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SC17
TAI
How To / You Too

 
Chiara Bettazzi SC17 / Corte di Via Genova


SC17
TAI How To / You To
direzione artistica Chiara Bettazzi
e la collaborazione di Mirco Marino

Ottava edizione del progetto TAI, dal titolo How To / You Too, divisa in due momenti legati dall’idea di comunità. Il concetto su cui si è basato il progetto, per la prima volta strutturato a ritmo della doppia annualità, è quella di collettività mobile. Si tratta di una collettività che si allontana dall’idea di gruppo e di chiusura, legandosi al contrario all’apertura dinamica verso gli incontri e le coincidenze. I partecipanti al progetto sono aumentati e diminuiti, hanno partecipato o deciso di non partecipare più, si sono posti in ascolto e in azione, ma soprattutto hanno portato la propria esperienza in un progetto che si è fin da subito legato all’esperienza come forma di conoscenza e del racconto di questa come atto edificante.


L’agire come forma
testo di Mirco Marino

Una collettività mobile trans-generazionale si è trovata a con-vivere in uno spazio e a fare ciò che dagli albori dell’uomo l’umanità ha sempre fatto, raccontarsi storie. Così artisti, curatori, designer e ricercatori da molte regioni italiane hanno trovato a Prato, nello studio SC17 dell’artista Chiara Bettazzi, un luogo in cui condividere fisicamente il proprio tempo e la propria ricerca, dove trovare nell’altro l’ascolto e la comprensione e soprattutto un luogo in cui partecipare insieme a una forma di conoscenza condivisa che, proprio per il suo carattere di scelta e informalità, ha potuto basarsi sull’apertura al confronto dei lecturer chiamati a raccontare.

L’idea di collettività mobile ruota necessariamente attorno al concetto di multidisciplinarietà, così l’open call è stata rivolta a creativi di ogni campo e gli ospiti invitati a prendere parte agli incontri rappresentano ognuno un universo di senso autonomo, legandosi per alcune tematiche o tratti del lavoro alla ricerca che Tuscan Art Industry ha attivato sul territorio dal 2015. D’altra parte, questo ha sempre fatto della condivisione il proprio punto fermo, dalle mostre d’arte alla riattivazione di luoghi silenziosi, dagli orti sociali ai workshop ogni edizione TAI ha creato una comunità che vive l’esperienza attraverso una condivisione continua di spazi e tempi.

Esiste comunque un legame ricorrente che unisce le narrazioni delle esperienze di Chiara Bettazzi, Giacomo Zaganelli, Andrea Vannini, Corinna Del Bianco, Robert Pettena e Leone Contini, si tratta dell’agire. Per ognuno degli attori chiamati a intervenire l’agire assume forme diverse: legato alla condivisione dell’operare artistico, alla ricerca sui territori, al contatto col naturale; ma è infine un agire che si pone come forma, e che è nel suo farsi processo del e nel mondo, inevitabile.

Chiara BettazziSC17 / Chiara Bettazzi Studio - Corte via Genova

Chiara Bettazzi

Mirco Marino — Chiara Bettazzi, da creatrice del progetto TAI – Tuscan Art Industry hai sentito la necessità di condividere l’esperienza e la conoscenza nella creazione di una comunità creativa. TAI è un progetto che si è occupato innanzi tutto di archeologia industriale e del rapporto tra questa, il territorio e l’arte contemporanea. La tua relazione con l’industriale e il naturale è anche il tuo luogo dell’abitare, fino a poter dire che in un certo qual modo abiti il tuo lavoro. Come si rapporta la dimensione del tuo studio, del tuo spazio al TAI? Esistono delle similitudini tra il tuo modo di agire e le dinamiche collettive?

Chiara Bettazzi — Il progetto TAI nasce non solo dopo anni di esperienza personale vissuta a contatto con realtà e spazi indipendenti con cui ho condiviso mostre e tutto quello che sta dietro all’organizzazione e alla realizzazione di eventi legati alla cultura contemporanea, ma anche dalla condivisione di un luogo specifico dove ho il mio studio da circa venti anni. Quella che oggi è chiamata la Corte di Via Genova a Prato era un tempo il Lanificio Bini, quando io arrivai nel 2005 la corte ex industriale si presentava abbandonata e malridotta. La riattivazione di questo luogo attraverso eventi condivisi è stata possibile grazie a un’idea e a una visione che ha portato alla realizzazione di un luogo pieno di realtà creative che dal 2008 al 2019 hanno dato vita e caratterizzato questi spazi.

Mi piace l’espressione che hai usato “abiti il tuo lavoro” perché rende l’idea di quella che è la mia realtà. Il mio modo di agire è legato all’idea di comunità, questo perché la nascita del mio lavoro e della mia ricerca si è intrecciata fin dall’origine con un fare collettivo. Ricordo il primo evento realizzato in questi spazi abbandonati coinvolgendo artisti, performer, scenografi e fotografi. Tutti con la voglia di dare vita a questi spazi affascinanti strutturalmente, ma anche pieni di memoria storica. Nei primi tre anni condividevo lo studio con alcuni musicisti, loro suonavano e io dipingevo e sperimentavo le prime istallazioni oggettuali. Il rumore delle fabbriche si univa alla musica e all’odore tipico delle produzioni tessili, il vapore che esce dalle ciminiere è ancora lo stesso paesaggio che vedo oggi attraverso la grande finestra che caratterizza il mio spazio di lavoro.

Solo nel 2016 nasce l’idea di vivere il piazzale comune ai vari spazi come un giardino e furono così piantati alberi e molte piante con la prospettiva di condividere un luogo d’incontro. Oggi la Corte è tornata a essere prevalentemente industriale e artigianale, questo è stato possibile a partire proprio da quella riattivazione culturale che dal 2008 ho portato avanti attraverso una visione collettiva e condivisa. Credo che questo luogo abbia avuto le sue trasformazioni cicliche tornando ad essere ciò che in origine era: un luogo di produzione, lavoro e industria. Quest’anno proprio per questi cambiamenti e a seguito della crisi del covid ho sentito ancora di più la voglia e la necessità di ri-condividere questo luogo attraverso gli incontri TAI, dando la possibilità a giovani creativi di pensare in maniera collettiva a nuove idee per il territorio.

Chiara BettazziChiara Bettazzi Studio SC17

MM — Il TAI è nato come progetto a lato della tua ricerca artistica personale. Le tue opere richiamano un montaggio tra quotidiano e inusuale, tra il tempo dell’oggetto e quello della natura, su dimensioni spaziali diverse che si intersecano e richiedono all’osservatore di riflettere sulle dinamiche compositive che sono messe in atto nell’immagine. Come nasce la tua ricerca sull’inafferrabilità del quotidiano e l’estraniamento dello spazio, come si è sviluppata nel tempo?

CB — La mia ricerca come ti dicevo prima, nasce a contatto quotidiano con luoghi industriali abbandonati, e spazi in disuso pronti ad essere riallestiti per mostre, eventi, performance.

Nel 2008 ho installato qui i primi oggetti trovati e imbiancati attraverso un bagno di gesso, posti al pavimento e fotografati con la polaroid. Credo che tutte le edizioni del progetto TAI siano state di volta in volta una continuazione dell’esperienza vissuta qua, dove ho innescato un processo di riattivazione e dove tutto è avvenuto dal basso e in maniera naturale. A partire dal mio spazio, un luogo in cui le cose cambiano sempre di posizione e vengono allestite in maniera diversa subendo una trasformazione continua, do vita a serie di immagini in cui questa visione tra quotidiano, naturale e industriale subisce una sorta di ibridazione costante. Alla necessità di agire nel mio spazio si unisce il vivere quotidianamente questo luogo, diventa così uno spazio di fusione: in parte lavorativo e in parte domestico. Ancora oggi gli spazi che ricerco quando sono chiamata a realizzare progetti site-specific sono spazi che conservano la memoria e la stratificazione del tempo, risultano perfetti per i miei interventi. È come se tutte le volte che opero la mia mente e i miei ricordi tornassero a ripescare dalle mie esperienze passate che attraverso una dinamica di stratificazione continua caratterizzano il mio agire.

TAIGiacomo Zaganelli Talk TAI 2022

Giacomo Zaganelli

MM — Giacomo Zaganelli con te mi piacerebbe accennare a quella parte della tua ricerca che si lega profondamente a quella del TAI. La Mappa dell’Abbandono è un progetto ancora in corso che nasce come una mappatura dei luoghi in disuso sul territorio toscano accessibile online, per svilupparsi in una pubblicazione dallo stesso titolo. Un luogo dimenticato e abbandonato può diventare vivo e riattivarsi a partire dalla presa di coscienza che esista? In altre parole, raising awareness sulla condizione di uno spazio, come di comportamenti, può portare a processi pubblici di cambiamento a livello sociale?

Giacomo Zaganelli — Credo che difficilmente un cambiamento a livello sociale possa avvenire senza un’effettiva presa di coscienza collettiva. Il progetto che menzioni è nato proprio per porre attenzione e creare consapevolezza nei confronti di un tema che al momento del suo lancio (2010) era tutt’altro che dibattuto. Il patrimonio dismesso e inutilizzato rappresenta lo spazio del possibile, un potenziale latente tutto da sperimentare. Oltre la consapevolezza ci vuole la volontà, l’impegno e infine una buona dose di azzardo, di visione e di lungimiranza. Componenti queste ultime tre che, nella maggior parte dei casi, mancano decisamente alla classe politica, ai funzionari che lavorano negli uffici pubblici e ai proprietari degli immobili di cui stiamo parlando.

Quando iniziai il progetto, inteso anche come alternativa potenziale alla sfiancante retorica della mancanza di spazi e di risorse – la crisi del 2008 aveva creato terreno fertile per nuove narrazioni tutte al negativo –, non mi sarei mai potuto immaginare che, nel corso di questi anni, avrebbe raggiunto sempre più persone (nell’ultimo anno circa mille persone al giorno visitano la mappa online), ispirando un’omonima indagine conoscitiva del Senato della Repubblica e che addirittura questa avrebbe condotto, tra l’altro, ad un disegno di legge che porta lo stesso nome. Il cambiamento avviene, con lentezza.

MM — Esistono però altri spazi, più simbolici, come quello dell’artista all’interno dalla società. Stai svolgendo una ricerca su questo in alcune istituzioni italiane che ha il titolo del tuo incontro del TAI Sul ruolo sociale dell’artista nel XXI secolo. Il tuo è un agire collettivo, com’è il tuo rapporto con l’autorialità? Quale credi che debba essere lo status autoriale dell’artista oggi?

GZ — A dir la verità il titolo che ho usato per l’incontro del TAI è il sottotitolo della ricerca che tu citi e che è denominata “L’artista per la collettività”, con un intento a tratti ironico e provocatorio, perché sono davvero pochi quegli autori che lavorano nei confronti di un’idea di collettività e di utilità sociale del proprio operato. È proprio per quello che, come autore, mi interessa concentrarmi su tale argomento. Tornando alla tua domanda, mi stimola e diverte l’idea di iniziare e/o attivare progetti e processi senza imporli, ne nella forma che nella loro funzione. Spazi aperti indirizzati alla sperimentazione. Banchi di prova per comprendere (o perlomeno provarlo a fare) come, a loro volta, le persone che vi prendono parte si approprino di essi, in che modo lo fanno, se vi contribuiscono, se li evolvono, se li vivono passivamente, o se invece non li fruiscono neppure.

Andrea VanniniItinerario delle piante spontanee nelle rovine industriali TAI 2018 / Andrea Vannini

Andrea Vannini

MM — Andrea Vannini, da biologo ambientale sei l’unica figura al di fuori del mondo dell’arte chiamata come lecturer della masterclass TAI - How to. Hai già fatto parte del progetto TAI in passato analizzando come la natura possa dare una nuova forma alle rovine industriali ma anche una nuova vita, creando habitat ecologici. Per la nuova edizione tra estinzioni di massa, sovrappopolazione e la crisi pandemica, hai affrontato come la biodiversità naturale e animale possa convivere con le attività umane, soprattutto nelle città. Come può lo spazio urbano ibridarsi con quello naturale col fine di migliorare la qualità della vita delle persone che lo abitano? Esiste una condizione ideale?

Andrea Vannini — Nella mia attività professionale mi sono trovato a dover esaminare e valutare conflitti tra il “selvatico” e le persone in ambiente urbano. Spesso quel che non è frutto diretto della mano umana, viene interpretato dalla cittadinanza come qualcosa di degradante per il luogo nel quale si vive. Quasi come se un fiore spontaneo, un ramarro, o un insetto, rappresentassero un segno di incuria, un qualcosa di barbaro che invade la “civiltà” riportandola ad una condizione di primitività e di insicurezza. Niente di più sbagliato. Oggi la moderna Scienza dell’Ecologia del Paesaggio, nonché nuove ricerche di Psicologia, dimostrano che la naturalità è un elemento importantissimo per il benessere psichico e fisico delle persone. Ambienti naturali e seminaturali in zone urbane svolgono fondamentali servizi ecosistemici, che spaziano dalla purificazione dell’aria, alla de-impermeabilizzazione del suolo che riduce il rischio di allagamenti, alla mitigazione degli estremi climatici, fino al non meno essenziale ruolo culturale, di potenziamento della conoscenza e consapevolezza dell’ambiente che ci circonda. Stimolare tutti i nostri sensi con la naturalità riduce il livello di stress, il rischio di attacchi di panico ed ansia, ed agisce positivamente sul nostro sistema ormonale.

Condizione ideale per una coesistenza positiva tra realtà urbana e realtà naturale è una corretta formazione culturale da parte della cittadinanza e di chi amministra il territorio. Superare obsoleti preconcetti che vedono nella spontaneità e nella biodiversità urbana la “sporcizia” e il disturbo da eliminare, per vivere in un ambiente geometrico, banale e ordinario, a vantaggio di una visione più moderna e dinamica, che riconosca nella biodiversità una fonte di bellezza per il tessuto urbano, oltre che una vera e propria infrastruttura verde che a basso costo produce servizi indispensabili per il benessere. All’atto pratico, il miglior modo di attuare una pianificazione come questa è partire dalla mappatura degli spazi verdi pubblici, ma anche privati, ottenendo un catalogo delle aree “green” della città. Fatto questo, un sistema di parchi e aree verdi che siano progettate e gestite secondo criteri naturalistici, evitando costose e banalizzanti operazioni di arredo urbano a vantaggio di una gestione leggera, che faciliti crescita e sviluppo capillare di micro-ambienti entro il tessuto urbano, dove anche vegetazione spontanea e piccola fauna possano trovare spazio.

Andrea VanniniAndrea Vannini

MM — La narrazione che hai portato a TAI è molto legata al guardare avanti, al futuro. Mi piacerebbe parlare con te di qual sia lo scenario auspicabile per il prossimo futuro. Esiste una possibilità collettiva di salvaguardare il patrimonio naturale e continuare il costante sviluppo tecnologico, urbanistico e sociale? È pensabile un punto di equilibrio?

AV — Si tratta di una domanda spinosa e molto complessa, una vera e propria sfida che sicuramente l’umanità del domani dovrà cogliere e affrontare per garantire la sua stessa sopravvivenza. Personalmente ritengo che l’attuale livello di consumo delle risorse non rinnovabili, tra le quali inserisco anche il suolo, non sia sostenibile se continueremo a mantenerci entro lo schema mentale di una crescita infinita, impossibile da realizzare dentro a un sistema fisicamente limitato come il pianeta Terra. Non è nemmeno scontato che l’avanzamento tecnologico, che molti vedono come la panacea di tutti i mali, consenta la mitigazione di tutti i nostri impatti ambientali. Oltretutto anche la tecnologia può essere arma a doppio taglio, poiché comunque per crearla si devono consumare altre risorse, e può non essere accessibile a tutti gli abitanti del pianeta.

Sembrerà una banalità, ma probabilmente il primo passo da fare è la riduzione minuziosa di tutti gli sprechi di risorse che affliggono la società del terzo millennio. Ridurre il consumo di energia, di materie prime, di cibo anche, allo stretto necessario contribuirebbe ad allentare la morsa umana sugli ambienti naturali. Successivamente, è necessario un cambiamento culturale, che favorisca l’abbandono del modello della crescita infinita a vantaggio di una consapevolezza dei limiti del pianeta, che consenta a tutti di operare scelte oculate e sostenibili. Terzo passaggio, un incremento della ricerca e della tecnologia che consenta di massimizzare le rese minimizzando i consumi. Ad esempio, l’agricoltura moderna di precisione, spesso osteggiata in quanto industrializzata, consente di massimizzare le rese agricole minimizzando il consumo di fertilizzanti, pesticidi, suolo consumato; questo potrebbe favorire la naturalizzazione di aree oggi oggetto di pratiche agricole poco efficienti.

Lo stesso dicasi per la pianificazione urbanistica: privilegiare le più recenti acquisizioni che vedono le infrastrutture verdi-blu (aree verdi, sistemi basati sul verde per il recupero e la filtrazione delle acque di pioggia, ecc.) come un elemento portante della pianificazione delle città del futuro e della progettazione. Con il corretto mix di tecnologia, consapevolezza e scienza, un punto di equilibrio tra uso e rigenerazione sarebbe probabilmente possibile. Ancora una volta, comunque, non si può prescindere da una rivoluzione culturale che partendo dall’insegnamento scolastico, fino alla comunicazione delle amministrazioni, informi la cittadinanza e stimoli la consapevolezza ambientale, facendo sì che concetti oggi patrimonio di una ristretta cerchia di specialisti diventino di uso quotidiano. Informazione, formazione, conoscenza, aggiornamento, dinamismo.

Corinna Del BiancoCorinna Del Bianco / Jardim Filhos da Terra

Corinna Del Bianco

MM — Corinna Del Bianco, il tuo incontro al TAI ci ha portato lungo i tuoi viaggi di ricerca attraverso le isole, il mare e i continenti e infine Prato. Ciò che ha colpito è stata la cura che, dalla scrittura alla produzione editoriale passando per la fotografia, si manifesta nel tuo lavoro con reale coerenza. I luoghi della vita come agire e come esperienza si manifestano nelle dinamiche spontanee dell’abitare. Mi piacerebbe parlare con te di come hai impostato le pratiche e metodologie di ricerca che sembrano aver eliminato quell’osservazione a distanza dei fenomeni, per approdare invece a una concezione di immedesimazione nel contesto del case study. Si tratta di una forma di abitare la propria ricerca?

Corinna Del Bianco — Osservare e comprendere le dinamiche familiari e di quartiere è la parte fondamentale della mia ricerca. L’abitare risponde funzionalmente a determinate necessità, ma queste ultime sono create da contesti economici, morfologici, sociali e, soprattutto, culturali. A livello metodologico la mia ricerca nasce in ambito accademico nel campo dell’architettura e degli studi urbani. Inizio con la creazione di una consistente bibliografia di base, per poi raccogliere la documentazione cartografica. La seconda fase del lavoro è quella sul campo e, generalmente, si caratterizza per varie fasi, tra cui una prima più esplorativa, in cui consolido anche la scelta specifica dell’area di analisi, segue poi una di contatto con la comunità. Questa seconda fase è essenziale, direi il cuore della ricerca. Infatti, il mio obiettivo è rilevare gli spazi dell’abitare spontaneo e per farlo devo entrare in un gran numero di case autocostruite, e non sempre le persone ne comprendono la finalità e sono disponibili ad aprire la loro porta di casa. Quindi, a seconda del contesto, creo delle modalità per instaurare un legame con le famiglie, affinché si crei un rapporto di fiducia. In seguito, una volta effettuati i rilievi di spazi e funzioni, si tratta prima di restituire, poi verificare quanto rilevato, e, infine, di analizzarlo, evidenziandone le caratteristiche più rilevanti per l’uso abitativo.

Anche per questo aspetto, l’abitare è inteso come un processo osmotico che coinvolge, non solo ciò che accade all’interno dell’abitazione, ma anche gli scambi e le relazioni che questa instaura con il quartiere e la città, la casa è come la cellula generatrice del contesto urbano. La mia ricerca, infine, vuole valorizzare delle competenze tradizionali che gli abitanti hanno e che utilizzano per progettare e costruire le proprie case; spesso lavorando in modo sinergico con il contesto naturale locale, rafforzando la relazione tra natura e cultura. Queste competenze devono essere tutelate come espressioni culturali, al fine di una loro conservazione. Pertanto, è necessario documentarle per valorizzarle, come elementi identitari che concorrono alla costruzione di uno specifico paesaggio culturale.

Corinna Del BiancoCorinna Del Bianco Talk TAI 2022

MM — Veniamo all’aspetto rappresentativo del tuo lavoro. La tua ricerca dà un grande valore alla documentazione fotografica. La fotografia non sembra essere solo strumentazione, quanto una modalità di studio attraverso l’esperienza estetica delle immagini. Vorresti dire qualcosa rispetto al tuo rapporto col medium fotografico e come questo interviene all’interno della tua ricerca?

CDB — Per me la fotografia è sempre stata di enorme aiuto per scegliere cosa guardare. Evidentemente, nel momento in cui si scatta si fa una selezione e c’è un intento comunicativo. Non parto sempre con un progetto fotografico in mente, a volte l’obiettivo non è chiaro fin dall’inizio. Ma viaggiando e lavorando in contesti completamente nuovi, ci sono momenti in cui mi succede di stupirmi in continuazione, quindi la mia attenzione, la mia curiosità, mi portano a fare foto, per capire, per registrare e per capire meglio in seguito. In alcuni casi, è solo in seguito che effettuo gli studi, per capire le ragioni di uno specifico fenomeno. Questo è ad esempio è successo con TIDES, il progetto sulle maree della costa nord mozambicana. In altri casi, invece, in cui ho più confidenza con il territorio e con la sua cultura locale, il progetto precede l’azione. CAPULANAS, infatti, è nato proprio per rappresentare l’uso di un oggetto motivo di orgoglio femminile, la capulana. Le capulane sono stole di tessuto di circa 2x1m che hanno molteplici usi, tra cui l’abbigliamento (gonne, parei etc.), l’arredo (tende, tovaglie etc.), o altri usi (gonne, marsupi per bambini etc.). Le donne mozambicane le vestono con orgoglio e le ritengono indumenti e oggetti identitari.

Lo stesso è accaduto con ARCHIPELAGO, il progetto è nato nel 2018, ma prevedo di concluderlo in circa 50 anni. In questo caso l’intenzione è di dare voce alla diversità delle isole del Mediterraneo, nel loro paesaggio culturale e nelle loro architetture, con fotografie, mappe, testi e spunti bibliografici, che rappresentino la complessità di abitare questo tipo di territori, e di renderli produttivi.

Robert PettenaRobert Pettena Talk TAI 2022

Robert Pettena

MM — Robert Pettena, il tuo racconto dell’infanzia tra Brixton e l’East Anglia ha suscitato grande interesse al TAI proprio per il suo carattere autobiografico, una narrazione in cui l’esperienza diventa in sé una forma. L’idea di collettività e di condivisione dell’operare, sì artistico ma soprattutto sociale, richiama una visione dell’agire in cui le forze della comunità si uniscono per creare qualcosa di più grande della somma delle parti. Brixton è una delle storie di marginalizzazione e gentrificazione che più riflettono sull’eredità delle politiche conservatrici nel tempo, tant’è che, come suggerisci nella tua lecture, queste energie collettive si formalizzano anni dopo nella cultura punk inglese.
Mi piacerebbe parlare con te di quanto le tue esperienze vissute da bambino e da ragazzo abbiano influenzato il tuo lavoro, quanto di Brixton e delle Albion Fairs è rimasto all’interno della tua ricerca artistica? Credi che l’artista faccia sempre i conti con la propria esperienza? Il legame old-school arte-vita è ancora una cosa di cui parlare?

Robert Pettena - Tutta la motivazione scaturita nel raccontare cosa fossero gli Albion Fairs è data dalla necessità di ricondurre la memoria alle attività artistiche comunitarie, di affrontare i cambiamenti radicali di una società estremamente attenta verso una progettualità più individualista, in cui è complesso avere uno scambio reale dove non si crei una potenziale marginalizzazione. L’attuazione di leggi costrittive che impediscono l’auto produzione di spettacoli, eventi di ricerca audio visive non autorizzate, finiscono per interrompere un processo naturale di attività artistico culturali, sempre esistite nelle realtà underground, vere e proprie officine in cui si sperimentano i nuovi linguaggi del contemporaneo.

Gli stessi quartieri multietnici nel sud di Londra ad alto tasso di disoccupazione, grazie ad una politica thatcheriana di deregolamentazione, avevano creato un clima di sopravvivenza in cui la solidarietà e l’ingegno aveva formato una nuova comunità assai politicizzata, attenta alla lotta per i diritti sociali e per soluzioni ecosostenibili in netto contrasto con i modelli neoliberisti, oltre ad essere molto attiva nello sviluppo di processi educativi/creativi alternativi ai modelli proposti dalla società mediatica. Mi piacerebbe affermare che la mia infanzia non sia stata condizionata in alcun modo nei miei processi creativi, o almeno ogni tanto mi illudo che possa esistere qualche forma di cancellazione, tanto per scoprire cosa avrei potuto combinare, in realtà così non è stato: ogni quartiere proponeva delle iniziative, adesso possiamo chiamarle workshop, che partivano dalla permacultura alle attività performative. Oggi come ieri il riutilizzo di spazi fatiscenti come generatori di cultura, permettono di evidenziare quanti siano gli input dati dallo spazio stesso per lo sviluppo di idee.

Fin da piccolo nei cortili in comune con le case occupate lungo le vie di Brixton ho sempre avuto accesso a molti materiali per la costruzione di piccoli rifugi “shelter” spazi di libertà. L’idea di partecipare ad una causa comune come la lotta per la casa, portava alla realizzazione di nuovi spazi, modificando gli spazi inutilizzati nel quartiere: in alcuni giardini venivano smantellati i muretti divisori e costruiti grandi orti e parchi giochi, molto simili ai parchi avventura. Tutto si costruiva rapidamente secondo una visione organica come se gli spazi fossero in continuo divenire, in simbiosi con le istanze progettuali abitative, cariche d’inventiva, sicuramente più vicine alle attività artistiche che quelle puramente edilizie.

Robert PettenaRobert Pettena, Jungle Junction, Galleria Tiboni, Bologna 2012

MM - Passando al tuo legame col TAI, la tua ricerca è senz’altro in linea con l’universo di ricerca che SC17 porta avanti dal 2015. Ci sono due progetti che mi sembrano esemplari al riguardo, uno recente all’interno di parchi della provincia di Firenze, intitolato Un-mappable zones in cui riattivi una performatività che richiama, traslata al contemporaneo, quell’attrattiva che i parchi avevano nel passato. L’altro in cui investighi la figura di Alfred Nobel e l’archeologia industriale, in un movimento tra la persona e architettura, Nobel explosion.
Ti va di parlare della relazione tra spazio architettonico, comportamento umano e fotografia?

RP - Le manifestazioni e pratiche ecologiche attente alle bio-diversità sono sempre state le priorità in questi contesti di apparente illegalità: trasformare i luoghi fortemente antropizzati in luoghi naturali, parchi e giardini spontanei.
Gli spazi museali, le gallerie, white cube sono spazi protetti, lo sono anche i giardini storici cristallizzati nel tempo, in passato erano delle vere e proprie macchine sceniche in cui il visitatore era calato in un mondo di meraviglie, investito da continue sorprese, fatte da automi, giochi d’acqua e veri e propri spettacoli. Questo scenario oggi non esiste più, si presenta come un palcoscenico ricco di scenografie in cui il performer è assente. Un’attenta ricognizione del giardino soffermandosi sulle sculture, arboreti e rovine stratificate permette di ricostruire o meglio immaginare ciò che il luogo rappresentava: ecco che entrano in gioco oggi le pratiche performative per riattivare un clima per lungo tempo esistito, adesso in letargo e sottomesso dalle orde di turisti intenti a fotografarsi a fianco ad una statua, per poi presentarsi nei social come individuo hic et nunc.

Questo natura apparentemente spontanea modulata dall’uomo trova il suo apice nei camouflage fatti per nascondere depositi e fabbriche di esplodenti. In Italia alla fine dell’800 Alfred Nobel rileva e costruisce molte fabbriche di esplodenti lungo il tirreno e nel suo entroterra, oggi in disuso e quasi tutte fatiscenti. L’incapacità di rilevarle, convertire o riqualificare la zona, ha trasformato questi luoghi in dei boschi ricchi di biodiversità ma al contempo off limits a causa del percolato ormai penetrato in profondità. L’esplorazione di questi luoghi mi ha condotto ad approfondire la figura contraddittoria di Alfred Nobel e scoprire quanto fosse attento e appassionato di botanica, tanto da coltivare tutta la vita orchidee: una pianta delicata che ha bisogno di un terriccio prevalentemente ricco di pacciame di corteccia, torba e argilla. Alfred nelle sue ricerche aveva inavvertitamente mischiato dell’argilla fossile usata per le orchidee con la nitroglicerina riuscendo casualmente a stabilizzarla e inventare la dinamite.

Questi edifici immediatamente hanno assunto una carica simbolica che mi hanno spinto a guardare gli spazi come se fossero dei laboratori alchemici dove ogni contenitore o forma, conservava qualcosa di nascosto e in continua trasformazione. Gli opposti si incontravano per creare distruzione o generare vita. Ogni forma presente negli stabilimenti SipeNobel non si mostrava più per il suo aspetto ma per quello che celava. Un anello di contenimento per deviare le potenziali esplosioni diveniva ai miei occhi come un intervento di land art. Le bottiglie e ampolle abbandonate a terra contenitori di memoria. La mia fotografia ha finito per seguire queste tracce e soffermarsi in questi luoghi dagli edifici protetti dagli alberi in un luogo senza tempo, pieno di segnali e rovine che svelano le contraddizioni della nostra società in continuo divenire.

Leone ContiniLeone Contini Talk TAI 2022

Leone Contini

MM — Leone Contini, Walter Benjamin rappresenta in metafora la storia col quadro di Paul Klee Angelus Novus, sottolineando come dove lo storico vede una sequenza ordinata di eventi, questa si presenta invece come “un’unica catastrofe”. La tua ricerca, un po’ come l’Angelus Novus, si pone sulla soglia, su una zona liminale tra la storia della cultura, l’antropologia e l’arte. Mi piacerebbe parlare con te dei caratteri ideologici e politici della cultura, di come le due cose si influenzino a vicenda in un ciclo continuo, e di come l’arte sia stata spesso creata e letta come espressione dei valori culturali e ideologici della società di appartenenza. Faccio riferimento ai tuoi lavori Bel suol d’amore, Blu oltremare, Il corno mancante e il recente Cumulo.

Leone Contini — Girando la domanda, è possibile che l’arte non sia espressione dell’ideologia del proprio tempo? E per ideologia non intendo specifiche istanze politiche, ma un sistema di idee e credenze complesso e pervasivo. Sembra improbabile. Penso piuttosto che ogni prodotto culturale si collochi, consapevolmente o meno, in quel campo di forze interconnesse e spesso contrastanti che definiscono appunto l’ideologia del proprio tempo. In Blu oltremare (2013-2015), Bel suol d’amore (2017-2022) e Il corno mancante (2018) c’è il tentativo di ripercorrere i sentieri dimenticati della recente storia nazionale, tra guerra e colonialismo. Si tratta di temi finalmente al centro del lavoro di molti artisti, ma nel 2013 il passato coloniale italiano era ancora sepolto in un’amnesia collettiva (almeno rispetto alle produzioni artistiche), e la guerra, specialmente se in Europa, era impensabile e inconcepibile. Cumulo (2021-2022) è a sua volta un’evoluzione de Il corno Mancante, dovuta in parte all’irruzione della pandemia, che ha reso impraticabile il terreno sociale, rendendo il mio lavoro meno relazionale, più fantasmagorico e quasi scultoreo.

Ma le macerie hanno cominciato a ossessionarmi già dal 2014, che è poi l’anno in cui la guerra si è riaccesa in Europa dopo molti anni, nelle remote (o erroneamente considerate tali) regioni dell’Ucraina orientale. In quei mesi vivevo a Varsavia, un luogo di osservazione privilegiato sul conflitto in Donbass, percepito nel sentire comune in modo drammatico, come vicinissimo e pericoloso. Varsavia poi è letteralmente costruita sulle macerie della Seconda guerra mondiale. Quei detriti sono onnipresenti, avvolgono le fondamenta delle case, emergono nei parchi pubblici dopo la pioggia e trasformano ogni cantiere stradale in un paradossale sito archeologico del nostro tempo.

Le macerie sono un medium amorfo e forse per questo semanticamente duttile, che negli anni successivi mi ha permesso di connettere geografie distanti come Palermo, Milano, Stoccarda… con i luoghi dove quotidianamente si stavano producendo nuove macerie, quelle presenti allora e quelle che ci stanno sommergendo oggi. Cosa vede d’altronde l’angelo della storia nelle parole di Walter Benjamin? Nient’altro che macerie, che s’impilano una sull’altra, in un cumulo che cresce verso il cielo.

Leone ContiniLeone Contini work

MM — Il tuo incontro al TAI Terre instabili è stato caratterizzato anche questo da una certa liminalità, quella dei paesaggi interstiziali e l’instabilità del territorio. Quest’ultima rappresenta per te la vita stessa di un luogo che si ibrida con l’elemento industriale e lo scarto, con l’attività artificiale opposta all’immagine idealizzata della natura. Qual è il tuo legame col territorio? Come questo si ritrova all’interno del tuo lavoro quando progetti in site specific?

LC — Si tratta del territorio che attraverso ogni giorno su strade, autostrade, tangenziali, cavalcavia, ponti… un tessuto connettivo che ci dà l’illusione della contiguità e del controllo su quello che in realtà è uno spazio frammentato e perlopiù a noi inaccessibile. Questo paesaggio sottostante è dunque semi-invisibile e non percorribile, ed è un paesaggio rimosso, liminale, fatto di acquitrini, aree neglette, zone industriali, isole di verde rigoglioso o malconcio confinate tra arterie di asfalto e proprietà recintate, enclaves di biodiversità incolta. Questi frammenti sono però a loro volta connessi in modi per noi inconcepibili, densamente abitati da moltitudini viventi che quotidianamente li percorrono. Dal punto di vista di un gambero d’acqua dolce, per esempio, il territorio discontinuo della piana è un reticolo interconnesso di corsi d’acqua, fossi, canali, fiumi, acquitrini. È lui il vero autoctono della pianura antropizzata, che noi frequentiamo e abitiamo come ospiti in rapido, distratto passaggio. Lo stesso vale per una tartaruga d’acqua, un pesce gatto o una famiglia di nutrie in rapida espansione demografica. Ci guardano sfrecciare da un luogo all’altro, come utenti di infrastrutture di transito, come passeggeri in un aeroporto.

Spesso però, a uno sguardo più attento, gli abitanti di quei luoghi si rivelano essere specie alloctone, definite invasive nel linguaggio dell’etologia ma anche dell’amministrazione pubblica, intenta nel loro impossibile sradicamento, in accordo con leggi e direttive comunitarie, statali, regionali... ecco che questo territorio, anzi questo anti-territorio, ci porta a rinegoziare i confini di cosa definiamo natura, quando perfino i suoi abitanti non umani sono qui in conseguenza di azioni compiute dalla nostra specie, che ha estratto i loro antenati dalla rispettive geografie di origine, per sfruttarne la carne come nel caso del pesce gatto Americano e del “gambero killer” della Florida (entrambi sterminatori di biodiversità autoctona), o per usarne il manto nell’industria delle pellicceria come nel caso delle nutrie, importate dal Sud America per essere scuoiate, o ancora per contemplarne la bellezza esotica, come nel caso di quella tartaruga tropicale mi fissa (non vista) oltre il guardrail mentre faccio benzina in un’area di servizio: discende da quel giocattolo vivente che avevo da bambino, poi liberato perché divenuto troppo grande e vorace. Improvvisamente mi sento osservato e mi giro, e incredibilmente mi riconosco nel suo occhio estraniante di rettile che mi fissa dall’abisso filogenetico che ci separa: siamo entrambi abitatori di macerie.

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SC17 Chiara Bettazzi
TAI How To / You Too
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