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La Galleria Nazionale
T IME IS O UT OF JOINT
Saretto Cincinelli

Galleria Nazionale The Lasting. Roma La Galleria Nazionale. Foto Fernando Guerra.


 

IL TEMPO INTER-DETTO
La Galleria Nazionale
Artxext in dialogo con Saretto Cincinelli

Artext - Dal momento che a giugno 2016 hai curato la mostra The Lasting (visibile sino al 29 gennaio 2017) e ad ottobre hai collaborato a Time is Out of Joint che, coinvolgendo l'intero spazio espositivo della Galleria Nazionale, ingloba anche la mostra precedente, vorrei chiederti se esiste un legame tra le due operazioni?

Saretto Cincinelli - Non solo esiste un legame esplicito come testimonia la compresenza delle due mostre per un periodo di circa 4 mesi e la centralità che entrambe riservano alla dimensione temporale ma, per così dire, risultano entrambe figlie di un unico progetto... Mi spiego meglio... in origine sono stato contattato da Cristiana Collu (con cui avevo avuto l'opportunità di collaborare sia durante la sua direzione al Man di Nuoro sia al Mart di Rovereto) non per The Lasting ma, appunto, per Time is Out of Joint: una importante mostra-riallestimento temporaneo delle prestigiose collezioni della Galleria, che avrebbe dovuto svolgersi parallelamente ad una operazione di rinnovamento dello stesso spazio espositivo... Prima ancora di iniziare una nuova stagione che caratterizzasse la sua direzione Cristiana si era infatti posta l'obiettivo di rinnovare l'immagine del museo a partire dai suoi pilastri: l'edificio del Bazzani e la collezione... Un'operazione decisamente complessa, anche dal punto di vista logistico, si trattava infatti di movimentare un ingente numero di opere (alcune di grandi dimensioni) e contemporaneamente di iniziare i lavori di restauro e riallestimento delle sale, cercando di evitare una totale chiusura del museo. Si è così delineata l'ipotesi di realizzare, nel salone centrale, una mostra temporanea di lunga durata che permettesse al pubblico di poter continuare a visitare parzialmente la galleria, mentre negli altri settori proseguivano i lavori. E' questa la genesi di The Lasting, il cui sottotitolo L'intervallo e la durata, oltre a fornire una declinazione teorica al tema della mostra, alludeva anche a quella sorta di intervallo temporale che separava questa prima parte dell'operazione da quello che si sarebbe potuto vedere al momento della riapertura totale del museo. Nella sua specificità e autonomia, The Lasting... costituiva, infatti, una sorta di preludio e adombramento di alcuni temi che sarebbero stati (sia pur con una diversa ampiezza e una prospettiva rovesciata rispetto alle presenze contemporanee) al centro di Time... la cui concezione era, nelle sue linee generali, in parte già delineata nel progetto di Cristiana Collu, come emerge dalla sua introduzione a The Lasting : "Ho iniziato da dentro, dall’ architettura e dalla luce. Ho fatto l’archeologa e ho provato a segnare il tempo in levare. Ho cercato di ritrovare lo spirito di questo luogo e da qui ho ricominciato a disegnare una possibilità per l’altra pietra d’angolo della Galleria Nazionale, la sua collezione. Ho messo al centro la testa e la coda di quello che verrà, di quello che sarà nella prossima mostra: un discorso sul tempo, sull’idea della durata e della persistenza, cercando di sfidare il monopolio della cronologia e la possibilità di passare a contrappelo la storia, secondo le impareggiabili parole di Walter Benjamin" (1).

Galleria Nazionale Time is out of joint. Roma La Galleria Nazionale. Foto Fernando Guerra.

A. - Puoi dirci qualcosa di più su The Lasting? Gli artisti coinvolti? Le opere?

SC -La mostra -che si configura come un’accurata concertazione di opere di riconosciuti maestri internazionali, protagonisti della scena delle ultime generazioni e singoli artisti emergenti intorno al tema del tempo- è stata concepita su misura per quello specifico spazio espositivo. Nel suo ultimo allestimento il salone centrale della galleria vedeva tutte le opere collocate ad altezza di sguardo. La prima idea è stata, dunque, quella di rompere questa monotona successione orizzontale e utilizzare il vasto ambiente sfruttandone anche l'altezza: in quest'ottica va letta l'opzione di introdurre -come parte integrante del disegno della mostra- alcune straordinarie opere della collezione permanente come il mobile di Calder, tre Concetti spaziali natura di Fontana o due cere di Medardo Rosso: il primo attira infatti l'attenzione sulla verticalità, ariosità e cubatura dello spazio e i secondi sul piano pavimentale. A sollecitarmi verso questa scelta non è stata solo un' ipotesi installativa ma la centralità delle opere rispetto al tema. Con il suo introdurre il movimento reale nella scultura Calder ne decostruisce, infatti, la tradizionale dimensione statica, aprendola all'instabilità ed alla dimensione temporale della durata, dimensione declinata invece come una sorta di intervallo dai tagli inferti nell'argilla da Fontana. Le cere di Rosso tracciano infine -con il loro stesso modellato- una modulazione in cui la scultura pare raccontarsi tramite il processo del suo stesso farsi. Accanto a queste eminenti tracce della collezione permanente ci sono poi molte opere contemporanee capaci di tematizzare in maniera sempre diversa la genesi temporale dell'opera o della sua ricezione, a cominciare dalle serie fotografiche dei Theaters di Hiroshi Sugimoto in cui il tempo di esposizione impiegato per scattare una singola foto corrisponde alla durata di un’intera proiezione cinematografica, per giungere sino alla reiterazione dei soggetti in Franco Vimercati, un artista la cui ricerca si protrae per lunghi anni ponendo ostinatamente al suo centro i soliti, ricorrenti, oggetti del quotidiano che emergono da un fondo scuro, o alle Exposure di Barbara Probst che trasformano la dischiusura di un singolo istante in una sorta di fantasia zenoniana, che dà vita a un tempo immobile la cui durata appare potenzialmente interminabile. Al momento della progettazione pensavo di poter ripartire, sia pur schematicamente, le opere raccordandole ora alla figura dell' intervallo ora a quella della durata, nel procedere del progetto è però divenuto chiaro che esse non potevano essere esplicitamente separate. Se è vero infatti che le foto di Sugimoto sono il prodotto di un lungo, inusitato tempo di esposizione che -depositandosi interamente nel risultato- mostra la paradossale metamorfosi di un intervallo per antonomasia (il tempo dello scatto) in durata è vero anche che -come tutte le foto- anch'esse sono il risultato di un taglio operato nel continuum spazio-temporale, così come le Exposure di Barbara Probst sono sia il frutto dell'incrociarsi simultaneo di riprese su un unico soggetto, colto da differenti prospettive sia la sua in-finita restituzione. Mentre Sugimoto inter-dice lo stesso svolgersi del tempo, dilatando in maniera anomala la durata dell'esposizione o, in altre parole, si serve del tempo per porre fuori gioco l'accadimento, Probst sembra invece incantarlo, moltiplicando le riprese su un unico istante. Nei vuoti schermi luminosi dei Theaters le immagini e le storie dei film proiettati 'evaporano' proprio a causa della durata dell'esposizione che, incapace trattenere il loro scorrere, finisce per assorbire solo il loro medium: la luce. In un certo senso queste foto fotografano solo ciò che permane: lo schermo luminoso che accoglie molteplici storie senza restituirne alcuna e lo spazio (la sala di proiezione) anch'esso occupato solo transitoriamente dal pubblico. Restano dunque solo immagini vuote: ritratti di luoghi come folgoranti metafore della photo-grapia. Nelle numerose riprese sincronizzate delle Exposure, l'azione fotografata -presa nell'incantamento sospeso della sua restituzione plurale- ricade, interminabilmente in se stessa, in-stallandosi in una sorta di fuori-tempo che, trasformando insensibilmente una sospensione della narrazione nella narrazione di una sospensione, introduce nell'opera un accento autoriflessivo che reclama l'intervento dello spettatore. Chi guarda finisce così per condividere con l'autore non solo ciò che è rappresentato ma anche il processo della rappresentazione. Persino dopo che abbiamo realizzato -e non sempre si tratta di un'intuizione fulminea- che le differenti immagini proposte da Probst in una serie, sono tutte sincronizzate sullo stesso momento, siamo comunque tentati di imporre loro un ordine, una gerarchia: l'ipotesi che possano darsi differenti punti di vista su un'unico istante ci appare destabilizzante, e questo perchè -offrendosi come una sorta di piega del visibile- l'opera di Probst non si limita a sottolineare la relatività del vero ma, più radicalmente, tende ad affermare la verità del relativo.

Galleria Nazionale The Lasting. Roma La Galleria Nazionale. Foto Fernando Guerra.

A. - Sinora hai parlato di artisti molto noti ma in mostra ci sono anche artisti di media carriera e giovani artisti emergenti...

SC - Mi sono soffermato su alcuni nomi che mi hanno permesso di rilevare, in breve, alcuni temi dell'esposizione, motivi che appaiono declinati in maniera di volta in volta diversa anche nel lavoro degli altri. Se la serie di Sugimoto dissolve la narrazione cinematografica in pura luminosità, The raid... di Elisabeth McAlpine sembra, all'opposto, eluderla riconducendo il film alla sua stessa materialità: la giovane artista infatti ritaglia frame dopo frame una copia della pellicola di The raid e poi sovrappone e impila ciascun fotogramma in modo da ottenere una scultura formata da varie torri verticali. L’intero film, 101 minuti, oltre 150.000 frame, è compresso in 20 metri lineari. La narrazione filmica appare così occultata dalla reificazione del suo stesso supporto in una sorta di visione stratigrafica che, presentandosi come una scultura minimalista, ci restituisce una immagine 'geologica' della dimensione temporale. Centrali nell’esposizione, sin a partire dal titolo, si rivelano poi le opere della serie Clessidra di Giorgio Andreotta Calò, opere in cui il processo di corrosione e passaggio del tempo viene congelato in una forma e in un materiale apparentemente incorruttibile come il bronzo. Se le sculture di Calò mostrano l’opera del tempo, per così dire, a ritroso, permettendoci di risalire concettualmente al processo che le ha generate, quelle della serie Dominium Melancholiae di Antonio Fiorentino, incentrate sulla metamorfosi della materia, tendono a mostrarci un’impercettibile ‘trasformazione silenziosa’ nel suo stesso farsi: le sue sculture ‘mutanti’, ricavate dall’alterazione di lastre di zinco, immerse in una soluzione di acqua distillata e acetato di piombo, danno origine a una vegetazione chimica che ne ricopre progressivamente tutta la superficie. Il risultato è un “paesaggio” di forme autonome in continuo impercettibile mutamento. Se nella sua veste di ‘grande scultore’ il tempo è all’origine delle trasformazioni alchemiche di Fiorentino, in quella di ‘pittore’, segna invece la genesi degli Stills di Marie Lund, opere a parete realizzate a partire da tende stinte dal sole, recuperate e intelaiate dall’artista per mostrare le cangianti erosioni del colore che il tempo ha magistralmente inscritto sulla loro superficie monocroma. Opere che ora, come le sedie e gli sgabelli in plastica della serie Almost Invisible della giovane Giulia Cenci -che scaturiscono da un processo di usura risultato di un lungo e partecipato lavoro manuale- finiscono per fornire un’eco inquietante di un’esistenza precedente, evocando una presenza spettrale e contemporaneamente una sorta di doppia vita, così come le opere plastiche della serie Refolding di Tatiana Trouvé in cui materiali da imballo (coperte e cartoni) utilizzati per il trasporto delle opere, e ripiegati per essere riposti o gettati, vengono sottoposti ad un processo di calco e fusione in bronzo, dando vita a repliche che finiscono per smentire la natura effimera degli originali. Trouvé crea così una sorta di trompe-l’oeil temporale che ipostatizzando il loro carattere aleatorio e transitorio, trasforma l’intervallo in durata e una forma accidentale in ‘monumento’... Il processo di rigenerazione della cera di candele votive, un materiale a forte connotazione simbolica, da sempre connesso alla dimensione temporale, caratterizza le cere di Alessandro Piangiamore, mentre una sorta di elogio della durata (o della lentezza) è al centro della serie Shining di Emanuele Becheri, opere in cui ad agire tracciature cieche (che ricordano precedenti lavori dell’artista) sono alcune chiocciole che, liberate su grandi carte nere da fondale fotografico, disegnano con le loro secrezioni, la lenta mappa dei multipli tracciati madreperlacei dall’andamento incerto che restano sulla carta a indicare après coup le successive fuoriuscite dei gasteropodi dal foglio. Una dialettica in stato d’arresto tra attualità e virtualità caratterizza poi le opere pittoriche di Antonio Catelani: ciò che in questi lavori si manifesta come struttura è, infatti, solo la momentanea cristallizzazione di un differire potenzialmente infinito... Le idee di reiterazione e/o gemmazione sono all’origine delle grandi installazioni scultoree di Daniela De Lorenzo e Andrea Santarlasci, la prima con L’identico e il differente occupa quasi interamente la verticalità dello spazio espositivo, evocando l’idea di caduta, tramite una scultura in feltro che pare materializzare e reinventare gli studi sul tempo e sul movimento della cronofotografia, mentre il secondo, accostando, senza soluzione di continuità, l’immagine al suo doppio o ad una proliferazione di simili, proietta l’identico “nell’ambito della differenza”, mostrandoci l’enigmatica “gemmazione del molteplice all’interno dell’uno”(Rosalind Kraus). Intervallo e durata si trasformano, infine, in puro ritmo in Railings di Francis Alÿs, una serie video -realizzata in collaborazione con Daniel Ortega- che registra la deambulazione dell’artista mentre, con una bacchetta da batterista, percuote ritmicamente le cancellate poste a protezione delle ville di Fitzroy Square a Londra.

Galleria Nazionale Time is out of joint. Roma La Galleria Nazionale. Foto Serge Domingie.

A. - Dal tuo racconto mi pare che -sottotraccia- la figura maggiormente responsabile del reciproco avvicinamento che le opere in mostra sembrano operare fra i concetti tradizionalmente opposti di intervallo e durata, cui accennavi all'inizio, sia la ripetizione, declinata di volta in volta come reiterazione, serie, ritmo...

SC - Hai ragione... la ripetizione si caratterizza, infatti, come una sorta di disgiunzione inclusiva. Il rapporto che, in mostra, finisce per dis-allontanare durata e intervallo si rivela, in un certo senso, simile a quello che pone in relazione modellazione e modulazione, processi che segnano una distanza massima, se inquadrati secondo un paradigma spaziale, ma una molto minore se interpretati secondo un paradigma temporale (capace di accogliere al proprio interno l'idea di metamorfosi). Se fino agli anni ottanta, la distinzione tra mobile e immobile, istante e durata, non poteva darsi se non in un rapporto di reciproca esclusione, oggi -forse per effetto del digitale- appare evidente che gli ordini temporali dell’immagine e dell'opera, si sono elasticizzati sino a rendere sempre più problematiche le vecchie contrapposizioni. L'odierno riavvicinamento di paradigmi spaziali e temporali appare più consono a un periodo in cui -come nota Deleuze sulla scorta di Simondon- anche nella produzione industriale, le macchine a controllo numerico stanno progressivamente sostituendo la pratica dello stampaggio e in cui il nuovo statuto dell'oggetto non appare più necessariamente riconducibile a un modello spaziale ma a una modulazione temporale che implica una messa in variazione continua della materia come uno sviluppo continuo della forma. Proprio perciò The Lasting più che il tempo dell'evento rappresentato o quello della rappresentazione tende sottolineare il loro reciproco intrecciarsi e più che opporre l'intervallo alla durata si ripropone di farceli percepire come il recto e il verso di una stessa moneta.

Galleria Nazionale Time is out of joint. Roma La Galleria Nazionale. Foto Fernado Guerra.

A - Torniamo a Time... una mostra di fronte a cui il mondo dell'arte pare essersi, per così dire, diviso: accanto a molte accoglienze positive bisogna infatti registrare anche alcune polemiche prese di distanza...

SC - A dire il vero le polemiche si sono concentrate soprattutto in ambito romano... Sulla stampa nazionale -a parte rare eccezioni- la mostra è stata accolta bene, e la grande risposta del pubblico, quasi raddoppiato, nel corso del 2016 (2) sembra confermare un consenso generalizzato. Un merito che non è ascrivibile solo a Time ma anche alla recente riapertura di tutte le sale della galleria, alla unanimemente apprezzata ristrutturazione dello spazio e alla grande qualità della collezione.

Galleria Nazionale Time is out of joint. Roma La Galleria Nazionale. Foto Fernado Guerra.

A - Qualcuno però sostiene che la maggioranza degli addetti ai lavori, in grado di capire i sottili collegamenti tra le opere poste "in dialogo" o "in cortocircuito" da Time is Out of Joint, abbia snobbato l'operazione, mentre il pubblico, chiamato ad una fruizione diretta, ne sia uscito entusiasta. Puoi tentare una interpretazione di questa diversità di reazioni?

SC -Credo che l'opinione che riferisci sia il frutto di una indebita semplificazione e generalizzazione... Quella che definisci la 'maggioranza' degli 'addetti ai lavori' non ha affatto snobbato l'operazione, come dimostra il dibattito che ha accompagnato l'evento e che -cosa piuttosto inusuale nell'attuale panorama italiano- si è protratto per molti mesi sulla stampa nazionale e di settore e infine -è notizia di oggi- Time is Out of Joint è stata segnalata come una delle 10 mostre più significative da visitare nel 2017 dall' Observatoire de l'art contemporain. Plateforme de décryptage, d'analyse et de prospective di Parigi. Gli strascichi polemici (spesso basati su giudizi soggettivi poco supportati da adeguate motivazioni) si sono concentrati, in maggioranza sui social forum e sulle pagine cittadine dei quotidiani e, in parte, ma ti inviterei a non sottovalutare questa esplicita circoscrizione, nell'ambiente universitario più ortodosso, in particolare sulla scia delle dimissioni di due membri del comitato scientifico del museo (peraltro anacronisticamente composto solo da storici dell'arte) ma a queste reazioni critiche se ne possono accostare moltissime di taglio completamente diverso, provenienti dallo stesso ambito universitario, sia da parte di docenti che di studenti, ma anche di numerosi 'addetti ai lavori': critici, curatori, artisti...(3) Inoltre anche le critiche dei detrattori, nella gran parte dei casi, non sono rivolte alla 'operazione' in sé, ma vertono piuttosto sulla durata dell'esposizione o sull'opportunità che essa sia promossa da un'istituzione statale come La Galleria Nazionale. (4) Invece di generalizzare sarebbe, dunque, opportuno tentare di analizzarle... terrei infatti a precisare che le pur legittime prese di distanza appaiono tendenziose (o basate su un equivoco), mirano infatti ad accreditare la mostra (che si protrarrà al fino al 15 aprile 2018) come l'allestimento definitivo della collezione e non come una sua interpretazione o rilettura. La temporaneità di Time... risulta invece esplicitamente dalle date riportate nel comunicato ufficiale della Galleria ed è stata ripetutamente ribadita dalla direttrice, in diverse occasioni ed -è bene sottolinearlo per evitare fraintendimenti- non da una posizione 'difensiva' ma in base ad una concezione del museo come istituzione in movimento che, fatta salva la presenza inamovibile di alcuni capolavori, ritiene necessario sottoporre la propria collezione ad una costante re-interpretazione e rilettura. Re-interpretazione che passa anche dal parziale ricambio delle opere esposte e di quelle in deposito o dalla possibilità di porre, di volta in volta, l'accento su un settore o l'altro della collezione. Non vedo infatti alcun motivo di scandalo nel fatto che, in Time, il passato recente o il contemporaneo abbiano guadagnato maggior visibilità rispetto a una parte delle collezioni dell'ottocento, dopo che -per decine di anni- quest'ultimo ha goduto di un grande spazio. "Oggi -ha dichiarato Cristiana Collu- nessun allestimento può durare più di 10 anni perché lo sguardo sul mondo cambia velocemente..." ed ancora -ed esplicitamente- rispetto ai tempi di permanenza di Time... "Tra un anno e mezzo dovrò pormi un nuovo problema. Quando hai 2000 opere -in questo momento ne sono esposte solo 500- puoi permetterti di pensare più racconti"(C. Collu). (5) Pensare di realizzare più racconti da una stessa collezione è l'esatto opposto che pensare alla sua imbalsamazione in un allestimento definitivo. Se poi vogliamo entrare nel merito della polemica... quest'ultima verte essenzialmente sulla legittimità o l'opportunità di trasgredire l'ordinamento delle opere della Galleria, tradizionalmente basato su un criterio cronologico. Un ordinamento sancito dalla divulgazione scolastica, e assunto acriticamente come 'naturale' e, soprattutto, come l'unico adeguato a promuovere una formazione. Una posizione questa che ovviamente riposa su un'idea di museo che in più di una occasione Cristiana Collu ha esplicitamente criticato, sostenendo che una istitituzione museale non può limitarsi a svolgere il ruolo di un sussidiario di storia dell'arte.(6) Una posizione che mi pare altrettanto legittima e anzi -a mio modo di vedere- molto più produttiva ed 'educativa' di quella propugnata dai detrattori. "Un'opera -scriveva del resto Hans Belting, in un testo dirimente, sin dal titolo, rispetto a queste questioni (7) - è legata non solo al suo pubblico originario e all'arte precedente, bensì anche agli artisti ed alle opere future. Ogni nuova opera viene confermata o corretta sullo sfondo di un 'orizzonte di aspettative'. In questo modo, produzione e recezione insieme attuano la trasformazione storica dell'arte" e ancora "L'interprete contemporaneo è guidato non solo dagli interpreti precedenti ma anche dalla sua personale esperienza. In questo modo l'indagine si arricchisce costantemente di nuovi indirizzi". Ad essere in questione è, in fondo, il problema della trasmissione culturale e, più in generale, dell'eredità, esemplarmente tematizzato da Jacques Derrida, in un testo che ho ricordato anche nel catalogo di The Lasting: “Sono arrivato a pensare” precisa il filosofo “che… l’erede debba sempre rispondere a una sorta di doppia ingiunzione, a un compito contraddittorio: occorre anzitutto sapere e saper riaffermare ciò che viene prima di noi -e che dunque ci troviamo a ricevere prima di poterlo scegliere- ma anche riuscire a comportarci nei confronti di ciò in modo non condizionato”. Per Derrida, infatti, non si tratta semplicemente di ricevere o salvaguardare un’eredità, ma di darle un nuovo impulso, di riaffermarla ma, appunto, da una posizione non condizionata. “Questo processo di riaffermazione che è al tempo stesso una prosecuzione e una interruzione, è riconducibile, comunque, a una scelta, a una selezione, a una decisione… Si dovrebbe allora partire da questa contraddizione formale e apparente che si instaura fra la passività della ricezione e la decisione di dire sì e operare una selezione, filtrare, interpretare per poi trasformare – senza lasciare che le cose restino intatte, come se nulla fosse accaduto, non lasciando insomma salvo ciò stesso che si sostiene di rispettare innanzi tutto… E ciò proprio per poter rispondere all’appello” che ci ha preceduti. “Si è responsabili di fronte a ciò che viene prima… ma anche nei confronti di ciò che deve ancora avvenire… l’erede è doppiamente in debito.”(8)

Galleria Nazionale Time is out of joint. Roma La Galleria Nazionale. Foto Fernado Guerra.

A - Le voci critiche ritengono che Time sia basata su ingiustificati accostamenti ad 'effetto', orientati a suscitare preventivamente scandalo con l'intento esplicito di aumentare l'afflusso di visitatori... Non pensi che un ordinamento museale totalmente svincolato da una dimensione storico-cronologica, come quello attuale -che qualcuno ritiene più adatto ad una Biennale che non a un Museo- possa mettere a rischio il ruolo istituzionale della Galleria Nazionale?

SC - E' la critica che ha trovato maggior eco sulla stampa perché mossa da alcuni (e sottolineo il termine) docenti della disciplina, mi vedo dunque costretto, a segnalare, ancora una volta, ulteriori esempi di voci contrastanti. (9) Si tratta comunque di una critica superficiale che non tiene conto dei criteri dell'esposizione. Appare infatti decisamente paradossale che paladini della contestualizzazione dell'opera fondino le loro critiche ad un allestimento complesso come quello di Time sulla base dell'indebito prelievo di singole opere da una sala, in cui sono immesse all'interno di una costellazione di relazioni, per giudicare poi il loro accostamento insensato o diseducativo, come nel caso del salone che riunisce opere di Canova, Penone, Pascali, Mondrian, Castellani, Klein e Twombly. Una critica che elude, palesemente, la dimensione più propria di una mostra, giocata -come rilevano recensioni più attente- proprio sull'idea di relazione plurale fra le singole opere. (10) Se sulla carta appare ancora possibile isolare artificialmente singole opere dal contesto in cui sono immesse, per ridurre stumentalmente Penone a semplice quinta di Canova o Pascali a mero 'specchio' dell'Ercole, in galleria l'operazione risulta totalmente ingiustificata. In situ si instaura infatti una sorta di miracoloso equilibrio fra tutte le opere e la presunta impossibilità di contemplare il lavoro di Penone nella sua integrità, si scioglie come neve al sole quando, invece di criticare l'operazione sulla base delle foto riportate sui giornali, ci aggiriano nello spazio, lì intuiamo subito che la visione ravvicinata favorisce l'instaurarsi di quella dimensione immersiva e tattile reclamata dal grande formato dell'opera, una prossimità che permette, inoltre, una adeguata visione anche del retro della splendida scultura di Canova... La contemplazione dello spettatore non può infatti essere assimilata al punto di vista unico e immobile di un occhio fotografico. Qualcosa di simile vale per il 'mare' di Pascali ridotto a mera superficie riflettente della scultura di Canova (e perché non delle opere di Mondrian, Twombly, Klein o Castellani) come se la possibilità del riflesso fosse un elemento estraneo all'opera e non invece inscindibilmente connesso alla sua stessa concezione. Si paventano infine incomprensibili riserve anche per l'accostamento tra Mondrian e Castellani (due rigorosi e complessi esempi di una ricerca tesa a condurre la pittura verso i propri limiti). Per quel che mi riguarda ritengo che la sala in questione presenti alcuni degli accostamenti più sorprendenti riusciti ed 'educativi' dell'intera mostra... non posso dunque far altro che stigmatizzare la parzialità di uno sguardo che evita, tendenziosamente, di cogliere i rapporti delle opere in sala nella loro integrità: chi critica evita accuratamente -come ha ricordato Cristiana Collu- di tener conto del fatto che mentre Pascali fa da specchio e in qualche modo duplica e 'depotenzia' la monumentalità dell'Ercole di Canova dialoga con le griglie di Mondrian e cromaticamente con il blù di Klein e, infine, del fatto che l'allestimento in questione favorisce l'instaurarsi di un inedito rapporto-a-distanza tra la classicità di Canova e quella 'decostruita' di Twombly.(11) Un ulteriore esempio di quest'attitudine critica è offerto dalla contestazione del presunto accostamento Fontana-De Maria (su pareti contigue) ma, mi sento di ribadire che il problema, deriva -anche in questo caso- dalla volontà di rapportare Fontana e De Maria ignorando De Chirico e Martini: siamo, infatti, di fronte ad una sala in cui la metafisica di De Chirico pare concretizzarsi nella scultura di Martini, che a sua volta sembra materializzare i monumenti presenti nelle opere pittoriche... Nella sala, vista nel suo complesso, l'idea metafisica si allarga sconfinando in quella di incantamento e attesa che sprigiona sia pur tramite una visione più quotidiana e quasi domestica nei quadri di piccole dimensioni di Mario De Maria (Luna sulle tavole di un'osteria,1884) e di Adriano Cecioni (Il gioco interrotto, 1867/8) e, in maniera decisamente più mentale, nel Concetto Spaziale. Attese, 1959 di Lucio Fontana e nell'opera di Antonio Calderara. A chiunque non sia animato da pre-giudizi, appare evidente che il baricentro della sala, com'è immediatamente percepibile sin dall'ingresso, è giocato sul rapporto De Chirico-Martini e che la critica appare dunque pretestuosa poichè volta ad enfatizzare tendenziosamente il rapporto marginale -sicuramente improponibile fuori contesto- fra Fontana e De Maria, un rapporto scelto oculatamente anche per la evidente sproporzione fra i due artisti, e che sembra istituito pretestuosamente solo per provocare maggior scalpore di quanto ne avrebbe suscitato uno ad es. fra Fontana e De Chirico. Ci pare dunque che a giocare sull'effetto ingiustificato siano le critiche più che la mostra. Analoghe riserve sono registrate per una sala come quella in cui convivono Fontana Morandi Buren Agnetti Pollock Duchamp e Pistoletto. Ancora una volta impoverendo la rete di relazioni che si stabiliscono fra indubitabili maestri della contemporaneità e isolando strumentalmente, come di consueto, i nomi a coppie: Pollock-Agnetti e Fontana-Morandi, si tende ad indebolire ed a far apparire pretestuosa la dimensione concettuale della sala facendo passare gli accostamenti fra le opere come motivati sulla base di una semplice assonanza cromatica. In realtà lungi dall'essere motivato da meri cromatismi il ripetuto avvicinamento tra Morandi e Fontana è tutto giocato sul filo del rigore e della coerenza che caratterizza le rispettive ricerche dei due artisti, così come, del resto, quelle di Duchamp, Pollock, Buren e Agnetti : si trattava di concludere la mostra realizzando una sala che accostasse opere distanti come punti cardinali ma relazionabili in base a differenti tipologie di rigore, opere in un certo senso tenute assieme anche dallo sguardo del visitatore che le trova riflesse in combinazioni sempre cangianti in un quadro specchiante di Pistoletto, la cui capacità riflettente, almeno in questa occasione, crediamo non possa essere giudicata come una strumentale riduzione della qualità dell'opera. Altre critiche come quelle che insinuano che la mostra, abbia, in varie occasioni, ignorato e/o sottostimato la quantità e qualità delle opere di un artista non scegliendo le più rappresentative (non si capisce davvero con quale scopo), come -in questa occasione- nel caso di Pollock di cui si dice esplicitamente "manca il più interessante", asserzione tutta da dimostrare e oltremodo discutibile dal momento che in collezione esistono solo 3 opere dell'artista e che quella proposta, uno dei primi dripping (1947), risulta sicuramente la più nota e riconoscibile. Oltre ad essa infatti esistono solo altri due lavori di modeste dimensioni: un quadro di impianto picassiano del 1937-8, che verrebbe da definire un Pollock prima di Pollock e infine un dripping su carta assimilabile ad una sorta di studio, difficile dunque scegliere diversamente... qualcosa di analogo ed altrettanto inspiegabile può dirsi per quel che riguarda Osvaldo Licini di cui si lamenta la sottoesposizione quando dell'artista sono esposte entrambe le tele presenti in collezione. Informazioni difficilmente contestabili da chi non conosca i depositi della galleria e che quindi non può far altro che credere a simili asserzioni.

Galleria Nazionale Time is out of joint. Roma La Galleria Nazionale. Foto Fernado Guerra.

A - Non pensi che le critiche all'esposizione abbiano a che fare con una immagine precostituita ed eccessivamente semplificata del postmoderno che, dunque, interpretino la mostra come una 'estetizzazione' degli ideali moderni, un'operazione che muova da un'idea di cultura più vicina all' intrattenimento che all' impegno?

SC - In verità mi pare che le critiche non entrino nel merito della complessità della mostra e che le reazioni negative siano dovute a una forma di in-comprensione che si traveste da sufficiente sur-comprensione e, in alcuni casi, tende a trascinare pretestuosamente la discussione verso un dibattito politico legato alla riforma del ministero (totalmente estraneo alla genesi dell'operazione) o a resuscitare un dibattito tra moderno e postmoderno che travalica decisamente la portata dell'evento. Un dibattito inoltre che -anche volendo ammettere un trasferimento in questo versante per così dire più teorico e filosofico- sembra muoversi sulla superficie della questione ancorando i concetti di modernità e postmodernità a una dimensione statica che non rende giustizia né all'uno né all'altro. Il cosiddetto 'postmoderno', se questa etichetta ha un senso, più che uno stadio successivo alla 'modernità' indica un diverso modo di rapportarsi al moderno che non è né quello dell'opposizione né quello del semplice superamento. Per concludere direi che così come non esiste una sola storia dell'arte ma più storie dell'arte o modi diversi di narrare il corso artistico, allo stesso modo esistono varie possibilità di intendere e interpretare questi concetti. Viviamo, comunque, sicuramente in un'epoca in cui il tema della ricostruzione di una continuità (storica o ideale) è divenuto problematico e tende a svolgersi secondo coordinate plurime.

Galleria Nazionale Time is out of joint. Roma La Galleria Nazionale. Foto Fernado Guerra.


Note
1) Cristiana Collu in: The Lasting. L'intervallo e la durata, a cura di S. Cincinelli, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, Roma, 2016. p. 7.
2) Cfr. http://www.artribune.com/arti-visive/arte-moderna/2017/01/
3) Mi limito qui a citarne alcune: "Al contrario di quanto si possa pensare a prima vista, forse questo allestimento è il più formativo che si potesse pensare oggi. È un percorso al passo con i tempi. Risponde al modo in cui oggi procede la formazione dei giovani e l’aggiornamento degli adulti" (C. D'orazio http://www.artribune.com/2016/10/galleria-nazionale) " Hanno disubbidito all’idea canonica di allestire in maniera accademica e didattica per farci entrare in un mondo dove la matematica è stata sostituita dall’insiemistica, dove la collezione permanente si è trasformata in una mostra ... che porta a Roma la brezza di un presente complesso e inquieto"(L. Pratesi http://www.artribune.com/2016/10/" "Sono andata a vedere il nuovo allestimento e l'ho trovato molto bello.... Le relazioni sono moderne e intelligenti... Non c'è nulla di scontato. Inoltre si è ridata vita ad opere come quelle di Pascali... che prima di questo nuovo allestimento erano state chiuse dentro una sala con una corda oltre cui non si poteva passare... Sembravano... scarti di magazzino (Federica http://www.finestresullarte.info la rivoluzione estetica di Cristiana Collu dovrebbe apparire non come un confuso e antistorico mescolamento dell’arte di ieri e di oggi, ma andrebbe sentita viceversa come un momento di ordine e di riflessione, sia per la critica, ma anche per il pubblico amante dell’arte, come il filo rosso che scorre costantemente nella “stratificazione” temporale che accomuna quasi sempre ogni autentica opera d’arte."(M.Ursino "http://news-art.it/news/ "Cristiana Collu compie un’operazione assai diversa dall’eliminare le didascalie e la parte storiografica dell’esperienza museale. La sua curatela rende tutto questo semplicemente inutile... L’esperienza che ci propone non è un impoverimento del contesto museale, ma una sua evoluzione, una sublimazione, in cui il concetto di “scrittura” esce rafforzato. È una misurata e consapevolissima scrittura visiva quella che rende l’attraversamento della Galleria una pura esperienza estetica che abbatte la necessità di mediazione tra visitatore e opera, compiendo il piccolo miracolo che è la pietra filosofale non solo del curatore, ma dell’ artista stesso, talvolta. Nell’equilibrio perfettamente bilanciato di assonanze contestuali e alchemiche che tengono in piedi il delicatissimo castello di carte di questo allestimento, ogni opera arriva agli occhi del visitatore allo stato di immediata solubilità. Non c’è più bisogno di parole, di inquadrare l’opera nel suo contesto storico o artistico, essa si mostra per quel che è, nella sua intima realtà, in una dimensione trans-temporale che è l’unica dimensione possibile per le opere d’arte... Il museo muto della Collu, dunque, non è un museo senza didascalie, è un museo che non ha bisogno di didascalie, è un museo senza cornici,un museo che sfonda il casellario storiografico per istituire un dialogo più profondo tra le opere e gli artisti e conseguentemente tra le opere e il pubblico, dando corpo a una narrazione altamente popolare. L’attraversamento, del museo è una esperienza di leggerezza, che per la prima volta mi fa uscire da una imponente collezione – pari a quelle dei principali musei del mondo – non con un sovraccarico di immagini e una pur benedetta spossatezza, ma con una freschezza e una energia ancora attive... (G.M.Tosatti "http://www.artribune.com/"
4) E’ perfettamente accettabile, in altri termini, come mostra temporanea che si interroghi positivamente sulla funzione propositiva del Museo, proponendo assonanze inedite tali da costituire una riflessione costruttiva sul futuro, definitivo allestimento della Galleria e rilanciare la curiosità nel pubblico. Ma dovrebbe durare tre o sei mesi, non un anno e mezzo (Benzi http://roma.repubblica.it
5) Dichiarazione di C.Collu, In: Dario Pappalardo Musei reloaded, La Repubblica, 13 ott. 2016, consultabile in http://spogli.blogspot.it
6) Cfr. http://www.finestresullarte.info
7) Hans Belting , Fine della storia dell'arte o la libertà dell'arte, Einaudi, To, 1990, p.27
8) Jacques Derrida, "Scegliere la propria eredità", in J..Derrida ed E. Rudinesco, Quale domani? Bollati e Boringhieri, To, pp.11-37.
9) Le pur sicuramente autorevoli posizioni dei detrattori non rappresentano, infatti, la totalità delle opinioni della categoria: "Ci siamo abituati, da decenni, a Mostre per le quali la filologia è criterio irrinunciabile. Contesti accuratamente individuati, ricerche di archivio, cronologie rispettate allo scopo di restituire l’immagine storicamente documentata di un autore, un movimento, un evento... Ora cambia tutto. La Mostra “The lasting”, che adotta il motto Time is out of joint ... usa tutto un altro metodo: espone il fascino del tempo sfasato, intrecciando opere che nel taglio del pane dello spazio-tempo ‒per dirla con Brian Green‒ adopera una direzione diagonale, così da mettere in connessione, tornando anche un po’ indietro, l’ultimo Ottocento con il primo Duemila. Se possiamo affermare che tutto ciò che sopravvive nella città contemporanea è contemporaneo, che quindi è percepibile ed esteticamente apprezzabile da chi vive oggi qui, che anche l’archeologia può e deve colloquiare con la città contemporanea, dobbiamo apprezzare questo nuovo metodo. Si tratta di una ginnastica mentale che collima con la controstoria proposta da Bruno Zevi, dove ciò che resiste al consumo del tempo è poco, pochissimo rispetto a quanto prodotto, ma di eccezionale valore e capace di creare strepitosi corti circuiti tra opere di ieri e di oggi, conferendo loro nuovi significati.(A. Muntoni http://presstletter.com "Questo spazio che rappresenta, tra l’altro, il perno di Roma e il fiore all’occhiello dell’arte italiana (...) è oggi, secondo alcuni pareri, messo a dura prova da una scossa innovatrice, da un terremoto estetico che lo vuole più vicino all’aggressività di impianti museali i quali all’esclusività della conservazione prediligono la linea vivace e irrequieta dell’esposizione. Che prima dell’arrivo della nuova direttrice... l’abito di questa «nostra signora dell’arte» fosse un po’ liso e che il suo volto mostrasse tristezza lo si sapeva, come scontato è il ruolo che alla Galleria aveva finito per appiccicarsi: quello di «ripostiglio», se non proprio di «tomba di famiglia». Per cui, diciamocelo, non pare strano lo svecchiamento (...), né stupisce il desiderio di spostare l’asse da un’angolazione conservativo-cronologica e da una cultura dell’accumulo a un sentiero mobile dove non ci sono confinati ma confinanti – Jeremy Rifkin ha detto per tempo che il possesso ha lasciato il posto all’accesso – e dove il sincronismo, il cortocircuito o lo scardinamento programmato mostrano una modalità preziosamente contemporanea (non dimentichiamo che il titolo della nuova impaginazione è Times is out of joint) che salta il fosso della collezione «accomodata» sulle pareti per aprire una breccia verso il futuro. Ovviamente per scrivere il futuro di un luogo bisogna osare: e guardando attentamente le nuove sale della Galleria si vede che Cristiana Collu ha osato eccome: ha sperimentato, ha tolto il gesso – forse bisognava davvero farlo – ... [per] … dialogare con le altre istituzioni internazionali, servendosi dei canali della comunicazione d’oggi”(M.Tolve https://www.alfabeta2.it . “Anche in questo caso, e in modo ancora più pervasivo che in The Lasting, la mano da giocare passa subito al visitatore, che negli spazi completamente bianchi della Galleria incontra opere accostate non per vicinanza storica, ma per analogie, collegamenti, rimandi, affinità, buon (o problematico) vicinato. Un imponente ipertesto navigabile in grandezza naturale che, in ogni sala, invita a decifrare i nessi fra le opere che lo compongono. La linea diritta della storia che scorre da un prima a un dopo è messa da parte e il suo posto è preso dall’idea della compresenza e dell’intreccio....(A.Sbrilli http://www.diconodioggi.it )
10) "Relazione diventa quindi la parola chiave per entrare in queste sale ampie e luminose, nelle quali ogni opera dialoga con le altre all’interno dello spazio privilegiato della visione, dove il tempo rassicurante della storia passata viene sostituito da un orizzonte aperto, dove i riferimenti provengono dalle relazioni delle opere tra loro" (L. Pratesi http://www.artribune.com ). "Ogni sala si presenta a sua volta come una mostra a tema, un’arena di collegamenti, un invito a decifrare gli indizi che collegano due o più epoche distanti, richiamate nell’attualità dello stesso luogo e del visitatore che vi si trova in quel momento. Ogni opera una porta d’uscita e d’ingresso nel tempo di chi la guarda e la ricolloca; ogni gruppo di opere un nodo di reti orizzontali e diacroniche"(A.Sbrilli http://www.diconodioggi.it ). "La sobrietà degli spazi bianchi del museo produce finanche momenti di puro capolavoro, come la sala di Sartorio, in cui di fronte allo studio per la Gorgone, si specchiano le immagini della Poupée di Bellmer, e ancora nell’accostamento di Antonio Calderara – che finalmente rimette piede con piena dignità in un grande museo nazionale – e de Chirico, puntando l’attenzione sull’uso straordinario del colore associato al paesaggio da parte di quest’ultimo. È un accostamento coltissimo che rivela la qualità della tramatura invisibile di questo splendente atto di coraggio che è una lezione di museografia di livello internazionale, giacché – bisognerà pur ammetterlo – la mastodontica proiezione di Cristina Lucas nella sala delle battaglie eleva forse per la prima volta il video a quella dimensione artistica classica che in alcuni casi può e deve assumere se non si vuole che le nuove tecnologie nell’arte non siano sempre tenute in piedi dall’ipocrita stampella delle categorie. E allo stesso modo funziona maledettamente l’accostamento delle vedute ottocentesche dei ruderi della nostra civiltà con la Minerva Medica di Basilico di fronte all’angolo in cui un tempio di de Chirico dialoga coi Ruderi sul prato di Pino Pascali, che hanno in quinta un Burri in equilibrio tra apollineo e dionisiaco”.(G.M.Tosatti http://www.artribune.com )


 

Saretto Cincinelli
The Lasting :  Time is Out of Joint -
Site : Galleria Nazionale
@ 2017 Artext

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