Senza troppo rumore, 2015, sabbia compressa, cm 85x60x25. Foto Benvenuto Saba. Silvia Vendramel
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Dialogo

 
Silvia VendramelSenza troppo rumore, 2015, sabbia compressa, cm 85x60x25. Foto Benvenuto Saba



Artext - Puoi parlarmi di alcuni lavori e il contesto d'esistenza, come in una “mise en espace” che ne esplori i linguaggi di provenienza, a cominciare dai “Soffi” (2012/14).

Silvia Vendramel - Soffi è il titolo di una serie di lavori in vetro soffiato all’interno di strutture metalliche che ho iniziato a realizzare nel 2012 e che ho portato avanti per circa due anni.
Tutto è iniziato dal desiderio di intervenire su un oggetto appartenuto alla mia famiglia: un centrotavola. In quel periodo stavo cercando un sistema diverso di lavorare, provavo l’esigenza di cambiare, mi sentivo frustrata da una modalità che non sentivo più mia e tutto quello che facevo mi risultava gelido e confuso. Per questo motivo ho iniziato a servirmi di elementi che avevano per me una forte valenza affettiva e questa modalità è poi rimasta una costante nel mio posizionarmi di fronte alle cose.
Il primo Soffio nasceva dunque in un momento particolare e in seguito, affascinata da un materiale così sensuale e fragile come il vetro, ho iniziato a cercare elementi in metallo simili a quello da cui ero partita. Quelli che scelgo sono oggetti decorativi che spesso abitano le case senza altra funzione che quella di riempire un vuoto, oggetti inutili che taglio a pezzi e poi saldo prima di passare alla soffiatura.
Di questi lavori mi interessa la costrizione che il metallo imprime al vetro, si tratta di intervenire sul dialogo tra i due materiali, di osservarne le reazioni, di fondere due elementi separati. Tutto ciò ha a che vedere con il senso di appartenenza e le sue contraddizioni. L’azione della soffiatura all’interno della gabbia metallica è molto veloce, pertanto non è possibile prevedere quale sarà il risultato finale, forzando la materia vitrea fino al limite del collasso, il movimento è veloce, soffocato, tutto avviene in quel soffio dove un materiale spinge verso l’altro, inglobandolo. Per questo il titolo corrisponde ad un gesto unico, irreversibile.
Il fatto di non poter prevedere ne la forma ne la posizione che la scultura troverà una volta raffreddata, è per me un modo di mettere da parte pensiero e volontà lasciando che siano i materiali stessi a prendere corpo nell’incontro.

Silvia VendramelSoffio#20 (sullo sfondo Good vibration di B.Meoni), 2014 Vetro soffiato, metallo e mdf. Veduta parziale dell’esposizione,
L’attenzione è tessuto novissimo, 2016, Villa Pacchiani (PI). Foto Nicola Belluzzi


A - Come attivi lo spazio specifico d'esposizione?
Che connessione stabilisci tra realtà intime come l'identità e la memoria a valenza affettiva e l'occorrenza della pratica scultorea?

SV - Per quanto riguarda la relazione con lo spazio espositivo, la prima opportunità di mostrare questi lavori si è presentata in occasione della personale intitolata Soffi e altre stanze presso il Blu Corner di Carrara, uno spazio molto caratteristico nel centro storico della città, a quell’epoca gestito da Nicola Ricci.
In quella circostanza decisi di posizionarli al suolo. Mettere i pezzi a terra come fossero spiaggiati, significava metterli in pericolo, la loro fragilità pretendeva cura e il fatto di esporli per terra mi permetteva di esacerbare questa loro domanda di attenzione. Il loro carattere volutamente decorativo, come impronta di un mondo edulcorato, subiva un affronto.
Questo loro aspetto decorativo è per me fondamentale ed è stato spesso frainteso.

Nel tempo ho cercato altre modalità per esporre i Soffi, continuavo a chiedermi quale fosse il modo migliore affinché questi smarrissero la loro origine di oggetto per diventare altro.

Silvia VendramelSoffio#1, 2012 Vetro soffiato e metallo. Bread, casa Burchi-Silvestri, Pisa. Foto Nicola Belluzzi


A - Esistono soluzioni differenti per ambientare le proprie opere se sono scultura o installazione...

SV - Certo, c’è una grande differenza e tutto cambia anche in funzione delle dimensioni. Per esporre questi lavori in vetro, una delle soluzioni è stata quella di progettare delle basi come fossero vetrinette museali realizzate con un tondino di ferro sufficientemente sottile perché tutta la struttura oscillasse leggermente quando ci si avvicinava.
Volevo che l’osservatore potesse stare molto vicino al pezzo, potesse girarci intorno prestando attenzione ai propri movimenti, considerarne la fragilità.
In un’altra occasione sono stata invitata ad esporre in una casa privata nell’ambito di un progetto intitolato Bread che ha luogo presso la casa di Sandra Burchi, un’amica sociologa che ama l’arte, la gente e il buon profumo del pane appena cotto.
Da anni Sandra organizza questo evento aprendo le porte di casa ad un pubblico scelto.
L’idea di fare una mostra in casa prevede che la casa rimanga com’è, con i suoi vasi, le piante, le tazze, la si svuota un po’, la si prepara come per una festa, ma senza spogliarla.
Da lei, ho ritrovato la soluzione espositiva che cercavo da tempo. Nel grande appartamento pisano, dopo aver sistemato disegni e sculture un po' dappertutto, rimaneva una sola stanza più spoglia, al centro della quale c’era un grande tavolo vuoto, questo mi è finalmente sembrato il supporto perfetto per il primo Soffio, lì ho ritrovato la base perfetta, ritornava il centrotavola e questo senso di vuoto da cui ero partita.
Non era del tutto vero che i Soffi non erano più oggetti, essi sono una reazione a certi oggetti e pertanto ne mantengono la memoria. Riportarli in casa mi ha permesso di accettare pienamente questo loro essere espressione di un malessere proveniente dalla casa stessa.
A proposito di questa serie vorrei rendere pubblica una questione che mi sta molto a cuore: nel 2014 inviai un portfolio con parte di questa serie al centro di ricerca su vetro Cirva di Marsiglia, poco tempo dopo Jean Luc Moulène produsse proprio presso lo stesso centro una serie di lavori in vetro molto simili ai miei (e che tuttora produce), che furono esposti all’epoca presso la Villa Medici di Roma.
Ci tengo perciò ad esprimere il mio disappunto rispetto a una faccenda che mi lascia a dir poco interdetta.

Silvia VendramelDi qualcosa il fondo, per qualcosa il coperchio 2016, sabbia compressa, legno, tessuti, dimensioni ambientali. TeKè Gallery. Foto Nicola Belluzzi


A - Puoi raccontarmi delle Sabbie e di come la tecnica in qualche modo evoca il lavoro - dove, come tu dichiari, ci sono state meno incertezze sul come esporle ma una certa difficoltà nel realizzarle, trasportarle e conservarle.

SV - La serie trae spunto da una tecnica usata nell’ambito della fusione dei metalli dove l’interno dei modelli viene riempito di sabbia compressa per il tempo necessario alla fusione, questa tecnica da luogo a dei solidi detti “anime”.
Prendendo spunto da questa tecnica sono nate una serie di sculture intitolate Senza troppo rumore, sculture apparentemente solide ma estremamente friabili che alludono allo scorrere del tempo e la cui superficie porosa richiama a forme arcaiche, robuste.
Una di queste si è chiamata Di qualcosa il fondo, per qualcosa il coperchio ed è stata esposta nella personale Al tempo stesso alla galleria Tekè di Carrara nel 2017.
Un’ imponente volume di sabbia compressa ricavato dal riempimento di una vasca da bagno (semicupio) è stato collocato in una delle sale della galleria.
La scultura integrata all’ambiente che la ospitava, prendeva le sembianze, per assonanza di forma e dimensioni, di un sarcofago etrusco. La rimembranza dei giochi in riva al mare insieme all’alludere all’intimità del corpo ne erano i tratti caratteristici.

Silvia Vendramel


Con il senno di poi, il titolo Di qualcosa il fondo, per qualcosa il coperchio, mi sembra troppo lungo e un po’ noioso, allora qui la chiamerò Lei. Una matrice, una tomba, un’ impronta silenziosa.

Convincere la fonderia a realizzare un pezzo così pesante non è stata impresa semplice, ma gli artigiani si sa, sono quasi sempre persone innamorate del proprio mestiere e a volte un po’ annoiate dalla monotonia e questo giocava a mio favore.
Il passo successivo è stato l’incontro con la galleria Tekè Tabularasa che ha sede nel centro storico di Carrara, in un ex negozio di biancheria per la casa tutto vetrinette in ferro battuto e vecchi pavimenti.
Inizialmente Stefano Dazzi, responsabile e sagace agitatore della galleria, mi contattò per fare una mostra di Soffi che non avevo nessuna voglia di fare perché i miei amatissimi vetri continuavano a riscontrare un discreto successo ma non si vendevano.
Gli spazi della galleria mi piacevano molto.
Una delle sale era perfetta per Lei, uno spazio seminterrato con una grande finestra e pavimenti come rivestiti di tappeti.
Ho lavorato creando una continuità tra muri e pavimento rivestendo di tessuto grigio/azzurro le pareti e di un tessuto floreale la base della scultura e il muro retrostante.
Anche le luci sono state importanti, si trattava di far vivere un intero ambiente.
Tutta l’équipe della galleria ha partecipato all’impresa, mi hanno assecondata e aiutata, hanno creduto nel progetto accettando richieste complesse con professionalità e buon umore. Una gioia!

Silvia VendramelAl tempo stesso 2017, Visione degli interventi nelle vetrine esterne. Galleria Tekè, Carrara. Foto Nicola Belluzzi


Nel caso di Lei, è nata prima la scultura e poi il luogo, altri lavori invece nascono in funzione di luoghi specifici, come nel caso degli assemblaggi progettati per le vetrine della galleria, oppure nel caso di residenze temporanee.
In genere cerco di progettare il lavoro in modo da poterlo spostare e trasportare da sola, che sia a portata delle mie braccia e della mia auto, adattato al luogo ma svincolato da legami esclusivi, salvo eccezioni, certo.
In un momento storico in cui ci è richiesto di adattarci alle situazioni più svariate, assurde ed inverosimili, sento la necessità di strutturare un linguaggio autonomo che si affranchi da dinamiche che non condivido.
A questo proposito, la nozione di site-specific non mi è mai sembrata più fraintesa come in questi ultimi anni, presentata come un fenomeno di moda senza più quell’etica di reazione alla mercificazione che le aveva dato origine.

Silvia VendramelCorpo Mobile 2016, Metallo cm cm 240x270x110 Vista parziale dell’esposizione L’attenzione è tessuto novissimo, Villa Pacchiani, S. Croce sull’Arno, Pisa. Foto Nicola Belluzzi


A - Quale il tuo pensiero sulla scultura? Puoi definire la tua pratica dal punto di vista formale?

SV - La mia pratica, che è principalmente costituita dalla realizzazione di assemblaggi, si sviluppa attraverso l’accostare, il mettere insieme. Mi interessa il dialogo tra materiali incongrui, le mie azioni mi permettono di rendere concreto il mio sguardo sul mondo recuperando oggetti e materiali che incontro o cerco, mi interessano gli attriti, le tensioni e incongruenze che si generano unendo materiali di diversa natura. Il mio modo di procedere oscilla tra razionalità e spontaneità, tra analisi e improvvisazione, è un dialogo interno, spesso una lotta, un modo di procedere empirico fatto di equilibri, tentativi e scivoloni.
Mi piace concedermi il lusso di contraddirmi e di continuare a stupirmi, il mio è un gioco (serissimo gioco) a nascondino tra forme e materiali, tra concretezza e idealizzazione.
Nutro una fede profonda nell’arte e nella scultura in particolare e trovo che siamo giunti ad un punto di svolta in cui l’arte che si rivolge a se stessa ha noiosamente fallito.
Riprendendo il tema relativo alla collocazione dei pezzi nello spazio, questo è sempre stato un aspetto importante e non solo dal punto di vista formale.
Collocare le opere nello spazio implica tener conto di un ritmo compositivo nel quale lo spazio viene interpretato come un foglio bianco, ma anche e in maniera più schietta, significa gestire le distanze tra me e gli altri, avvicinare o allontanare.
La tensione e la vibrazione che si generano nella vicinanza tra corpi è un aspetto fondamentale che osservo (e vivo) tanto nel lavoro quanto nella vita (che per un artista sono la stessa cosa).
Pensare a modalità espositive che inducano lo spettatore ad essere cauto, ad allontanarsi o a rallentare, sono modi per gestire necessità comunicative. Le sabbie ad esempio, invogliano al tatto, questa loro materia ambigua muove un desiderio e questo stesso è il motore ed il senso del lavoro.
La scultura, come ogni altra forma di espressione artistica, induce a porsi diversamente di fronte alle cose. Anche la stessa contemplazione mi sembra oggi più che mai, un movimento necessario per rallentare e controbilanciare questo stare in superficie e andare di fretta.

Silvia VendramelSchizzo preparatorio di Beatrice Meoni


A - Puoi parlarmi di altri lavori di scultura e della relazione autobiografica, "l’esperienza della scultura vissuta come testimonianza intima del divenire"..

SV - Si, mi piacerebbe parlarti delle sculture filiformi, sono sculture in tondino di ferro che richiamano il disegno. Nella loro leggerezza, le vivo più come accenni immateriali nello spazio che come sculture.
Una di queste, la prima a pensarci bene! E’ nata dalla collaborazione con Beatrice Meoni a cui ho domandato in prestito uno dei suoi schizzi preparatori. Si trattava di un appunto per un Accumulo, tema ricorrente nel suo lavoro. Così è nata Corpo Mobile, una grande scultura filiforme e oscillante. Forse questo aprirsi allo spazio ingigantendo uno schizzo era arricchito dalla fiducia in un’amicizia basata sullo scambio reciproco e questo ha fatto si che questa esperienza più di altre, abbia generato una scultura buffa e giocosa.
A fine mostra per motivi di praticità, ho dovuto tagliarla a pezzi ma non sono riuscita a disfarmene completamente e da ogni frammento ne sono nati altri. Ogni pezzo che tagliavo mi suggeriva altre partenze, l’ultimo di questi ha girato in studio per anni.
La tensione che si produce durante l’esecuzione di un’opera è intensa ma passeggera, va colta e rispettata, ogni lavoro è frutto di un’ inquietudine specifica e irripetibile, questo intendo quando parlo di testimonianza intima del divenire.

Silvia VendramelDoUndoRedo#23, 2017/19, tecnica mista su tessuto Foto Nicola Belluzzi


A questo proposito, in questo periodo sto lavorando ad una serie intitolata Do,undo,redo. Da quando ho memoria monto e smonto, costruisco e distruggo, faccio e disfo. Prendendo in prestito il titolo alla Bourgeois, che tanto continua ad insegnare, Do,undo,redo, racchiude tutta una serie di lavori che nasce dalla modalità del fare, disfare e rifare. Sono lavori composti da frammenti custoditi in un arco di tempo di circa 25 anni, spesso frammenti, pezzi non del tutto finiti, cose fatte, azioni che mi sembravano intense ma che non riuscivo a definire ne tantomeno a buttare. Con il tempo mi accorgo che certi temi erano già presenti prima che io ne avessi coscienza. In occasione e forse grazie all’ennesimo trasloco mi sono ritrovata tra le mani molti di questi frammenti, di queste tracce a cui ritento di dar voce. La sfida è stata o concludo o butto e in questa lotta con il tempo e con gli affetti qualcosa ho salvato.
La maggior parte di ciò che rimarne sono assemblaggi di piccole dimensioni, ridotti all’essenziale anche se composti da gesti sovrapposti e per questa loro natura sono lavori che si fanno osservare da vicino.

Silvia VendramelBath 2011, tecnica mista su carta stampata, cm100x210, Bread, casa Burchi-Silvestri. Foto N. Belluzzi


A - E' il corpo o il suo fantasma sensibile che detta i parametri all'attuazione ed alla percezione stessa di una scultura? Puoi parlarmi della tua idea di durata.. dell'energia nella pratica che realizza, l'attenzione che decondiziona, e la notazione del tempo che avvolge l'esercizio della fruizione?

SV - Sono, come li definisci tu, sia il corpo che il suo fantasma sensibile a guidare il lavoro e credo che questo valga anche per la pittura e per molte altre forme d’arte.
Ci sono tanti aspetti che convergono nella realizzazione di un’opera e credo che la sua riuscita consista nel fatto di farci rallentare, nel rapirci in un non detto che è l’essenza stessa dell’arte.
La scultura (l’arte) nasce dal bisogno di riconoscersi e questo riconoscersi è valido anche per chi la osserva e dunque per chi la vive. E’ un farsi rapire e ritrovarsi al stesso tempo.

 

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