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Ripensare il medium:
il fantasma del disegno
Saretto Cincinelli - Cristiana Collu


 
William Kentridge William Kentridge Other Faces, 2011 Courtesy Lia Rumma


Il disegno non è la forma, è il modo di vedere la forma.
Paul Valéry

Il disegno rende visibile la visione stessa.
Maurice Merleau-Ponty


Ripensare il medium: il fantasma del disegno, non si propone come una tradizionale mostra sul disegno ma su ciò che potremmo definire il suo fantasma. L’esposizione concentra infatti la riflessione su un’idea di disegno in ‘campo allargato’, ‘espanso’, (1) e prende le mosse da alcune opere emblematiche -giocate esemplarmente su una sorta di in-stallazione (messa in scena e in stallo) del segno.

Re/trato, di Oscar Muñoz, è un video in cui una camera statica inquadra in primo piano una mano che tenta di tracciare i connotati di un volto, ma il medium utilizzato (l’acqua) e il supporto (un blocco di cemento in pieno sole) impediscono che il compito sia condotto a termine a causa della continua evaporazione della figura. Qualcosa di non molto dissimile è al centro anche di Recording the Light di Sophie Whettnall in cui la stessa artista tenta inutilmente di circoscrivere, tramite del nastro adesivo, l’ombra portata della finestra del proprio studio, ma non appena l’azione giunge al termine, l’ombra si è già spostata, inducendola a reiterare il proprio gesto, sino a che il pavimento e le pareti dello studio finiscono per essere saturate da una debordante griglia grafica di nastro adesivo. Ancora più spostate sul terreno della performance si collocano le opere video di Robin Rhode, artista che ha condotto un lungo e coerente lavoro di amplificazione dello spazio concettuale e fisico del disegno, aprendo il medium a una continua tensione che porta dalla fotografia al video, dalla bidimensionalità alla tridimensionalità, dalla fissità al moto. Maggiormente riconducibili ad un’idea di disegno, sia pur incentrata su una dialettica tra presenza e assenza, appaiono le opere di William Kentridge, in particolare quelle come Other faces, basate sui Drawing for Projection dell’artista che, realizzati tramite cancellazioni e modificazioni successive, una volta trasferiti in pellicola, danno vita ad un’animazione ‘aperta’ che invece di occultare il proprio processo produttivo lo incorpora, restituendo -sotto forma di tracce e stratificazioni- tutte le fasi di cancellazione e variazione del disegno necessarie alla realizzazione del film.

Il titolo della mostra vuole evidenziare sia la sua valenza propositiva sia il rinvio al “disegno” o al suo “fantasma” che, sottotraccia, funge da rimando comune a esperienze diverse e, apparentemente, lontane (come Senza titolo di Anselmo, Clauding Box di Plensa, Wood drawing di Deval...). L’opzione di avvicinare differenti media (video, fotografia, scultura, ricamo, disegno sonoro, installazione...) sotto una concezione ‘allargata’ di disegno, rimanda all’idea di skiagraphia o photographia (scrittura d’ombra o di luce) che Plinio pone all’origine mitica del disegno e della pittura, un’origine cui non risulta affatto estranea la stessa scultura. Nella sua Naturalis Historia lo scrittore latino attribuisce ad un vasaio di Corinto la prima creazione di ritratti fittili. Secondo la leggenda fu, infatti, un vasaio che, per primo, scoprì l’arte di modellare i ritratti in argilla; egli -ci ricorda Plinio- dovette la sua invenzione a sua figlia Boutade che, innamorata di un giovane in procinto di partire, per conservare il volto dell’amato, tratteggiò su una parete il contorno della sua ombra portata dalla luce di una lanterna. Il padre vi appose poi l’argilla, riproducendone il volto, e “fattolo seccare con altri oggetti in terracotta, lo mise in forno”. (2)

Franco Menicagli Franco Menicagli Highlight, 2006


Il disegno, dunque, almeno nella sua origine mitica, nasce da un’immagine sostitutiva e compensatoria. Non bisogna infatti dimenticare che Butade non ritrae ‘dal vero’ il suo modello, ma ne fissa i contorni dell’ombra: una presenza indebolita e fantasmatica, una quasi-assenza... È infatti da questo mito fondatore che prende le mosse anche Jacques Derrida quando in Memoires d’aveugle nota l’impossibilità per il disegnatore di mantenere fisso lo sguardo (l’attenzione) sul modello e contemporaneamente sul tratto che stà tracciando. (3) Già nel suo racconto di fondazione, il disegno rimanda dunque ad una presenza indiretta e desostanzializzata, insatura che proprio perciò, entra immediatamente in relazione con il suo stesso supporto. “Un disegno che coprisse completamente il suo fondo” ricorda Benjamin “cesserebbe di essere tale”. (4) Non la presenza piena del veduto ma il suo fantasma, l’assenza, la sottrazione, sembrano porsi a fondamento del medium. O meglio -come sottolinea Massimo Carboni- “sta a fondamento del disegno la cosa, il reale mentre si sottrae, l’essere mentre dilegua”.

L’esposizione si concentra su un disegno che evapora, si afferma per cancellazione, ritardo, modulazione, o indugia su immagini originarie come le ombre, i riflessi, le tracce e le impronte, modalità indicali o indiziarie con cui la natura, si auto-(rap)presenta attraverso una sorta di disegno automatico, che si inscrive nello spazio

È proprio a partire da opere che pongono al loro centro la progressiva materializzazione o smaterializzazione di immagini paradigmatiche come l’ombra o il riflesso che la mostra si propone di ri-pensare il medium tramite un movimento d’apertura teso a condurlo oltre i propri limiti o anche a risolverlodissolverlo, in una sorta di disegno invisibile interno alla concezione dell’opera (come nella ‘scultura’ Colonna di Alighiero Boetti o nel ‘disegno’ sonoro Release di Emanuele Becheri). Orientamenti diversi ma non necessarimente contraddittori: il venire avanti del supporto, o l’esplicita materializzazione del segno o, infine, il suo ritrarsi verso il bianco (la cancellazione, un ritmo sonoro, un graffio, una semplice piega) risultano opposti solo in apparenza; nelle opere in mostra, infatti, il supporto non è interrogato per la sua ricchezza di materiale ma in quanto tale, allo stesso modo che il tratto. Entrambi sono posti in questione, all’interno di una ricerca che tende a ri-pensare il disegno seguendo l’ipotesi che il supporto, non sia dato prima ma sorga in uno insieme al (di)segno che lo genera (i Rilasci di Becheri, i Senza titolo della serie Trame o Verso di Guaita...) o di ri-pensare il tratto ipotizzando che esso postuli nello stesso tempo che il suo tracciato anche il suo ritrarsi, la sua cancellazione (Muñoz o Kentridge, Menicagli...). Nelle opere proposte, il segno -figurativo o meno- non si propone tanto di imitare (ciò che fa avvenire -sottolinea Derrida- non può essere in sé mimetico) quanto di introdurre un certo squilibrio nell’indifferenza di un foglio bianco o di una spazialità preliminare.

Andrea Santarlasci Andrea Santarlasci Isolamento, 1993


Rendere visibile è una caratteristica precipua del disegno (tradizionalmente considerato come la via più breve per fermare o comunicare visivamente un’idea) ma, paradossalmente, è proprio questa dimensione vicaria e preparatoria del progetto a risultare fortemente ridimensionata nell’esposizione: qui il disegno, quando c’è, non sta al posto di nient’altro che di se stesso, i lavori proposti evocano, infatti, più il gesto tracciante che la figura tracciata e mantengono volontariamente una dimensione di non-chiusura, di in-finitezza di non-totalizzazione della forma. In un modo o nell’altro in gran parte delle opere, il ‘disegno’, quando c’è, mantiene un valore dinamico e incoativo. Ed è proprio quest’ultima dimensione a costituire sottotraccia il fondamento dell’esposizione.

L’ombra e il riflesso sono due forme di rappresentazione naturale dense di contenuti simbolici che si manifestano dove non giungono i raggi del sole o, all’opposto, dove avviene la loro quasi totale riflessione. Entrambe si distinguono dalle tracce e dalle impronte, immagini cieche e tattili che non hanno bisogno della luce per realizzarsi. Mentre le prime necessitano, per prodursi, di una distanza tra l’oggetto che le proietta e la superficie sulla quale si inscrivono, le seconde richiedono, all’opposto, l’azzeramento di ogni distanza. Se l’ombra sintetizza la silhouette di un’assenza o di un’apparizione in via di perenne definizione, l’impronta stabilizza una presenza in un dato luogo. (5)

Attorno ai paradigmi indicali della traccia e dell’impronta ruotano La corsa di Massino Barzagli e Vetri di Chiara Bettazzi, che esaltano, da diversi punti di vista, ciò che Georges Didi-Huberman ha chiamato la ‘somiglianza per contatto’ e anche, sia pur in un versante meno legato alla figura, quelle di Emanuele Becheri, Carlo Guaita, Giulia Cenci, Paolo Meoni, Franco Menicagli, che finiscono per registrare più che le modalità di apparizione della figura quelle del suo fading o della sua scomparsa, un orientamento riscontrabile anche nelle opere storiche di Ketty La Rocca, sebbene maggiormente legate alla dimensione delle immagini delle comunicazioni di massa.

Una inusuale fusione dei paradigmi dell’impronta e dell’ombra, informa Zap Shadow di Marius Engh, sorta di paradossale immagine-soglia: fotografia dell’ombra ‘fotografata’ dall’immenso calore sprigionato dall’esplosione nucleare di Nagasaki. Un’ ombra bruciata, reificata, trasformata in impronta, la cui immobilità, non è il risultato di uno scatto ma la ripresa di una traccia reale, una ‘stampa’ realizzata dalla luce accecante della bomba che, come un flash di straordinaria intensità distruttiva, ha ‘fotografato’ il suo passaggio tramite immagini acheiropoietiche (6) , mostrandoci la potenza enigmatica e tragica di una fotografia ‘definitiva’ che cancella il suo soggetto nel secondo stesso in cui lo inscrive sulla pelle del mondo.(7)

Daniela De Lorenzo Daniela De Lorenzo Contrattempi, 2014


Niente sembra più diretto del lavoro di Massimo Barzagli ma se osserviamo più da presso la genesi della sua opera ci rendiamo conto che essa riposa, invece, su un’insanabile differita: Il qui e ora dell’impronta, richiama, infatti, come un’eco, il là e allora del suo prodursi, ciò implica uno scarto, un ritardo, minimo eppure irredimibibile, tra il gesto pittorico e la sua inscrizione. L’innegabile immediatezza dell’opera, la sua flagranza, si rivela il risultato di un gesto duplice, il prodotto di un processo che, attraverso il suo stesso e-venire, pone in cortocircuito due fasi diverse ma necessariamente complementari di un’unica operazione. Barzagli non dipinge il supporto ma direttamente il modello e solo successivamente stende su quest’ultimo la tela, come un sudario, per strapparne la sindone, con un sapiente lavoro di contatto. Differendo il momento dell’inscrizione, egli trasforma così il modello in supporto originario: luogo di messa in riserva del gesto pittorico, svuotando il quadro da tutti quei cliché visivi che, secondo Deleuze, occupano la tela già prima di ogni inizio. Ciò che si dà nella forma apparentemente meccanica e senza stile dell’impronta è, in primo luogo, una non-presenza che erode, proprio mentre lo istituisce, il suo rapporto con l’originale. L’alta-bassa definizione della sindone ci restituisce la traccia di una figura che fa implodere ogni illusionismo referenziale tramite una pittura indiretta che si inscrive escrivendosi e si escrive inscrivendosi. Luogo dell’apparire di uno sdoppiamento originario, l’opera di Barzagli accoglie così la traccia del modello trasformandola in impronta della pittura e l’impronta della pittura trasformandola in traccia del modello. Preso in questa dialettica in stato d’arresto, lo sguardo dello spettatore vede, contemporaneamente, l’opera ed il suo farsi, può dunque, controeffettuando il risultato del quadro, risalire à rebours dal raffigurato all’evento della raffigurazione. Proprio per questo le immagini dell’artista più che dal mondo paiono venire al mondo dissolvendosi, come apparizioni che impediscono alla figura di richiudersi compiutamente in sé.  [...]

Ripensare-il-medium Marius Engh Zap Shadows, 2010. Courtesy galleria Gentili
Emanuele Becheri First Section, 2009, oggetti combusti di varia dimensione.



La volontà di restituire l’inaccessibilità di un interno (questa volta l’avant coup (9) di un’immagine) caratterizza anche le Polaroid di Paolo Meoni. Si tratta di una serie che, nonostante il titolo, non mira a catturare frammenti di realtà ma, paradossalmente, l’immagine fotografica nel suo stesso farsi. Indirizzandosi verso quella tecnologia ibrida, creata negli anni ‘70, denominata fotografia istantanea, l’artista interviene intempestivamente nel tempo stesso dello sviluppo dell’ immagine per mostrarci, après coup, ciò che potremmo definire il frattempo della sua genesi materiale. Con un colpo di forbici Meoni taglia i bordi della polaroid, separando ciò che era stato unito per favorire l’istantaneità del processo di sviluppo, e sfoglia l’immagine-risultato per portare alla luce un suo stadio precedente. Rovescia poi il recto delle due parti e impagina il loro verso in un’unica cornice. Espone così l’interno della foto, sdoppiata in sezioni, che rappresentano due stadi speculari del suo sviluppo. Il risultato è un dittico ‘astratto’ che disegnando l’immagine latente di una composizione di ombre, tracce e silhouette di varie cromie, si costituisce come una sorta di chora dell’immagine a venire, una matrice in cui “il movimento di mostrarsi-nascondersi delle cose” pare aver perso “ogni forza direttrice” (Maurice Blanchot). I dittici della serie, che si allontanano visivamente da ogni dimensione fotografica, sembrano, infatti, presupporre la possibilità di un rovesciamento del vedere che si trasforma in fascinazione.

In direzione di una restituzione del processo generativo dell’opera muove anche la ricerca di Emanuele Becheri a partire almeno dal ciclo dei cosiddetti disegni ciechi. Nei successivi Rilasci, la piega -precedentemente utilizzata come semplice modalità per ripartire l’opera in zone (percepibili tattilmente)- acquista un’evidente autonomia espressiva: qui, infatti, il forsennamento (10) della materia gioca un ruolo a tal punto centrale che appare impossibile ridurre il supporto a mero ricettacolo di segni. Una evidente conferma di questa centralità è offerta dall’esperimento acustico Release, in cui la registrazione della distensione delle contrazioni di un foglio di carta traslucida, precedentemente accartocciato -catturato e amplificato con l’ausilio di microfoni intestini- dà luogo a un crepitìo di colpi secchi e incostanti che pare prolungarsi ad infinitum. Il rilasciarsi del supporto assurge qui a modalità espressiva del tracciarsi di un disegno sonoro capace di liberare lo spessore temporale che le piegature dei coevi Rilasci mantenevano implicito. (11) Momento imprescindibile nell’euristica delle Carte piegate, la cecità tende a farsi metaforica nel ciclo Shining, definito dall’artista una “machine à dessiner”, in cui ad agire tracciature “cieche” non sono le sue mani ma alcune chiocciole, liberate su grandi carte nere da fondale fotografico. L’opera, dunque, si compie da sola; è, potremmo dire, la mappa dei multipli tracciati madreperlacei dall’andamento incerto che restano sulla carta a indicare après coup le varie fuoriuscite dal foglio (12). La messa tra parentesi del ruolo dell’artista, acquista nelle successive ‘combustioni’ una ancor più esplicita evidenza. Queste ultime che sarebbe più esatto definire carbonizzazioni implicano, nel loro ‘formalismo’, una totale fuoriuscita dall’orizzonte che fa da sfondo alle combustioni storiche di Burri e di Klein. Se il termine combustioni si adattava infatti alle prime prove dell’artista (13), si presta decisamente meno per le successive, in cui oggetti di ridotte dimensioni sono non direttamente incendiati ma per così dire messi a dimora sotto uno strato di cenere che li salvaguarda da un rovinoso contatto con la fiamma viva. Come il lapis, simbolico capostipite di questa genia, gli oggetti della serie sono sì combusti, ma dal calore. Più che la loro natura di resti-di-un-incendio, a contare in questo caso, è la loro impersonale transustanziazione, metamorfosi di una forma che si configura come un passaggio dallo stesso allo stesso: l’intrinseca fragilità e nigredo che finiscono per assumere mantiene infatti pressoché inalterata la loro forma (14). [...]

Sophie Whettnall Sophie Whettnall Recording the light, 2002 Courtesy Galleria Continua





* Il presente testo è tratto dal catalogo della mostra - Ripensare il medium: il fantasma del disegno - a cura di Saretto Cincinelli e Cristiana Collu. L'estratto si riferisce alle pp. 7-14 del testo. Si ringrazia gli autori e Casa Masaccio della disponibilità ai materiali.

 

Casa Masaccio Centro per l'Arte Contemporanea
Ripensare il medium: il fantasma del disegno
Artisti : Giovanni Anselmo, Massimo Bartolini, Massimo Barzagli, Emanuele Becheri, Luca Bertolo, Chiara Bettazzi, Alighiero Boetti, Chiara Camoni, Francesco Carone, David Casini, Giulia Cenci, Connie Dekker, Daniela De Lorenzo, Rolando Deval, Marius Engh, Emma Grosbois, Carlo Guaita, William Kentridge, Ketty La Rocca, Sol LeWitt, Paolo Meoni, Franco Menicagli, Oscar Muñoz, Jaume Plensa, Davide Rivalta, Robin Rhode, Andrea Santarlasci, Massimiliano Turco, Ignacio Uriarte, Sophie Whettnall
San Giovanni Valdarno 17.10.2015 - 15.11.2015
@ 2016 Artext

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