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Arte e affetti...

 
Vivono VIVONO. Arte e affetti, HIV e AIDS in Italia. 1982 - 1996. Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci, Prato. 2025 Foto Andrea Rossetti


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Curata da Michele Bertolino

VIVONO. Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia. 1982-1996 è la prima mostra in un museo che ricostruisce la storia dimenticata delle artiste e degli artisti italiani colpiti dalla crisi dell’HIV-AIDS. Nelle sale in cui stai per entrare opere d’arte, poesie e video si combinano a materiali d’archivio e memorie personali per tracciare un possibile percorso che attraversa gli anni dal 1982 al 1996. Le due date sono scelte simboliche: il 1982 è l’anno in cui vengono registrati i primi casi di AIDS in Italia. Il 1996, invece, è l’anno in cui alla XI Conferenza internazionale sull’AIDS di Vancouver sono presentate le terapie HAART che annullano la carica virale.
La mostra è frutto di un lavoro di gruppo: l’attività di ricerca, la scrittura dei testi, la scelta delle opere e dei documenti è avvenuta grazie a lunghe discussioni, incontri e scambi che hanno coinvolto una collettività ampia. Quello che stai per vedere è un primo tentativo di ricostruzione di una memoria spesso dimenticata o, altre volte, cancellata, ma che è sopravvissuta grazie alla cura di attiviste e attivisti, amici, amiche e familiari delle artiste e artisti coinvolti, persone che non hanno smesso di ricordare.
È, inoltre, un’operazione legata al presente: lo sguardo su quegli anni è specifico, quindi non può essere esaustivo, ma accoglie i vuoti, i silenzi e gli errori. È però motivato dalle urgenze dell’oggi.
La mostra vuole essere un’occasione in cui riflettere su cosa è rimasto di quelle lotte e di quelle proposte artistiche: il diritto alla salute, alla privacy, alla sessualità, la dignità della persona nella malattia e nella sofferenza, il diritto a compiere le proprie scelte, la libertà.

Alcune domande hanno guidato la composizione della mostra: come si vivono l’amore e la gioia quando tutto intorno sembra scuro? Che fine fanno la rabbia e la speranza quando tutto sembra perduto? Come si respira, come si agisce insieme per costruire un futuro in un tempo di minaccia diffusa e vulnerabilità condivisa? Quali alleanze nascono per ritrovare il senso di un sorriso? Quali parole e immagini scegliamo per raccontare le nostre perdite e le nostre vittorie? Come ci guardiamo negli occhi?
La proposta della mostra è interpretare gli anni della crisi dell’HIV-AIDS in Italia come un momento generativo, in cui si sono formate alleanze inaspettate, in cui l’amore è diventato uno spazio di azione politica e si è tradotto in sostegno, affetto, cura. VIVONO è una storia collettiva e, per quanto possibile, è raccontata coralmente. Vuole essere un possibile ritratto per una generazione viva dove parole, immagini e voci si intrecciano con sesso, immaginazione e lutto ed evocano utopie che ancora ci appartengono, ancora pulsano, ancora vivono.

VivonoMaurizio Vetrugno Mass Production, 1995 Courtesy l’artista / the Artist Foto / photo Maria Bruni


LE TAVOLE DI DOCUMENTAZIONE

La ricerca documentale in archivi pubblici e privati è la spina dorsale della mostra. Nelle sale incontrerai alcune tavole che presentano riproduzioni di documenti di vario tipo. Sono lavagne e tavole di ricerca che presentano una possibile combinazione dei contenuti. Proprio come tavoli di lavoro, fermi in un angolo o in transito tra le sale, sottolineano come la ricostruzione del periodo tra il 1982 e il 1996 sia un lavoro in corso, una ricerca che accoglie l’errore e le assenze. Un aspetto importante: i documenti non sono mostrati in ordine cronologico. Ciascuna bacheca li raduna attorno a parole specifiche, che toccano temi diversi.
In ordine incontrerai: Virus, Stigma, Cura, Tempo, Merda, Isolamento, Comunità, Festa, Affetto, Desiderio. Le tavole sono state pensate e sviluppate insieme a Valeria Calvino, Daniele Calzavara e i Conigli Bianchi (Tony Allotta, Luca Modesti “Er Baghetta” e Paola Vannutelli). Tra i i documenti, TOMBOYS DON’T CRY e Emmanuel Yoro inseriscono alcune opere prodotte per questa mostra, con l’intento di sottolineare le assenze in quella storia o evidenziarne alcuni aspetti.
Le opere d’arte sono tracce o testimonianze, spesso proposte con schiettezza, come quando si grida a pieni polmoni, altre volte solamente suggerite, come sussurri. Parlano di esperienze di vita, sono fatte di dolore e gioia e coniugano ricerca estetica, attivismo politico e storie personali. Incontrerai anche opere di artiste e artisti internazionali che hanno esposto in Italia tra il 1982 e il 1996, e che hanno avuto un impatto importante sulla comunità artistica o sull’attivismo.
Completano l’allestimento le Coperte dei Nomi, Names Project AIDS Memorial Quilt. Sono una serie di coperte, realizzate da amiche, amici e familiari di persone morte di AIDS, per ricordare l’amico o amante: ampie 90x180cm riportano il nome della persona defunta e disegni di oggetti o simboli che possano ricordarla. Sono cucite a gruppi di 8 a creare un pannello di 360x360 cm. È un gesto di memoria, ad oggi una grande opera collettiva. In Italia è l’ASA (Associazione Solidarietà AIDS) di Milano che le conserva. Troverai anche tre sale dedicate a singoli artisti: Nino Gennaro, Francesco Torrini e Patrizia Vicinelli.

LE OPERE SCELTE
Rappresentano tre percorsi specifici di quegli anni: Vicinelli dà alla parola uno spessore fisico, la trasforma in corpo fragile e combattivo, in grado di toccare la libertà. Nino Gennaro parla di affetto e amore, dell’importanza della gioia e del riconoscimento reciproco: unisce immagini e parole. Francesco Torrini guarda al corpo come luogo di memoria e lavora con un’attenzione spirituale laica. In tutte le opere che vedrai nelle prossime sale, l’HIV-AIDS non è un tema o un soggetto, è invece una sensibilità tramite cui guardare al mondo, coglierne la fragilità e proporre la bellezza – sensibile, relazionale e affettiva – come una risposta possibile a pregiudizi, violenze e stigma causati da una pandemia spesso silenziata.

VivonoVIVONO. Arte e affetti, HIV e AIDS in Italia. 1982 - 1996. Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci, Prato. 2025 Foto Andrea Rossetti



Morire d'Amore
Come sopravvivono le emozioni
Artext - Michele Bertolino


Artext – Da dove nasce questa mostra, Vivono? Qual è stato l'input iniziale?

Michele Bertolino – L’input iniziale, è il fatto che non esista una ricerca di questo tipo in Italia — non è stata fatta — mentre esiste un’ampia letteratura worldwide, direi, su artisti con HIV e sui tipi di pratiche artistiche che hanno realizzato. In modo quasi banale, mentre parlavo con una persona che da molti anni fa ricerca sul rapporto tra arti, HIV e AIDS, ho chiesto: “Hai mai incontrato degli artisti italiani?”.
Lui i mi ha risposto di no. È successo circa quattro anni fa, e da quel “no” mi sono detto: mi sembra molto strano che non ci siano artisti o artiste italiane che, tra gli anni Ottanta e Novanta, nel pieno della crisi HIV-AIDS, abbiano parlato o raccontato, in qualche modo o forma, che cosa sia stato vivere in quegli anni con l’HIV. Da lì è nata la necessità di costruire una ricerca, che poi significa creare una sorta di archivio di esperienze, immagini e pratiche artistiche che possano rispondere a quella domanda: se ci sono, chi sono e che cosa hanno fatto.

VivonoCorrado Levi Paolo Paolo, 1984 acrilico su tela / acrylic on canvas, 380x210 cm Courtesy l’artista / the Artist Collezione privata.


Artext – “Vivono” dunque è un titolo che restituisce il movimento di un tempo che non finisce, un tempo che in realtà è un archivio di immagini, voci, opere. La mostra sembra in qualche modo ricostruire un atlante della memoria affettiva, un atlante di forme e di pathos. E dunque: come si ricordano le emozioni? E i corpi?

Michele Bertolino – Vivono, la mostra, è un tentativo di proporre una possibilità di ricordare. Vivono è un titolo molto semplice, che in realtà è nato mentre mi trovavo al Cassero di Bologna. Lì conservano un archivio video del festival Blowin' Bubbles, dedicato a video e cortometraggi su OK2IDS, e uno di questi cortometraggi si intitola Essi vivono. Da lì è stato abbastanza naturale togliere “essi” e lasciare solo il verbo, al tempo presente. Perché la mostra è un’operazione al tempo presente, che ricorda al tempo presente: racconta quegli anni leggendoli attraverso le urgenze di oggi. Non guarda a quel periodo in modo nostalgico.
Come si ricordano le emozioni nei corpi? In maniera molto semplice — anche se complessa da realizzare — raccogliendo persone che hanno attraversato quegli anni e che hanno deciso di non dimenticarli. C’è una frase di Nino Gennaro che dice: “Finché esistono gli altri, esisterò anch’io.”
Il ricordo delle emozioni e dei corpi nasce nel momento in cui qualcuno si assume la responsabilità di incorporare quell’emozione o quel corpo che non c’è più, di portarlo dentro di sé e ricordarlo. Così facendo, quel corpo o quell’emozione che non ci sono più possono incontrare persone che non li hanno conosciuti. Io, per esempio, sono nato nel ’92, quindi non ho attraversato quegli anni.
Allora come si ricordano i corpi e le emozioni?
In questo modo: parlando, assumendosi la responsabilità di ricordare, senza distogliere lo sguardo, ma guardando proprio dove sembra che non ci sia più niente da vedere.

VivonoVIVONO. Arte e affetti, HIV e AIDS in Italia. 1982 - 1996. Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci, Prato. 2025 Foto Andrea Rossetti.


Artext – Nella realtà, come hai ricostruito questo archivio?

Michele Bertolino – È stata una necessità, fin dall’inizio della ricerca, affiancare a un’indagine più legata all’immaginario e alle pratiche artistiche una ricerca con una dimensione storica e politica, che affrontasse la storia sociale italiana, l’artivismo, le forme di associazionismo, eccetera. È stato abbastanza automatico, perché non esiste l’una senza l’altra, in qualche modo.
Non si riescono a capire le produzioni artistiche senza conoscere il contesto che le ha generate. In questo senso è un punto di vista abbastanza materialista dell’arte, no? Non credo che le opere nascano per caso.
Quindi fin da subito l’archivio ha avuto diverse fasi di costruzione. C’è stata una prima fase che ho realizzato io, in casa, stilando una timeline: un documento Word diviso per anni, e all’interno di ogni anno un elenco dettagliato — “il primo gennaio è successo questo, il cinque gennaio è successo quest’altro” — dal 1982 al 1996. Proprio una lista di eventi. Questo documento l’ho poi condiviso con una serie di persone: attivisti, figure più legate all’accademia, amici e amiche interessati a quegli anni, storici dell’arte. Ognuno ha aggiunto nuove entry alla timeline, che è diventata molto lunga: oggi è un documento di circa 120 pagine.
Quel documento è stato poi tradotto in immagini. Insieme a una curatrice, Isabella De Giorgis, e grazie agli archivi consultati, abbiamo provato a capire quale documento potesse raccontare ciascuna entry. Per esempio: “in data X il Ministero della Sanità rilascia una circolare con la definizione di AIDS”. Allora vai a cercare quella circolare, e quello diventa il documento che racconta quell’evento. Così si è costruito l’archivio di documenti, un archivio molto ampio che esiste in formato digitale. È privato — nel senso che è mio, e vi accedono le persone che hanno lavorato in qualche modo alla mostra — ma non è pubblico, perché i materiali provengono da archivi diversi.
Questo archivio è stato poi messo in gioco in due modi. Il primo è quello che si vede in mostra, dove non c’è più una cronologia o una linearità, ma ci sono delle bacheche, dei tavoli di lavoro che, nella loro stessa struttura, esprimono l’idea di qualcosa di non finito, un processo in corso, una scrittura della storia in divenire che può cambiare. Proprio perché — come dicevo prima — si tratta di un ricordo al tempo presente: il mio ricordo risponde a urgenze che sono attuali oggi, ma magari tra due anni non lo saranno più. La mostra non è “la mostra” sulla storia dell’HIV-AIDS in Italia, ma una mostra sulla possibilità di raccontarla.
La scelta, quindi, non è stata di seguire una linearità cronologica, ma di lavorare per aree tematiche. È stata una decisione condivisa con il comitato scientifico, che ha lavorato con me per capire come presentare questi documenti. Abbiamo individuato alcune parole-chiave che, secondo loro e secondo me, funzionano bene per raccontare quegli anni.

VivonoVIVONO. Arte e affetti, HIV e AIDS in Italia. 1982 - 1996. Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci, Prato. 2025 Foto Andrea Rossetti.


Artext – Dunque parole che generano dei nuclei di senso attorno a cui si organizza la lettura di quegli anni?

Michele Bertolino – Sì, sono universi semantici che abbiamo costruito tra di noi, un work in work, un work in progress, è un processo di lavoro.
Sì, sono dieci parole che abbiamo individuato e che sono scritte nel piccolo booklet — virus, stigma, cura, tempo, merda, isolamento, festa, comunità, affetto e desiderio.
L’altro modo in cui questi documenti sono stati messi in gioco è il secondo volume del catalogo, quello più ampio, dove invece abbiamo mantenuto la timeline, la linearità secca e diretta. Ci sono però le scansioni dei documenti, affiancate alle opere, senza soluzione di continuità, nella progressione tra il 1982 e il 1996. Quello per noi è inteso come uno strumento di lavoro per altre persone, proprio perché non era mai stato fatto un lavoro di questo tipo. L’idea è quella di utilizzare i cataloghi come spazi per aprire possibilità di discorso, come strumenti di lavoro per ricerche successive

Artext – Leggendo il catalogo emerge in particolare come una sorta di riattivazione dell’inconscio, di un’attività psichica che sembrava ormai dimenticata.
Michele Bertolino – Posso dirti che, in mostra, io non parlerei tanto di inconscio, ma di una memoria che è stata rimossa, che non è stata raccontata, e che la mostra — come il progetto e i cataloghi — prova a rimettere in moto.

Artext – Si, nella parte iniziale del tuo saggio – Amiamo insieme al più presto, il tema della memoria sembra centrale.

Michele Bertolino – Esatto, mostrando come in realtà quella memoria lì, benché sia stata cancellata — nel senso che da un certo punto in poi non è più stata raccontata — è sopravvissuta nella materialità di alcune pratiche, che si sono fatte e che si sono continuate a fare.
Per esempio, la riduzione del danno è una pratica che affonda le sue radici nella lotta contro l’HIV e contro l’AIDS. Sì, forse questo è anche il versante psicologico dell’affrontare la questione. Ecco, in quel senso ti direi che, la mostra rimette in gioco — io non la chiamerei mai “psiche” — ma rimette in moto delle pratiche che avevamo dimenticato, che affondano la loro genealogia in quegli anni.
In questo senso, come dicevo all’inizio, quegli anni ci interessava guardarli in una prospettiva generativa.

Artext – Ma accade anche qualcosa di sorprendente, ciò che chiamavamo “rivoluzione sessuale” a un certo punto si interrompe, si blocca, e questo lascia una ferita psichica.

Michele Bertolino – È una questione a cui io non posso risponderti, perché quel tipo di trauma — chiamiamolo così, la rottura della rivoluzione sessuale del ’68 o del ’77, la frattura di quella stagione di cambiamento — io non l’ho vissuta.
L’ho conosciuta solo attraverso i libri che ho letto, le persone che me l’hanno raccontata, le cose che ho studiato. Però non posso viverla davvero: un trauma, se ti viene raccontato, non ti permette di viverlo realmente.

VivonoVIVONO. Arte e affetti, HIV e AIDS in Italia. 1982 - 1996. Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci, Prato. 2025 Foto Andrea Rossetti.


Artext – Allora ti chiedo questo, in senso generazionale, come ti relazioni oggi all’eredità di quel trauma — non vissuto direttamente — ma che continua a influenzare le pratiche, i gesti e le forme di vita che la mostra ricostruisce?

Michele Bertolino – Nel catalogo c’è una parte, nel Reader, che è una conversazione con un intervento molto bello, dove una persona parla della responsabilità del trauma: il fatto che la mia generazione — quella più giovane, maschi e omosessuali — e anche la generazione precedente, siamo diventati sessualmente attivi con questo trauma dell’AIDS, senza però sapere realmente cosa fosse.
Posso però dirti che, secondo me, la mostra mette in gioco una memoria, guardando a una genealogia delle cose che facciamo oggi — ma che le facciamo oggi perché le abbiamo fatte negli anni ’80 e ’90, nel contesto della crisi HIV-AIDS — iniziando a sviluppare pratiche che all’epoca ci hanno permesso di sopravvivere e che oggi ci permettono di esistere.

Artext – Dunque, più che costruire una storia dell’arte, ti interessa restituire le vite e le urgenze da cui le opere emergono. Come questa prospettiva — in cui l’HIV diventa una lente esperienziale più che un tema — orienta il tuo modo di raccontare gli artisti e di leggere le loro opere?

Michele Bertolino – Faccio una premessa: non sono né storico né critico d’arte. Ho studiato filosofia — filosofia analitica, filosofia dell’linguaggio, la logica del linguaggio americana, quasi matematica. Quindi non ho una formazione da storico dell’arte né da critico d’arte. Lo preciso perché la mostra non è un lavoro di storia dell’arte: è un lavoro di recupero di memoria, per me è stato abbastanza automatico parlare degli artisti come delle vite di queste persone.

L’HIV non è un tema, non è mai un tema: è una griglia attraverso cui guardare il mondo. È una griglia che obbliga a riflettere sul tempo finito, limitato, stretto, su un corpo fragile; obbliga a rivedere e ripensare il desiderio, a rimmaginare l’affetto, a riposizionarci nel mondo.
In questo senso, l’HIV non è un oggetto, ma un’esperienza. Le opere, prima di essere opere o posizioni artistiche, sono esperienze di vita. Quindi, bisogna raccontare le vite: se non raccontiamo le vite, non capiamo le opere. Le opere non nascono come fiori nel deserto, ma in risposta a urgenze che le artiste e gli artisti hanno incontrato nella loro vita, e sono legate a doppia mandata a queste esperienze, a maggior ragione quando parlano così strettamente di ciò che queste persone stavano vivendo.

Artext – Quindi la selezione delle opere nasce da una rete di relazioni e responsabilità condivise. In che modo questa trama affettiva ha influenzato non solo ciò che hai trovato, ma anche il modo in cui hai deciso di costruire la mostra?

Michele Bertolino – Le opere non le ho cercate, tutto è venuto insieme.
Nel sottotitolo c’è la parola affetti — affetto, che vuol dire sentimento, che vuol dire affezione, che vuol dire stare insieme. Non è un contenuto, ma un metodo. La mostra è costruita sulla base degli affetti, sulla base degli incontri: io parlo con X, X mi dice di parlare con Y, Y mi dice di parlare con Z, e così via. C’è questa connessione: le persone mi rimandano a chi forse ha qualcosa in casa che può aiutare.
Le opere sono selezionate in questo modo: tramite reti affettive di chi ha deciso di conservare quelle opere. La memoria sopravvive innanzitutto nella materialità del prendersi la responsabilità di ricordare qualcosa. È un gesto quotidiano: vivere insieme all’opera di tuo fratello, del tuo ex partner o di un tuo amico è un prendersi una responsabilità materiale di conservare quell’opera.
Così si è costruita la lista degli artisti, la ricerca e poi le opere.

VivonoVIVONO. Arte e affetti, HIV e AIDS in Italia. 1982 - 1996. Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci, Prato. 2025 Foto Andrea Rossetti.


Artext – Nella mostra si parla di attivismo nel lavoro di quegli artisti, ma allo stesso tempo la dimensione politica sembra più complessa. Come interpreti il rapporto tra attivismo e posizione politica nelle opere e nella mostra?

Michele Bertolino – Questa è una questione molto complessa che richiede una risposta molto lunga. Io non sono un attivista, sono un curatore, certo, ma la dimensione che hai individuato è in qualche modo politica. Non è più body art nel senso di mostrare il tuo corpo, non è ancora arte relazionale perché implica comportamenti di socialità, ma è attivismo puro nel senso che è ancora vita. E secondo me è una dimensione politica.
Ci sono alcuni artisti in mostra che facevano attivismo, e altri che non lo facevano. Per esempio, Nino Gennaro faceva attivismo: scendeva in piazza, occupava il suolo pubblico, scriveva manifesti, organizzava manifestazioni. Francesco Torrini, invece, il suo lavoro ha un approfondimento politico estremamente importante: richiama sempre l’esistenza della comunità, chiede alla comunità di riconoscersi, di rispondere — In questo senso, c’è sempre una ricerca di una posizionalità politica.
Preferisco parlare di posizione politica piuttosto che di attivismo, perché l’attivismo implica anche azioni concrete che io non posso definire in modo assoluto. So solo che erano artisti che hanno sempre interpretato il loro ruolo con una forte posizione politica.

Artext – Un’ultima questione: come è cambiato il nostro modo di vedere, da quegli anni? Rispetto a questa esperienza, se la crisi ha cambiato il modo di vedere il mondo, ha cambiato anche il nostro modo di vedere…

Michele Bertolino – Quella è la domanda. Pensa al diritto alla salute: con l’attivismo HIV-AIDS, il paziente ha assunto una posizionalità autonoma, un ruolo, ed è diventato una figura che parla per sé. Questo è stato possibile grazie al ruolo incredibile che hanno avuto le persone con HIV nel riassumere la narrazione su di sé.…

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