è polverizzata, è diffusa, interstiziale e ubiqua, condivide gli spazi della prossimità. La circostanza aggiunge difficoltà, e dissemina il viaggio, lo spostamento, lo sradicamento, dentro noi e subito attorno a noi. E' affascinante, trovo.
L’”autore” per me è per lo più un luogo interrogativo, un'attitudine alla decifrazione, al tatto, uno stile o una soglia di attenzione: in quanto tale, e solo se tale, è inesplicabile, ammette un'inesplicabilità.
Per quanto riguarda le pratiche di mobilità e di fieldwork: gli anni novanta si aprono con un progetto di iperprofessionalizzazione del viaggio d'artista. Questi diviene una sorta di etnografo, o di scienziato naturale. Si mimano protocolli scientifici; si indossano panni altrui.
A distanza di quasi due decenni trovo corretto riconoscere l’equivocità e la fallacia di questa impostazione. Trovo più calzante riconoscere che il viaggio è un genere performativo, congeniale a artisti caratterizzati da un pronunciato interesse per dimensioni installative e di ricerca outdoor.
Non c’è alcun bisogno di riconoscere, assimilare o convalidare la pretesa scientifica e accademica di un’impersonalità dei processi. Una performance tende a non seguire coreografie prefissate, ha una crescita interna connessa a contingenze situate e feedback del pubblico, ha dimensioni e perfino necessità aleatorie.
La casualità ha un enorme valore: se un testo di etnografia accademica è costretto a espungere ordinarietà e contingenza dalla trattazione per privilegiare l'irreprensibilità del procedimento, questo accade nel contesto di una finzione burocratica e riproduce un modello autoritario di esperienza o conoscenza. Un fieldwork artistico si colloca invece sul piano della scrittura di viaggio, della letteratura non-fiction. L'interlocutore decisivo è quello che si incontra per caso, il racconto divagato o l’impasse delle aspettative precostituite dischiudono la conoscenza più penetrante.

Michele Dantini
Michele Dantini, Cythère #14, 2008

 

Artext - Parli di Cythère come di un "saggio di antropologia dell'"immateriale". Puoi dire di questa apparente antitesi?

MD - Spingere l’immagine (fotografica o altro) oltre i margini del documentabile.
Dissolvere. Dislocare. Attraversiamo reti infrastrutturali e territori metropolitani, contesti dunque ipercostruiti, artificiali, accompagnati da paesaggi mentali e libidici costituitisi nel corso di migliaia di anni, nei tempi lunghi dell'evoluzione biologica della specie. Il desiderio di savane arborate e nidi notturni non ci abbandona, al punto che ci sforziamo pateticamente di ripristinare lembi di splendore primigenio, di Terra-prima-dell'Uomo, nei luoghi stessi della trasformazione, negli attici dei grattacieli o sotto le immense volte vetrate di serre e padiglioni artificiali, nelle sedi di corporations e grandi studi professionali, lungo le arterie urbane e interurbane, in contesti istituzionali la cui missione è (a tratti ambiguamente) quella della "conservazione".
La divaricazione tra mente e mondo è crescente: in ognuno di noi, nel profondo, è l'arcaico membro superstite di una specie relitta. Cythère è un progetto sulle tecnologie del miraggio, del desiderio, dell’ossessione “biofila” condotto attraverso l'attenzione alle finzioni di distanza, spostamento, splendore; ai dispositivi, le segnaletiche, le linee di consolidamento o frattura dell'illusione e gli artifici che l'hanno sorretta e generata. Ci affanniamo a ricostruire dispendiosi e vulnerabili Eden in vitro mentre dilapidiamo, subito dopo avere dilapidato. Questa compulsività non è comprensibile in termini antropocentrici: non abbiamo consapevolezza, né controllo. Lascio cadere ovvi propositi di denuncia: il mio atteggiamento oscilla piuttosto tra fascinazione e perplessità.

 

Artext - Se l'arte avrà ancora una funzione civile sarà quella di “narrare culture”, modificare attitudini, riconfigurare gerarchie conoscitive: tu dici che si tratta quasi di una forma di "scultura sociale"....

MD - Concepisco le immagini come ambiti di rapporto, agenzie di non violenza costituentisi in opposizione all'aggressività del discorso corrente. Siamo tutti, giorno dopo giorno, “target” di un autoritario marketing politico, economico, culturale. Un'opera d'arte sosta sulla soglia della comunicazione, sceglie e progetta la propria dissoluzione. Non esautora lo spettatore dei suoi territori cognitivi e emozionali, non pratica sopraffazione: è a suo modo egalitaria.

 

Artext - Alcuni tuoi riferimenti per arte ambientale, architettura e ecologia politica sono notoriamente Hans Haacke, Bas Jan Ader, Robert Smithson, Gordon Matta-Clark, Rem Koolhaas, Diller+Scofidio, Atelier Bow-wow. Vuoi dirci qualcosa sui tuoi riferimenti?

MD - Credo di collocarmi, come altri artisti neoconcettuali della generazione di inizio millennio, in una costellazione che incrocia Bas Jan Ader e Robert Smithson. “Art comes out from the inexplicable”. Mi diverte giocare con le genealogie elettive, trovo che abbiano una dimensione inventiva, dischiudono dimensioni di futuro.

Michele Dantini
Michele Dantini, Cythère #3, 2007

 

Artext - Ci puoi parlare dei tuoi progetti di microurbanistica del verde e parchi urbani?

MD - Tendo a sviluppare una progettualità che abbia un significato bioetico, orientata alla nozione di "cittadinanza ecologica". Non credo che la città sia un luogo esclusivamente antropizzato.
Possono esistere, essere perfino incoraggiati, ambiti di convivenza interspecifici. In concreto: si tratta per me di progettare spazi verdi che non siano giardini di sculture.
L’arte ambientale cui non di rado ci riferiamo è costruita attorno a un patetico equivoco, è attraversata da narrazioni veteroumanistiche e celebrative. Ignora, occupa, invade.
Intendo invece contribuire alla disseminazione di lembi di natura “selvaggia”, non regolata, entro la città: uccelli, insetti, flora spontanea (“erbacce”), microfauna. La nostra mente ha necessità di confrontarsi con processi naturali non regolati: ne va del suo equilibrio, del senso del limite. Esiste una codipendenza evolutiva.
Nel parco di Villa Bardini, ad esempio, a Firenze, un parco classico, all’italiana, ho opposto piccole e gentili infrazioni alla consueta attività del giardiniere. Questi è storicamente un alter ego del potere: il giardino all’italiana è la piena manifestazione del controllo verticale. Ho cercato di sottrarre lembi o frammenti del parco al taglio e alla manutenzione ordinaria, incoraggiando la crescita di erbe spontanee, il transito di uccelli e insetti dalla campagna circostante al cuore della città, la promiscuità di architettura e selva. Esiste qualcosa di semplice e glorioso nel filo d’erba, nell’insetto.
Oggi assistiamo a processi globali di antropizzazione. Stephen J. Meyer, biologo e naturalista, parla di una scomparsa della Grande Natura.
Ammetto di essere toccato dal tema, che è ovviamente un tema etico e politico non meno che “ambientale”. Possiamo riuscire a preservare indizi o memorie di Gea, a costruire alloggiamenti provvisori, cellule di biodiversità, nurseries? Nel produrre una “narrazione di viaggio” attraverso il Chianti per Tusciaelecta 2007, un mio personale Baedeker, ho proposto alle amministrazioni locali di sostenere il progetto di microbonifiche connesse tra di loro a creare un tessuto di corridoi e margini verdi che risolvano elasticamente, attraverso i centri abitati, il continuo trapasso dell’abitato in “incolto” e campagna, di campagna e “incolto” in abitato.
La delicatezza dei passaggi garantisce al territorio la conservazione dei propri tratti storici, culturali. Nel dedicarmi al progetto ho scoperto che la campagna è un territorio industriale in trasformazione, la vigna non certo è più quella “appoggiata” al pero o al melo del mezzadro. Prevalgono scelte corporate e criteri aziendali, e l’impiego delle macchine, con le trasformazioni sociali e ambientali che questo comporta, è irreversibile. Concordo con Boeri quando sostiene che, per accompagnare la trasformazione territoriale in Italia o in Europa, occorre disseminare e connettere microinterventi “virtuosi”, non costruire in scala monumentale.

 

Artext - Hai un’attività internazionale di saggista e lecturer, e una tua raccolta di saggi sul contemporaneo è stata appena pubblicata e tradotta da un editore americano. Vuoi dire qualcosa in proposito?

MD - Il saggio è per me un genere letterario, la lecture un genere performativo. Tutto qui. Non vedo differenze significative tra “produzione” e “riflessione”, o tra “arte” e “critica”, e condivido l’interesse contemporaneo per modelli o pratiche discorsivi.
Tra gli autori che più mi hanno formato figurano saggisti-scrittori - Longhi, Benjamin, Steiner, Starobinski, Geertz, Said, Clifford. Un saggio, se ben composto, richiede doti di acutezza, articolazione e simultaneità di pensiero, sensibilità tali da sfiorare la veggenza; e una commistione irripetibile di forza e delicatezza, soavità e fermezza, esitazione e ferocia.
La stessa cosa, credo, vale per l’opera d’arte, per qualsiasi “forma” o “produzione” estetica come tale. Coltivo l’ambizione di scambiare testo e immagine, parola e “figura” a livello espositivo, sovvertendo contesti, profili professionali, dispositivi, statuti.

 

Testi
- Michele Dantini : «Secrets of Perfect Opalescence». pdf.

 
 
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