Artext - Warburg, nel concetto di Nachleben der Antike, individua nella sopravvivenza delle forme un principio di inquietudine: l’immagine non è mai chiusa nel suo tempo, ma ritorna, si riattiva, sopravvive come sintomo, come energia psichica e culturale che attraversa i secoli.
Lacan, nella sua lettura di Freud, chiama das Ding — la Cosa — ciò che resta fuori dal linguaggio, ciò che il simbolico non riesce a catturare e che tuttavia struttura il desiderio.
Entrambi, pur da prospettive differenti, riconoscono un nucleo irriducibile, un resto che resiste alla storicizzazione e alla rappresentazione: in Warburg, come sopravvivenza figurale; in Lacan, come presenza del reale.
Allora la domanda potrebbe essere questa: quando un’immagine sopravvive, che cosa sopravvive davvero — la forma culturale o la pulsazione del desiderio che la attraversa?
E in che modo la Cosa lacaniana, come ciò che ritorna senza essere mai presente, può aiutarci a comprendere la temporalità discontinua delle immagini, il loro farsi sintomo o traccia nella cultura visiva contemporanea?
Valentina Galeotti - Sono entrambe due domande molto interessanti alle quali risponderei con una. Vorrei premettere che rispetto alla psicoanalisi implicata all’arte sento di condividere con le dovute differenze che la mia ricerca sostiene, la riflessione aperta da Jacques Lacan nella ripresa della sublimazione introdotta da Freud, il quale propone in modo a mio avviso molto efficace e foriero di questioni, un modo di accostare la psicoanalisi all’arte partendo dall’implicazione ad essa di ciò che non si può, per statuto rappresentare. Dunque considerando il fare arte come una disciplina che pratica un modo “inventivo” di “avere a che fare” con ciò che di più profondo appartiene al soggetto.
Per rispondere mi avvarrò di una breve digressione su quelle che sono le aree e i modi di trattare il Reale, quando per Reale lacaniano intendiamo ciò che non è possibile rappresentare, dunque ciò di cui patiamo e di cui non riusciamo a dire, qualcosa che persiste e insiste nel soggetto in rapporto alla sua storia e al suo modo di convivere con essa.
Potremmo affermare che il modo in cui un soggetto, in questo caso un artista, veicola la propria pulsione in una forma sublimata può essere individuabile mediante tre topiche: la prima del vuoto, la seconda del perturbante, la terza della lettera.
Mentre la prima si pone in rapporto al Reale nella dimensione della sottrazione e quindi dell’evocazione, la seconda secondo il Punctum o macchia cieca, la terza può essere definita come un qualcosa che si inscrive in un’immagine segno , estratta da un’operazione di estrema riduzione. L’aspetto che unisce queste tre topiche è che tutte si muovono intorno ad un centro incandescente, il Reale appunto. In questo senso l’arte è una pratica che tratta di esso, poiché in diversi modi ad esso si accosta.
Per rispondere alla sua domanda potremmo affermare che un’immagine sopravvive nell’inconscio, perché è questa la dimensione di cui uno psicanalista si occupa, quando essa è divenuta traccia, scena matrice, resto, sedimentazione.
Deleuze scrive che “genealogia vuol dire dunque origine e nascita, ma anche differenza o distanza dall’origine” .
Solidali con questa affermazione del filosofo francese, si intende l’immagine che sopravvive in virtù sia di una memoria antica ma anche allo stesso tempo di una differenza che in modo insopprimibile viene prodotta nel tempo grazie alla natura plastica dell’inconscio e punto molto importante, della pulsione al lavoro intorno a questa stessa traccia.
Un primo esempio che mi limiterò unicamente a citare rispetto alla traccia reperibili nell’opera d’arte è la serie dell’opera passi di Alfredo Pirri. La superficie specchiante viene ad ogni passo trasformata, mutata, sotto il peso dell’urto dei passi che trasposti nell’inconscio, possono assumere le sembianze della pulsione e delle contingenze.
La posta in gioca diverrà appunto non tanto un contorno della figura, il significato di essa, quanto quel tracciato in atto dinamico e sopravvivente dell’immagine stessa.
Ecco, a mio avviso il modo di intendere l’estetica psicoanalitica, così come evocata nei suoi seminari da Lacan.
Con le parole dello stesso artista Pirri: “Le opere rimangono attuali fino a quando non sono ridotte al loro significato, per vivere devono liberarsi dall’abbraccio del contenuto, seppure si esprimano per sensi e contenuti, contribuendo al loro rinnovamento nella società. Dovremmo abbandonare l’abitudine di pensare alle opere d’arte come a un veicolo di trasporto delle idee, e accettarne tutta la loro terribile solitudine”.
Artext - Scienza del sintomo, dunque, come «patologia del tempo» resa leggibile agli altri. Ma cosa sta accadendo al nostro inconscio, illuminato a giorno dai dispositivi elettronici?
Oggi, nell’epoca del simulacro e dell’immagine proliferante, cosa resta di quel pathos originario? Le immagini continuano a custodire un reale, o ne sono ormai soltanto la superficie riflettente? E in che modo l’arte — come la psicoanalisi — può ancora farsi luogo di resistenza, spazio in cui il visibile trattiene ciò che sfugge alla rappresentazione?
Cosa eccede? L’interruzione conferita dalla discontinuità della proposizione, dall’alterazione dello spartito, dalla deviazione formale dei testi più celebri, ciò che consente al soggetto una sospensione dal sapere e il disorientamento che ne deriva?
Valentina Galeotti - Con l’evocazione del concetto di arte come pratica della resistenza, luogo di ciò che sfugge alla rappresentazione, dimensione che infrange anziché comporre, forza che si contrappone alla rappresentazione in virtù di una presentazione, ci collochiamo in un solco molto battuto da filosofi come Adorno ed Heidegger.
In modo particolare Adorno nella sua estetica ha definito l’arte come enigma e dunque il luogo privilegiato dove ciò che altrove viene assimilato, compreso, narrato, nell’opera d’arte nello specifico nell’opera d’arte di alcune opere d’arte del novecento, la dimensione della frattura, della non comprensibilità, della discontinuità, trova la sua casa.
Pensiamo ad esempio ad un’immagine, quella del muro, elemento di cui mi sono molto occupata nel mio primo saggio,
La verità della bellezza.
L’opera d’arte, nel suo statuto di “elemento che sfugge” abita sempre un bordo, un dentro e un fuori, una zona estima direbbe Lacan e a mio avviso è molto importante pensando all’arte oggi, che essa continui ad abitare questo bordo di non comprensibilità e soprattutto di libertà rispetto a chi chiede ad essa e alle pratiche artistiche in genere una sorta di debito di salvezza. Sarebbe bello continuare a pensare che l’arte non assolva mai a questo debito cosi da detenere la sua luce.
Nan Goldin Still from Stendhal Syndrome, 2024 © Nan Goldin Courtesy Gagosian
Artext - J.T. Mitchell propone un’iconologia che considera le immagini come agenti viventi e ideologici; Freud e Lacan descrivono il sintomo come formazione dell’inconscio che ritorna come effetto.
In che modo, secondo te, possiamo leggere oggi un’opera d’arte come “sintomo culturale” — cioè come immagine che non solo rappresenta, ma agisce, condensa desiderio e memoria, e chiede un’interpretazione che sia insieme iconologica e clinica? George Didi-Huberman sostiene che l’immagine non è mai completa o autosufficiente: è una “lacuna”, un frammento che non dice tutto, che presenta un’assenza costitutiva e richiede un’indagine “archeologica”. Non è un oggetto trasparente da decifrare, ma uno “strappo” nel pensiero che ci mette in contatto con il “nocciolo del reale”.
In che modo, oggi, la psicoanalisi può ancora dialogare con l’immagine a partire da questa mancanza strutturale — da ciò che nell’immagine resiste alla visione e nella parola resiste al senso?
Valentina Galeotti - Rispetto all’interpretazione insieme iconologica e clinica credo sia opportuno sollevare alcune questioni. Un aspetto da cui forse è bene partire è che da parte dello psicoanalista, e della psicoanalisi in generale, non si tratta di interpretare l’opera ma di rispettarne lo statuto enigmatico: “L’arte è quel che resta dopo che in essa si è perso ciò che doveva esercitare una funzione dapprima magica e poi cultuale. Essa ci rimette “il proprio a che scopo” – detto in modo paradossale; la propria razionalità arcaica – e lo modifica con un momento del proprio in sè” . Ancora “Per il suo enigma manca la chiave come manca per le scritture di vari popoli scomparsi” .
Ecco, questo statuto può essere accostabile all’inconscio poiché di esso sarà sempre evocabile una parte, una pulsazione, un frammento, mai la totalità proprio alla luce del fatto che non lo si concepisce come una scatola contenente oggetti da catalogare, episodi da rimemorare, bensì come funzione in atto e in atto di dirsi.
Per questo motivo come nell’opera d’arte un ricordo evocato nella stanza d’analisi non sarà mai evocato nel medesimo modo lineare e deterministico: esso sarà ogni volta risignificato alla luce di altri eventi, frammenti, accadimenti, ed è qui, altro grande tema, che decade lo statuto di verità.
Allo stesso modo, resisteranno sempre alcune tracce irremovibili, mineralizzate, che faranno da bussola soggettiva nella vita di un soggetto, parole-trauma potremmo dire, che assoggetteranno questi ad una ripetizione inesorabile e solo una risignificazione e una torsione di esse può permettere ad una persona di “essere nel mondo” in modo nuovo.
Gli artisti, hanno trovato un modo per dire di questo indicibile tramite la pratica simbolico immaginaria dell’arte. Non si tratta dunque di mimesi come nell’800, di traduzione simbolica dell’inconscio come ad esempio nella scrittura automatica di Breton, ma di rendere plasticamente ciò di cui un soggetto vive, gode, e, di conseguenza, patisce.
Da questo punto di vista trattare l’arte da un punto di vista psicoanalitico riguarda molto la clinica ma in modo particolare riguarda la “strada soggettiva”, altrimenti chiamato processo di soggettivazione che ogni artista ha scelto.
Alcuni esempi: Nicola Alessandrini, il quale ha risposto al trauma della carne e delle urla udite da bambino nei pressi del mattatoio con dei disegni orrorifici, permeati di tessuti, carne, urla; Parmiggiani che tramite le delocazioni e il relativo utilizzo del fuoco ripete la scena matrice del trauma dell’incendio; Isgrò che continua a cancellare in risposta al trauma della cancellazione che temeva e osservava a partire dalla morte del suo piccolo amico; Boccioni e i ripetuti ritratti alla madre per simbolizzare un lutto impossibile in termini di separazione. Questi alcuni nomi, ma ne potremmo fare molti. Potremmo definirli tutti artisti-maestri del trauma del reale.
Chiara Camoni Chiamare a raduno. Veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024
Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio
Artext - Qual è, oggi, il punto centrale della tua analisi e dell’arte?
Può esistere un’arte critica o una critica dell’arte — un luogo da cui guardare e parlare — quando ogni cosa si è dispersa in frammenti?
C’è ancora, nella tua prospettiva, un asse, un punto fermo intorno al quale ruota l’esperienza del soggetto e dell’opera, o dobbiamo accettare che il senso si dia solo nella frammentazione, nella deriva, nel movimento continuo?
E se esiste un punto centrale, è forse proprio ciò che manca: non un fondamento stabile ma una fessura, un vuoto operativo che tiene insieme. In termini lacaniani è il punto di impossibilità che dice il soggetto. Barthes vede il frammento come continuazione del desiderio; Deleuze mostra il senso come superficie in movimento.
Così il centro non è luogo di stabilità ma evento che illumina.
Il frammento allora non è dispersione ma relazione: il centro è ascolto del taglio, e nel taglio la luce passa. Nei tuoi scritti torna spesso l’idea che “ogni arte si organizza attorno al vuoto”.
Come si lavora oggi, artisticamente o psichicamente, con uno spazio non saturo — uno spazio che invita il soggetto a “bordarlo”, come direbbe Lacan?»
Valentina Galeotti - Questa domanda illumina il lavoro che un analista, ancora prima l’artista, continuamente compiono.
Come avere a che fare con quel vuoto incandescente che aspira il soggetto sin dalla nascita? Cosa fare di quelle scene matrice, quei significanti-proiettile prodotti dall’Altro a volte ancora prima di nascere, cosa dire di quei significanti che “predestinano” un soggetto e lo orientano in modo non sempre gioioso, nel mondo? “Stupido”, “bella”, “sciocca”, “rovina”, “peso”, “ingordo”, cosa fare di questi e altri appellativi prodotti dall’Altro con cui un soggetto da sempre fa i conti?
In altre parole, se alcuni riferimenti come quelli citati prima, servono alla vita del soggetto come “trauma” positivo che lo umanizza e lo immette nel mondo, dall’altro lato lo segnano e lo orientano nelle scelte di vita, affettive, lavorative, sessuali. Ecco l’artista compie di questi significanti pioggia un lavoro di simbolizzazioni immaginarie. Conferisce una forma alla pulsione e, nel caso dei grandi artisti, lo rapporta al grande Altro del mercato e del mondo.
Questo vuoto di cui tu parli può prendere il nome di Das Ding, oggetto a, Godimento, molto spesso, non sempre, assimilabile al primo oggetto di amore, la madre, rispetto a cui il soggetto si trova più o meno a girare intorno: nel caso della psicosi con supplenze immaginarie ad esempio, nel caso della nevrosi con dei sintomi più o meno comuni.
Lacan parla di Sinthomo nella dimensione in cui un soggetto impara ad avere a che fare con questo buco centrale, ossia una sorta di soluzione, di compromesso rispetto al desiderio o al godimento dell’Altro.
Da questo ne deriva, e qui un punto fondamentale, che nel rapporto tra vita e opera di un artista nessuna riduzione dell’una sull’altra o viceversa è possibile.
James Lee Byars Byars is Elephant, 1997 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 Pinault Collection, Foto Agostino Osio
Artext - Nella faglia di questa ricostruzione, nel punto di arresto di essa, qualcosa di interessante avviene. Nella restituzione critica — là dove la luce si arresta — avviene non solo il miracolo della forma, ma ciò che accade nella traccia.
Perché non cessa mai di avvenire — e che cosa questo ha a che fare con l’arte?
Nel tuo lavoro, come l’arte e la psicoanalisi possono innestarsi in questo punto incandescente?
Entrambe sono pratiche della lalangue, entrambe trattano l’impossibile, il non simbolizzabile, il non significabile.
Entrambe trattano dell’incontro con il reale che accade nell’opera così come nella seduta analitica.
Valentina Galeotti - Rispetto al reale che accade nella seduta analitica implicato all’arte pensiamo alle opere di Anselm Kiefer, paradigmatiche da questo punto di vista. L’artista Anselm Kiefer in un celebre testo seppure in modo laterale rispetto al nostro discorso parla di eredità, resti, sedimentazioni e cosa fare con essi.
Da uno studio, di certo parziale, che forse mai potrebbe definirsi esaustivo dell’opera dell’artista, si può assumere che il tempo e il suo dispiegarsi, siano una componente decisiva delle sue opere.
Le sue opere sembrano andare in direzione di quello che in qualche modo accade di un prima che è avvenuto e che allo stesso tempo non cessa di non scriversi, un prima dialettico che contiene all’interno diverse epoche, come direbbe Kiefer ossia il passato, il presente il futuro e allo stesso tempo oltre alla nostra epoca quella geologica ed astronomica.
La storia, per questo artista, è ovunque. Essa irradia ogni sua opera dai libri, dai dipinti, dalla scrittura, ammesso che queste siano per lui mezzi espressivi differenti. La storia dunque, ma con una accezione non convenzionalmente intesa.
Quando Kiefer introdusse il lavoro dei Sette Palazzi Celesti affermò di venire ripetutamente attratto dalle rovine, scenario riconducibile alla sua infanzia immersa nelle bombe dove camminava a piedi nudi nel suo giardino di casa, con la cera nelle orecchie, che i suoi genitori mettevano lui per proteggersi dal suono insistente delle bombe.
Le rovine, cosi come il sottofondo diffuso, lo sciame sonoro, cifra di Kiefer, sembrano cosi racchiudere questo prima ossia, un qualcosa che è nell’atto e che ha inizio e fine al suo interno.
Leggiamo Kiefer:
Dobbiamo considerare le rovine della storia non come un fine ma come inizio. L’opera d’arte stessa è un inizio, un salto, un balzo in avanti, anche se è offuscata o se tutto ciò che accade è già una ripetizione.
Ecco, questo mi sembra un buon esempio di opera d’arte nell’atto di dirsi e di come l’infanzia e le tracce risignificate di essa trovino una forma sublime e luminosa.
Note - 1. Questa classificazione è stata, specificandone la flessibilità e la plasticità, approfondita da Massimo Recalcati nel testo Il miracolo della forma, Per un’estetica psicoanalitica, Bruno Mondadori, 2011.
- 2. Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione.
- 3. Estratto dal testo “Dal taglio la luce”, Valentina Galeotti, Castelvecchi, 2024.
- 4. T. Adorno, Teoria estetica, Einaudi Editore, Milano, p. 171.
- 5. Ibidem.
Benni Bosetto in Pirelli HangarBicocca A cura di Fiammetta Griccioli, 2026.
Valentina Galeotti
psicoanalista, Responsabile equipe Centro Jonas Roma, Presidente Società romana di psicoanalisi, docente invitata presso Rufa, Rome Fine University of Arts. Vive e lavora a Roma. Da anni approfondisce lo studio della psicoanalisi implicata all’arte.
Tra i suoi testi: "La verità della bellezza. Colloquio sull’arte con Jacques Lacan", Edizioni Quodlibet. "Dal taglio, la luce. Passi di Alfredo Pirri" , Edizioni Castelvecchi, 2023
Autrice online in diversi articoli nell’ambito della psicoanalisi e dell’arte.
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Artext - La scittura dell'Arte.
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