Stefano Arienti, Galleria Christian Stein, Installation View, Milano. Courtesy: Galleria Christian Stein
Galleria Christian Stein Stefano Arienti
Conversation
D- Sono dunque strati di tempi, storie, luoghi e vicende, quelli che metti al centro della tua poetica in questa mostra alla Galleria Stein. Il tuo è un lavoro di meticolosa ripresa del passato, che diventa materia viva con cui parlare al presente. Come descriveresti questo rapporto con la storia e con la materia artistica?
R- Credo che il passato non sia qualcosa di chiuso o da contemplare soltanto, ma un materiale con cui dialogare. Ogni opera parte da un’immagine o da un gesto del passato – che sia Monet, Tiziano o Bellini – io cerco di farla rivivere, di darle una nuova densità, una nuova tridimensionalità, attraverso il colore, la materia, il gesto. L’arte diventa così un luogo di incontro tra memoria e presente: i segni del passato non sono fissi, ma si animano e si intrecciano con la mia esperienza contemporanea. Mi piace che chi osserva senta questa stratificazione, come se camminasse su più epoche insieme, e percepisca la fisicità del guardare come un territorio da attraversare.
D- Come si rigenera Claude Monet e l’Impressionismo in questa mostra a Milano? I suoi scorci della Provenza e della Riviera Ligure sono le prime cose che balzano allo sguardo appena si entra in galleria. Come ricomponi un nuovo strato di significato a partire da riproduzioni fotografiche?
R- Il primo – non l’unico – grande maestro che attualizzo in queste mie opere è Claude Monet. Parto da riproduzioni fotografiche e poi intervengo con i materiali, in questo caso con innumerevoli pezzetti di pongo colorato, che nella loro matericità paiono davvero riportare in vita l’Impressionismo e la sensazione dell’esperire la natura. ‘Pare di sentire i sentori olfattivi del colore a olio steso puro e denso sulla tela’ e dell’immagine fotografica quasi ci si dimentica. Così il gesto en plein air ottocentesco si rigenera, non come copia, ma come esperienza viva, dove la materia, il colore e la memoria storica si fondono nel presente.
D- L’Arcadia diventa ancora più vivida spostandosi sul secondo corpus di opere presenti in galleria. Forse meno risaltanti ma altrettanto diffuse e complementari nella creazione di significato. Si tratta di enormi teli antipolvere che hai dipinto creando un’illusione a metà tra un arazzo, e un cartone preparatorio di un affresco. L’Arcadia come effetto che conduce ancora più indietro nel tempo, riflessione sull’Antico. In questo caso, la tua rilettura è fedele – seppur con mezzi contemporanei – alla tecnica della sinopia a spolvero, che restituisce il disegno fine ed elegante dei corpi e delle fronde arboree. Gli originali riprodotti portano la firma di Tiziano e di Giovanni Bellini.
R- Anche in questi lavori, come in altri, parto sempre dall’immagine. Mi interessa ciò che essa porta con sé: un’eredità di gesti, di mani, di sguardi. Quando utilizzo riproduzioni di opere di Tiziano o di Bellini, non penso alla citazione in senso stretto, ma a una riconfigurazione del loro linguaggio attraverso un materiale e un contesto diversi. Mi piace lavorare su teli antipolvere perché sono oggetti poveri, funzionali, che nascono per proteggere. Su queste superfici leggere, effimere, lascio che il disegno emerga come una traccia, una sinopia contemporanea.
C’è qualcosa di paradossale nel riportare l’Antico attraverso materiali così fragili: ma proprio lì si manifesta il senso del tempo, la sua stratificazione. Amo il lato visuale e materiale delle cose, e mi interessa la fisicità delle immagini, il modo in cui esse si incarnano in un supporto. Il corpo appare quando serve, soprattutto nei cicli dedicati al nudo o al ritratto. Ma anche allora non cerco mai il corpo “vero”. Mi interessa il corpo come immagine, come superficie attraversata da tempi diversi. Un corpo che, come tutto il resto, vive in quello scarto tra memoria e presente.
Stefano Arienti, Sentiero nel giardino, (da Monet), 2025, Galleria Christian Stein.
Ut pictura poësis
di Sergio Risaliti
La Galleria Christian Stein ospita per la terza volta una mostra personale di Stefano Arienti (Asola, 1961). Lo spazio, un bel salone dal sapore neoclassico, ampio, con i soffitti alti e tre grandi finestre, si affaccia su un giardino abitato da alberi slanciati e di una certa età, un’oasi di verde. La natura è separata solo dai vetri, ma la luce e i colori delle stagioni interagiscono con l’interno. Sia nel 2019 che nel 2021 Arienti aveva presentato un corpus di lavori costruito a partire da immagini fotografiche personali rielaborate con diverse tecniche su carte speciali, manipolate e stropicciate. In quelle sue opere il quotidiano e il banale, la presenza umana e quella della ‘civiltà’, si sposava alla natura, in un dialogo tra ‘sordi’. Il gesto artistico consisteva nel trasfigurare e restituire ‘aura’ a queste realtà contaminatesi reciprocamente, ma indifferenti una all’altra. La natura rispetto all’uomo, la civiltà industriale nei confronti dell’ambiente naturale. La poesia dell’arte nel caso di Arienti voleva riscattare tanto la banalità della realtà quanto la fine del rapporto idilliaco con l’aperto, la fine dell’Arcadia, quella regione mitizzata e poi trasformata in categoria poetica o pittoresca cartolina, simbolo di ideale unità armoniosa con la natura. Anche in questo caso cultura alta (letteraria e poetica) e bassa (poster, pubblicità, luoghi comuni) si sovrapponevano. Si trattava allora di connettere il piano basso ed effimero della realtà quotidiana e urbana con quello sublime e seducente della natura, per sottomettere entrambe al potere dell’arte, che produce un terzo livello, una diversa esperienza di conoscenza e di godimento con le sue tecniche e i suoi materiali, il suo linguaggio e la sua feconda ironia. Arienti spostava, cioè, sul piano della contemplazione lo spirito di osservazione e sostituiva l’indagine analitica della realtà con la meraviglia e il piacere visivo-tattile propri al pittorico. Il sottotitolo della seconda mostra era non a caso “Valori luminosi”, in riferimento alla ripresa dei valori tradizionali della pittura, tra cui la luce, il colore-luce, i contrasti di luce e ombra, la trasparenza atmosferica.
In occasione di questa nuova esposizione alla Galleria Christian Stein, l’artista ritorna alle sue origini, presentando una doppia serie di lavori che giocano sul ‘valore tattile’ del colore, l’epifania luminosa dell’immagine, la ‘reinvenzione della pittura”, il rapporto con il paesaggio e la natura. Qui abbiamo l’impressione di ‘abitare’ un luminoso giardino d’inverno, una orangerie, che protegge i colori della pittura e le tracce diafane del disegno. “Lo spazio aulico di Palazzo Cicogna, con la sua vista segreta sul giardino, incornicia una sequenza di quattro tempi sovrapposti: classico, rinascimentale, impressionista e contemporaneo. La storia, come la geografia, mi ha sempre incuriosito” mi ha scritto Arienti, al quale chiedevo aiuto per entrare in sintonia con la sua ispirazione. Come tante altre volte nella sua carriera, ritorna a trattare ‘stagioni’ dell’arte differenti, ma accomunate in ‘natura’ e ‘paesaggio’. In questa circostanza lo fa rimodellando con il pongo l’immagine riprodotta fotograficamente di una serie di dipinti di Monet eseguiti in amene località sempre alla ricerca degli effetti di luce e dei valori cromatici, valori tattili, motori di sensazioni e impulsi retinici. Oli su tela eseguiti dal grande maestro dell’impressionismo en plein aire, a Vétheuil, a Varengeville, a Bordighera. Lì Monet soggiornò per diversi mesi nel 1884, attratto dalla opulenza sontuosa e fastosa dei giardini affacciati sul mare: "Tutto è mirabile, e ogni giorno la campagna è più bella, ed io sono stregato dal paese", scrisse al suo mercante parigino Durand-Ruel. In soli 79 giorni, Monet realizzò ben trentotto tele, posando il cavalletto su Via Romana, nei pressi della Torre dei Mostaccini e del Vallone del Sasso, spingendosi anche nell’entroterra, per catturare le infinite variazioni atmosferiche, del cielo e della vegetazione. Visitando il Giardino Moreno, il luogo gli apparve fantasmagorico, dove “tutte le piante dell’universo sembrano crescervi spontaneamente”. Epoca straordinaria quella dell’Impressionismo, irripetibile per la storia dell’arte e lo spirito umano. Forse un’ultima Arcadia, per questo anche un canto del cigno, una stagione pregna di nostalgia, avvertendo che la relazione tra uomo e natura, linguaggio e mondo all’aperto si stava incrinando e distruggendo fatalmente e definitivamente a causa dell’industrializzazione e del positivismo imperante. Un’arte, in verità, del tempo perduto. Da allora un sentimento di perdita, forse di abbandono, pare aver catturato l’occhio e il cuore del pittore, non più capace di imprigionare la bellezza della natura, di praticare una pittura a contatto con l’aria e i colori della campagna, quelli dei giardini, delle foreste e dei cieli nelle diverse ore del giorno e nelle mutevoli stagioni. Cézanne lo aveva ben compreso quando ripeteva. “Si deve far presto perché tutto sta per scomparire”. Di acqua sotto i ponti della storia dell’arte ne è passata tanta, e non sempre limpida.
Arienti si è inventato un suo metodo di lavoro per cicatrizzare la ferita ed elaborare il lutto, ri-plasmando la copia fotografica di una serie di dipinti coloratissimi come quelli di Monet. Alle pennellate del pittore francese sovrappone liberamente e felicemente tocchi di pongo ricostruendo a suo modo l’icastica, tattile impressione provocata dalla contemplazione del ‘fantasmagorico’ incantesimo di un giardino in fiore, o di uno scorcio di campagna tratteggiato da un filare di pioppi, di un sentiero di pini o di un viottolo incoronato da una cascata di rami in fiore e cigli punteggiati di viole e di rose, di garofani rosseggianti e di pervinca. L’uso del pongo, riporta all’epoca felice e libera dell’infanzia quando ci si esercitava a fare pitto-scultura pasticciando quella docile materia colorata, assaporando il piacere inconscio della percezione tattile, scoprendo la meraviglia del gioco combinatorio e vitale dei colori puri, di quei blocchetti rossi, gialli, azzurri, bianchi e neri. Con la sua pittura al pongo Arienti ritrova a questo modo l’infanzia della pittura, la meraviglia suscitata dalla scoperta della vitalità di un colore, di una luce, di quel tempo felice della visione in cui pare possibile ritrovare una sensazione perduta, di abitare in quel luogo mitico chiamato Arcadia.
Nello spazio della galleria sono stesi a parete anche grandi teli antipolvere sulla cui evanescente superficie appaiono tracce di pittura appena percettibili. Sono “oggetti più simili a grandi arazzi disegnati, che si impaginano spontaneamente nell'architettura della sala” mi ha voluto precisare Arienti. Si tratta di una pittura più disegnata che stesa. Con un tratteggio lieve, fantasmatico, diafano, su cui lavora la luce, con riflessi madreperlacei, come su bava di lumaca. Lavorando sul diaframma tra visibile e non, sperimentando il potenziale irrisolto e imprevedibile della traccia, quell’epifania, intesa come venire alla luce o ritornare alla luce, restituisce alla nostra percezione visiva il disegno. Il disegno, madre di tutte le arti, ovvero l’idea originale del pittore che prima immagina con gli occhi interiori e poi dipinge sulla tela. In questo caso l'artista agisce reinterpretando e reinventando a suo modo la tecnica della sinopia e dello spolvero. Questi arazzi, come li ha definiti Arienti, accolgono gli oggetti realizzati con il pongo, composizioni coloratissime. Come se addosso a una partitura di Bach riuscissimo a stendere i Préludes di Debussy.
Stefano Arienti, Galleria Christian Stein, Installation View, Milano. Courtesy: Galleria Christian Stein.
Se nel caso dei dipinti col pongo si era portato sulle tracce di Monet, in questo caso si dedica a ‘manipolare' Tiziano, riproducendo un ciclo di dipinti del pittore veneto realizzati per decorare il “camerino di alabastro” del duca di Ferrara, Alfonso I d’Este, negli anni venti del Cinquecento. I soggetti dei quattro dipinti, Bacco e Arianna, il Festino degli dei, Baccanale degli Andrii, la Festa degli amorini, sono ispirati a testi classici, come le Immagini di Filostrato il Vecchio e le Metamorfosi di Ovidio. Tra questi il Festino degli dei venne realizzato correggendo un precedente olio di Giovanni Bellini. Tiziano modificò i colori del cielo e aggiunse nuove figure. Le immagini di baccanali, feste dionisiache, libagioni, danze, accompagnati dalla musica, fanno da sfondo al desiderio di evasione dalla asprezza della vita politica, dalla follia della guerra, dal timore della morte. Questi quattro dipinti impressionarono i contemporanei per la felicità nell’uso del colore, per la ricchezza di figure, gesti, posizioni assieme alla bellezza delle vedute e degli scorci pittoreschi, con cieli profondi azzurri e nubi bianche. Con questa mostra, dove i lavori con il pongo e quelli realizzati su teli sono allestiti come in una grande quadreria, Arienti torna a dichiarare la sua inesauribile e inesausta passione per la pittura, un vero e proprio amore, per la storia dell’arte. In fin dei conti per le immagini e la loro vitalità imperitura.
Volendo riassumere Arienti procede su tre binari almeno. Si cimenta, gioca, sperimenta materiali e procedure, supporti, tecniche, strumenti, e financo gesti e azioni. Ad esempio, trafora e stropiccia, taglia, cancella, graffia, piega, ricalca, fotocopia. Raccoglie immagini, recupera riproduzioni fotografiche, con il piacere e la curiosità di chi ama i repertori, gli atlanti, l’attrazione per il sapere enciclopedico e le collezioni. Vi è un terzo dato da considerare. Suo intento pare essere la rigenerazione della pittura, per non dire della storia dell’arte dopo la morte dell’arte. Se Kounellis lo ha inteso fare drammatizzando la presa di coscienza artistica della fine della pittura, Arienti affronta la questione con leggerezza e poeticità, affidandosi alla creatività. Come ha scritto Chiara Bertola: “Le sue opere cominciano sempre da qualcosa che già esiste, ma che attraverso diverse tecniche subisce una rielaborazione, trasformandosi in qualcosa di nuovo e inedito. Conferma lui stesso in un’intervista che non avrebbe mai «prodotto niente di nuovo, perché tutta la creatività è già disponibile: bisogna soltanto avere l’attenzione di andarla a scoprire e farla diventare qualcosa di personale»”.
Stefano Arienti, Visita da Vétheuil, (da Monet), 2025, Galleria Christian Stein.
Che Arienti sia pittore – lo è sempre anche quando crea oggetti tridimensionali o rende tridimensionali le immagini – lo riconosciamo dal fatto che non lavora a levare, come si fa con il marmo. Arienti aggiunge sempre qualcosa al materiale di partenza, non limitandosi al ready-made e alla manipolazione gestuale: il caso più evidente è quando aggiunge pezzi di pongo, brandelli, e grumi di plastilina colorata, coprendo zone e particolari delle riproduzioni fotografiche di quadri del passato. Aggiungendo materia colorata – il pongo giustappunto – copre la copia fotografica, modellando una nuova immagine che si sovrappone alla precedente, aumentando l’effetto tattile (quello plastico della pittura), al punto che l’immagine potrebbe essere toccata, sfiorata, sentita. Chiara Bertola ha cosi scritto: “Arienti è più pittore che scultore: lavora con le immagini e lui stesso si considera pittore «perché prendo prevalentemente delle decisioni pittoriche, sebbene non dipinga in senso stretto». Lavora però con i valori tattili della pittura, spesso intervenendo sulle figure dipinte o fotografate ‘implementandole’ o ‘aumentandole’ con la plastilina, con il pongo, con i puzzle. Aggiunge materia all’immagine, per trasformarla e renderla più tattile e più viva”.
Rimuovendo quegli inserti di pongo, o tasselli del puzzle, si ritornerebbe all’immagine riprodotta, cioè a quella situazione che deriva e certifica la perdita d’aura. Restituire un piacere tattile, un godimento plastico alla pittura significa rigenerare i sensi, riattivare la sensibilità che si era spenta di fronte alle copie, alle riproduzioni. Un quadro di Monet si riattiva quando è trasformato da copia fotografica in nuova opera, rigenerando l’esperienza concreta che si prova davanti all’originale. Un dipinto rinascimentale di Tiziano rinasce una volta coperta, nascosta la copia, per ritrovare la traccia disegnata del dipinto. È come se Arienti mirasse a raggiungere l’estasi infantile per la pittura, davanti alla quale prevale la sensazione tattile, il godimento sensibile, rispetto all’interesse per il significato, al piacere dell’erudizione. Attraverso questa sua invenzione rigenera l’aura perduta con la riproduzione tecnologica, ma lo fa attraverso una pratica semplice, infantile, gioiosa, giocando con la serietà della storia e il dramma della morte.
Intendo dire che in tutti questi anni e con una progressione lineare nella scelta delle differenti strategie formali adottate, Arienti è stato capace di elaborato il lutto vuoi per la perdita d’aura, vuoi per la morte dell’arte, che pareva aver sancito la fine della pittura figurativa. E lo ha fatto senza incorrere nella nostalgia di un mondo perduto e della tradizione; tanto meno è incappato nella pratica della citazione, neppure in quella kitsch e ingannevole della copia iperrealista. Si è liberato tanto della drammaticità che del cinismo con cui generazioni di artisti tra gli anni settanta e gli ottanta hanno cercato di rispondere con azioni povere e manierismi stilistici. Arienti si muove sul confine dell’irriproducibile e irripetibile mondo della bellezza, – la storia dell’arte, i suoi capolavori – con una impostazione concettuale rigorosa e una pratica gioiosa e giocosa, in cui téchne e poiesis si intrecciano scambievolmente e virtuosamente. Le sue opere sono il risultato di un fare intelligente, sofisticato, di una maestria manifatturiera (fatto a mano), e di uno slancio poetico, di uno scarto e scatto della creatività più libera, spregiudicata, disinibita nei confronti delle regole accademiche, dei canoni e delle gerarchie. Il combinato di questi processi genera le condizioni necessarie ad alimentare l’esperienza della meraviglia, dello stupore, che è poi il vero piacere della pittura, qualcosa di vitale e gioioso raggiunto con semplicità di mezzi e intenti. «Utilizzando delle tecniche si possono ottenere dei risultati sempre differenti ... ho cercato in questi anni di dimostrare che si può fare arte, poeticamente, con un gesto minimo. Che quel gesto lì, anche un poco ottuso e magari ripetitivo, è cruciale». Leggerezza, semplicità, complici della fantasia, del gioco, per procedere lungo la strada della poesia dell’arte. Qualità suprema della koinè figurativa italiana (κοινὴ διάλεκτος "lingua comune”).
Stefano Arienti, Ritratto davanti alle opere Pioppi (da Monet) 2025. Courtesy: Galleria Christian Stein