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Galleria ME Vannucci
Paesaggi personali
Serena Becagli

 
Paesaggi personaliVeduta della mostra con in primo piano l’opera Ciglio di Sole, 2020, di Sergia Avveduti. Foto di Alessandra Cinquemani.

Paesaggi personali
Artext / Serena Becagli
Intervista

Il tema del paesaggio è un tema infinito, che ci parla dell’incontro di natura e cultura, dello stratificarsi di gesti, scelte, tradizione e innovazione. L’opera d’arte può diventare quel dispositivo trasformatore che ci fa compiere un passo indietro e che ci fa introdurre volontariamente una distanza con il mondo esterno, per vederlo e sentirlo in modo nuovo.
Un percorso tra video, sculture, installazioni, interventi site-specific, carte, disegni, fotografie, luci, proiezioni e apparizioni, in cui i termini più ricorrenti sono: stratificazione, memoria, terra, trasparenza, architettura, cielo, origine, limite, destinazione.
Un panorama composto da singole storie, quelle degli artisti Antonello Ghezzi, Sergia Avveduti, Mohsen Baghernejad Moghanjooghi, Luca Caccioni, Fabrizio Corneli, Marco Degl’Innocenti, Lori Lako, Erika Pellicci, Sandra Tomboloni, che si esplica in una pluralità di punti di vista e inquadrature, di riflessioni e stati d’animo. Ogni opera è un posto dove non siamo mai stati, un sentimento che non abbiamo ancora provato.


Artext - Puoi parlare di questa esposizione Paesaggi personali da te curata?
Di come il tema della Visione - nei tratti tra visibile e invisibile può essere declinata una qualità “ecologica” della mente volta a chiarire la complessa fenomenologia del presente e come può prendere forma del reale?

Serena Becagli - Mi piace questo tuo riferimento a una qualità “ecologica” della mente. Il saggio di Gregory Bateson del 1972, Verso un’ecologia della mente, raccoglie contributi disomogenei di varie discipline, dalla psicologia all’antropologia, «Per la natura stessa delle cose, un esploratore non può mai sapere che cosa stia esplorando finché l’esplorazione non sia stata compiuta».
Non ci avevo pensato, ed è bello poterci riflettere adesso, anche se penso che l’esplorazione non sia affatto compiuta. Per Bateson la mente è una parte costituente della “realtà materiale”. Costruire una mostra collettiva porta a combinare le conoscenze, a guardare con più occhi, e di conseguenza – mi auguro – anche ad aumentare la profondità di pensiero in cui i fattori emotivi restano fondamentali.
È sempre difficile e quasi impossibile chiarire quella che chiami “complessa fenomenologia del presente”, e sarebbe folle pensare di esaurire e chiarirla con una mostra, ma la forza di questa esplorazione sta nel far interagire le idee e le relazioni.

Paesaggi personaliSergia Avveduti, Tifone, 2021 e Architettura spontanea #5, 2019 Foto Alessandra Cinquemani.


A - È forse di-mostrato nell'esposizione il carattere implicito dell'idea di paesaggio che riconosce già nel suo atto la funzione specifica dell'osservare ancor prima di uno spettatore nella sua esperienza? (vedere/guardare) La storia dell'arte ci parla della trasgressione di una soglia, del rapporto di compenetrazione tra rappresentazione e realtà…

SB - L’idea della mostra parte proprio dalla consapevolezza della molteplicità dei punti di vista e dal fatto che il paesaggio nasce dall’incontro tra la realtà e tutte le conoscenze, memorie e sentimenti, che il soggetto proietta su ciò che vede. Insomma sappiamo che non esiste una realtà neutra.
Ho pensato metaforicamente di collocare proprio a pochi passi dall’entrata principale della mostra l’opera di Sergia Avveduti Ciglio di Sole, che induce lo spettatore a guardare attraverso il foro di una scultura posta su un piedistallo a una certa altezza da terra. Il visitatore è invitato ad abbassarsi leggermente e a guardare nel foro, ad assumere un punto di vista. La scultura punta direttamente sulla rappresentazione del Sole, e da qui possono partire altre riflessioni sullo sguardo, sulla luce, sulla sfida di guardare direttamente il Sole.

Inoltre già il “vedere” come percezione con il senso della vista – ancor prima del “guardare” che implica oltre alla percezione anche un’attenzione – è, come sappiamo, intimamente legato ai media che condizionano un’epoca. Chissà se ha ancora senso parlare di un reale punto di vista: se la prospettiva è una forma simbolica (parafrasando Erwin Panofsky), noi siamo da un bel po’ fuori dalla galassia Gutenberg (citando Marshall McLuhan), e la dittatura del senso della vista sugli altri dovrebbe essere terminata da un pezzo.
Ecco che in quella piccola scultura che sembra un imbuto – o un prolungarsi di ciglia, o l’incontro tra le ciglia dello spettatore e i raggi del Sole – mi piace vederci anche la forma di una conchiglia che ascolta.

Paesaggi personaliPaesaggi personali, Veduta della mostra. Foto di Alessandra Cinquemani.


A - Quali le singolarità e gli accostamenti tra gli autori di questa mostra collettiva? Come dialogano tra loro? C’è un elemento conduttore o hai seguito una progressione spaziale nel disporre le opere?

SB - Ogni autore presente mi ha permesso di fare delle riflessioni. Stando all’interno della galleria, parlando con gli artisti e con i visitatori, nuove connessioni sembrano ogni volta venire fuori, come se la mostra non fosse mai statica.
Lo spazio espositivo non è neutro: ci troviamo in un luogo carico di memoria, una ex officina dove le vite di molti lavoratori si sono incrociate, per creare e assemblare una quantità incalcolabile di pezzi meccanici. Sono rimasti inalterati i finestroni e le grandi luci, uno dei muri presenta ancora delle scritte lasciate dagli operai ed è percepibile ancora l’odore di metallo e lubrificante. Ci sono due entrate – una principale sulla strada e un’altra dal cortile della galleria – quindi teoricamente il percorso potrebbe iniziare da due punti diversi.

Paesaggi personaliMohsen Baghernejad Moghanjooghi, Each one in anotherone, 2021, incisione su muro. Foto Alessandra Cinquemani.


Sulla parete che dà sul cortile è intervenuto l’artista iraniano Mohsen Baghernejad Moghanjooghi con una scritta scolpita/incisa sul muro.
Mohsen Baghernejad lavora prevalentemente con materiali e strumenti che provengono dal cantiere, portando nella sua opera elementi prelevati dalla sua storia personale, di quando lavorava come assistente del fratello architetto a Teheran nel fare sopralluoghi agli edifici in costruzione. La scritta che Mohsen crea con fresa e scalpello recita “Each one in another one”, ognuno in un altro, forse metafora del suo inserirsi nella memoria di questo pezzo di paesaggio urbano, di questo suo scavare al fine di restare per sempre come segno nel muro, anche per chi un giorno dovesse trovare i residui di questo edificio.
Il titolo di questo lavoro potrebbe essere sia l’inizio che la fine del percorso della mostra, con l’idea che ciascuno dei “paesaggi personali” possa inserirsi nell’altro. Nessuna delle opere resta neutrale e inalterata ma deve inevitabilmente mischiarsi e mettersi in discussione, nella consapevolezza dell’esistenza dell’altro.

Paesaggi personaliFabrizio Corneli, QI Metropoli, 2018, particolare. Foto Alessandra Greco.


Entrando invece dall’ingresso principale, sulle due pareti di fianco alla porta, troviamo due città, restituite entrambe come proiezioni. Nell’opera QI Metropoli di Fabrizio Corneli la città appare, come per magia, da un inganno ottico di luci e proiezioni: una sfera di vetro è tecnicamente un sistema ottico ma racchiude allo stesso tempo un’idea di incantesimo. L’intento di Corneli è quello di catturare l’energia vitale della città; il QI è infatti per alcune culture orientali l’energia vitale dell’Universo.

Paesaggi personaliErika Pellicci, Il luogo d’origine, 2020, video 4.33 min.


La città che proviene dal video di Erika Pellicci è anch’essa frutto di un inganno con cui l’artista gioca per farci vivere l’idea di una camminata nelle strade affollate e luccicanti di New York, stando seduti sul prato dietro casa sua, in Toscana. Qui il paesaggio urbano è camminato attraverso lo sguardo in movimento di uno youtuber. Nel video oltre alla parte visiva c’è un fondamentale intervento della parte sonora, con la voce dell’artista che recita e sussurra un testo in cui dichiara il suo personale rapporto con il paesaggio, il suo fuggire e tornare al “Luogo di origine”. Mi piace che la voce di Erika la si ascolti proprio stando vicino a Ciglio di Sole di Sergia, a quella scultura che per me è occhio ma anche orecchio in ascolto.

Vicino al suo video Erika ha creato un’installazione con una serie fotografica dove alterna autoritratti a foto scattate durante i suoi viaggi, mantenendo viva quest’idea di un duplice spostamento, vissuto e sognato. In effetti in uno dei suoi autoritratti l’artista se ne sta a occhi chiusi, appoggiata sui gomiti, in un altro gioca con un i resti di alcuni rotoli di carta igienica che diventano binocoli attraverso cui guardare da lontano.

Paesaggi personaliA parete: Lori Lako, Possibly maybe, 2017, serie di 4 stampe digitali. A terra: Mohsen Baghernejad Moghanjooghi, Diritto, 2021, calcestruzzo, solfato di rame, secchio da cantiere. Foto Alessandra Cinquemani.


All’interno della mostra si nota una forte presenza dell’elemento cielo. C’è molta aria nelle opere, si evocano e rappresentano stelle. L’acqua e i vapori sono altrettanto presenti. E poi la terra.
Il fuoco, nella prima sezione: nel Sole di Sergia Avveduti, e poi declinato nelle luci delle due proiezioni di Corneli e Pellicci. Anche nelle stelle c’è del fuoco, sia nel retro dell’opera Tifone di Sergia Avveduti che nel Progetto di legare la terra al cielo di Antonello Ghezzi.
Vapori: evocati dal Tifone di Sergia; creati dal nebulizzatore che accompagna l’opera Diritto di Mohsen; il vapore delle scie degli aerei della serie fotografica Possibly/Maybe di Lori Lako.
Sembra che il vapore caratterizzi le opere di questa sezione della mostra, diciamo la parte centrale dello spazio. Tutte opere che in qualche modo alludono a un legame tra cielo e terra.
Un cielo stellato, ricreato su un prato, vuole ribaltare la visione; oppure potremmo arrampicarci in cielo attraverso le funi fluorescenti attaccate a delle nuvolette ricreate con palloncini gonfiati ad elio, nelle opere che riportano i progetti delle due performance realizzate recentemente dal duo bolognese (Nadia Antonello e Paolo Ghezzi).

Diritto sembra quasi riportarci a terra: una foglia senza radici realizzata in cemento scende con un filo di ferro da una trave della galleria, un organismo che chiede di essere curato e custodito con periodici spruzzi di acqua.

Paesaggi personaliSandra Tomboloni, Irina e Irene, 2007, plastilina su legno. (Particolare)


Subito accanto due opere di Sandra Tomboloni che alludono invece alla terra come la Stratificazione della Terra in cui l’artista fiorentina prosegue la sua ricerca attorno ai temi dell’antispecismo; qui le sue creature in paraffina si accalcano ed emergono da un fondo indistinto. Quasi un magma primordiale ci ricorda che siamo fatti tutti della stessa materia. Allo stesso modo un’opera meno recente di Sandra ci porta a queste riflessioni, a una identificazione dell’artista con la sua opera e con l’ambiente intorno. Queste due opere gemelle portano il nome di due donne, Irina e Irene, sono due pannelli composti da tanti fiorellini in pongo e leggermente rialzati rispetto al suolo. Quasi due giardini senza radici che mi fanno pensare a diverse delle opere in mostra, a quello sconfinare di Lori, a quella identificazione che anche Mohsen fa intitolando un’altra delle sue opere (una pianta realizzata in cemento) Io e i miei fratelli.

C’è un’idea di cura, di fragilità, di cambiamento, insita nell’idea stessa di paesaggio.
Parla di Terra perduta una delle opere di Marco Degl’Innocenti, collocata proprio vicino a Irina e Irene. I calchi in bronzo delle mani dell’artista sono installati su due bastoni in legno – le impugnature di una vanga e di una zappa – allusive alla necessità di tornare a toccare con mano il suolo che calpestiamo, a prendercene cura. Nella sua poetica è sempre esplicito il rapporto tra l’uomo, i suoi strumenti, e la natura: ecco perciò che nei disegni a mina della serie Accordo, l’artista fa in modo che sboccino direttamente dai rami di un albero alcune chiavi inglesi in caolino. Fare in modo che gli strumenti dell’uomo siano sempre al servizio e non contro la natura.

Un’altra parola chiave della mostra è memoria: nei collage Exotic Memories di Lori Lako e nella serie di opere di Luca Caccioni Lotophagie, con un riferimento ai Lotofagi, il popolo che nell’Odissea mangia i fiori di loto per dimenticare: l’artista indaga su brandelli di vecchie scenografie teatrali, operando prelievi, rilevando tracce, inserendo nuovi elementi.
C’è un incontro tra terra e acqua in questa serie, sia per l’intervento che Luca fa con elementi liquidi sulle carte, per rilevarne le memorie, che nell’allusione al fiore di loto che affonda le proprie radici nel fango.

Paesaggi personaliMarco Degl’Innocenti, Terra perduta, 2021 Bronzo e manici di legno. Foto Alessandra Cinquemani


A - Quali effetti inattesi può generare un modo, quello di "un paesaggio plurale in cui il personale – privato e intimo – si apre alla rivelazione e alla condivisione"?

SB - Come dicevo in apertura la condivisione e la relazione generano nuove letture e nuove visioni. Un’opera d’arte – un racconto, una poesia, una composizione – quando viene resa pubblica innesca sempre nuove storie e visioni. In molte di queste opere ci sono racconti personali, anche se non sempre rivelati completamente.

Paesaggi personali Antonello Ghezzi, Progetto Legare la terra al cielo #2, 2021, pastelli a olio su stampa digitale, corda fluorescente.


A - È resa evidente tra le opere in mostra la questione dell’origine dell’immagine e dei dispositivi ad-atti alla riflessione? Di come il reale emerge nel simbolico? e alle molteplici declinazioni della Realtà Virtuale..

SB - Nel breve testo che introduce la mostra ho citato Nicolas Bourriaud che nel suo recente saggio Inclusioni. Estetica del capitalocene ci ricorda la preoccupazione di Aby Warburg quando nel 1896 nel suo scritto Il rituale del serpente dice: “Il telegrafo e il telefono distruggono il cosmo. Il pensiero mitico e il pensiero simbolico, lottando per attribuire una dimensione spirituale alla relazione dell’uomo con il suo ambiente, hanno fatto dello spazio una zona di contemplazione o di pensiero, spazio che la comunicazione elettrica istantanea annienta”.
Penso che il timore di “una comunicazione elettrica istantanea che annienta il pensiero mitico e simbolico” sia scongiurato. L’opera d’arte reintroduce per fortuna quella dimensione simbolica e spirituale attraverso anche quei dispositivi che utilizzano “la comunicazione elettrica istantanea”.

Ogni opera ci fa fare un passo indietro rispetto alla realtà, anche quando quest’ultima appare rappresentata tale e quale. Penso a Possibly/Maybe di Lori Lako, forse l’opera in cui la realtà è meno manipolata. Un pezzo di cielo solcato dalle scie di aerei, un paesaggio abbastanza consueto ai nostri giorni. L’artista però astrae questo pezzo di cielo che diventa un paesaggio senza radici: si amplifica l’idea di “possibilità”. Racconta un momento: l’incontro casuale di segni che appaiono contemporaneamente sulla stessa porzione di cielo, a volte incrociandosi. Lori tenta di capirne le traiettorie, di segnare attraverso orari e nomi di città il loro legame con la terra. Per lei probabilmente su questi incroci e su questi sconfinamenti si proietta il sentimento di qualcuno che, vivendo in un paese straniero, vede in queste traiettorie l’idea di una reale possibilità di spostarsi. E forse l’artista lega questo particolare momento anche a qualcosa accaduto in quell’istante e che conserverà sempre con sé, a quel “forse/chissà” dichiarato dal titolo stesso.

Paesaggi personaliLori Lako, Exotic Memories / Kujtime ekzotike, 2019, collage su carta.


A - Un frammento di meteorite, quello precipitato nei vivai intorno la Galleria Vannucci può ricordarci di essere terrestri... e muoverci all'urgenza di guardarci da fuori? Non limitarsi alla visione dei sensi e dunque percepire con Arte... (attivare il "preindividuale" ciò che sempre ci precede?)

SB - Mi ha colpito molto questo piccolo evento che per qualche giorno ha impegnato tanti abitanti dei paesi intorno a Pistoia nella caccia al meteorite. Ogni tanto succede qualcosa che ci fa capire che siamo parte di un insieme più grande di noi e che ci coinvolge direttamente.
L’arte ci aiuta ad andare oltre i sensi, anche quando le cose sembrano ovvie scuote una riflessione.

Paesaggi personaliVeduta dell’installazione di Erika Pellicci durante l’inaugurazione. Foto Giovanni Fedi.


A - Il paesaggio diventa corpo, e viceversa. Ciò che risulta è un certo senso di possibilità infinita – secondo la quale qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, si può animare...

SB - Sono evidenti molti punti di incontro tra paesaggio e corpo, talvolta quasi uno scambio reciproco, un alimentarsi, un po’ come voler evidenziare attraverso forme simboliche quello che in effetti è la realtà. L’essere come parte di un tutto.
L’unica figura umana “intera” la troviamo nel piccolo collage di Sergia Avveduti Architettura spontanea dove un’indigena, intenta a pescare facendo roteare una sorta di fionda, è quasi bloccata dall’innesto di un elemento verticale, una sorta di menhir.

Vorrei in questa risposta aprire una sorta di esplorazione (tornando al tema della prima domanda) all’interno della mostra, alla ricerca di tutti i punti di contatto tra corpo e paesaggio:
- lo schermo sul prato di Erika Pellicci è un luogo di trasformazione e contatto tra due luoghi lontani, e dove a sua volta il paesaggio urbano è vissuto e camminato;
- il Ciglio di Sole di Sergia Avveduti, luogo in cui l’occhio e il paesaggio si incontrano, si toccano e la scultura sembra la solidificazione dell’incontro tra l’occhio e i raggi del sole;
- nei cieli di Lori Lako un segno lasciato dall’essere umano, la scia come punto di incontro tra cielo e uomo; mentre nella serie di collage Exotic memories Lori toglie le sagome delle persone da dei fondali di paesaggi esotici ideali;
- la corda fluorescente nel tentativo di “legare la terra al cielo” del progetto di Antonello Ghezzi;
- gli strumenti da lavoro di Marco Degl’Innocenti che diventano il calco delle sue mani;
- la calligrafia di Mohsen Baghernejad che si insinua tra l’intonaco e i mattoni;
- la sfera di Fabrizio Corneli che essendo uno strumento ottico può essere considerata anche una “riproduzione” e astrazione dell’occhio umano, che sua volta crea e proietta un paesaggio urbano;
- gli esseri viventi di Sandra Tomboloni che si fanno Terra e i suoi fiori che prendono nomi di donna;
- le carte di Luca Caccioni che evocano fiori di loto mangiati, un paesaggio masticato per interferire con la mente e cambiare la percezione della realtà intorno.

L’esplorazione continua…

Paesaggi personaliMohsen Baghernejad Moghanjooghi, Io e i miei fratelli, 2021, calcestruzzo, solfato di rame. Foto Giovanni Fedi


 

Paesaggi personali
a cura di Serena Becagli
Galleria ME Vannucci di Pistoia 5 dicembre 2021 - 29 gennaio 2022
@ 2022 Artext

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