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arte come esperienza
Alessandro Gallicchio - Rebecca Digne

Rebecca Digne Rebecca Digne, Sel, 2016 Vidéo HD et Super 8 Courtesy Galleria Escougnou-Cetraro, Paris.


 

Artxext incontra Rebecca Digne e Alessandro Galicchio durante il workshop “Obiettivi su Nervi” TAI 2016 .

Artext - Quando hai cominciato ad occuparti di cinema, e con quali parametri e criteri selezioni il materiale che ti interessa: sguardi e gesti, la possibilità inespressa della materia..

Rebecca Digne - Ho cominciato lavorando nel circo. E' un'attività mobile con una prassi di allestimento dello spettacolo, di fare e disfare, e quindi attraverso l'intervento di una manualità importante determinata anche dal continuo spostamento - sono questi gli elementi e i temi che ricorrono in ogni mio lavoro. Dopo questa esperienza ho preso il diploma di montaggio al Conservatoire Libre du Cinéma Français a Parigi. Il film detiene nella mia visione una materialità specifica, irrituale e differente dalla sala di cinema. In seguito ho frequentato l'École Nationale Supérieure des Beaux Arts e sono passata a lavorare con il formato analogico continuando a sperimentare e cercando di combinare più metodi e competenze.

A. - In alcuni dei tuoi film (Rouge, 2014) prendi in considerazione "La materia filmica" associando in modo sinestetico le percezioni, per svelarne l'insistenza, il gesto come elemento del pensiero, il colore per la sua materialità, la luce indissociabile dal colore. Come costruisci la materia filmica che tu tratti?

RD - Ci sono molti aspetti importanti su questa questione. La prima cosa che vorrei dire è che il film è parte dell' esperienza non della comprensione. Si tratta del sentire e del creare, forse un nuovo territorio del sentire. Il suono e l’immagine sono spesso interscambiabili nel mio lavoro e cerco sempre di ricreare un ambiente totale - dal video, all'installazione. Cerco di mettere in discussione tutta l'architettura cinematografica e la sua narrazione integrando il film in una nuova dimensione espositiva, aperta e oggettuale forse.

Rebecca Digne Rebecca Digne, Sel, 2016 Vidéo HD et Super 8 Courtesy Galleria Escougnou-Cetraro, Paris.

A. - Hai mai pensato alla possibilità di una restituzione dal vivo, un ambiente immersivo, una situazione in movimento i cui protagonisti sono i partecipanti.

RD - Dopo aver lavorato nel circo ho scelto di non essere più nello spettacolare, nell'evento, nella seduzione del momento presente - questa procedimento non fa parte della mia estetica. Nel mio lavoro ho bisogno di pensare e questo pensiero poi si trasforma in un oggetto (il film).

A. - Esiste una tensione tecnologica del cinema volta alla sperimentazione (Bill Viola). Tu al contrario produci i tuoi film in Super 8 o 16 mm. ricreando ed esponendo con installazioni video un modello di dipendenza molto legato all’apparato cinematografico... (Rosa Barba )

RD - Vero è che non è la dinamica della nostalgia ciò che mi importa, piuttosto dimostrare a qual punto la nostra condizione umana sia fragile. Questo lo posso fare solo quando l'immagine non è perfetta. Questa è la ragione per cui, in alcuni progetti, non sono nell’alta definizione - perché devo riprendere e riportare la visione su un livello di fragilità.

Rebecca Dignee Rebecca Digne, Rouge, 2014 Film Super 8 e 16mm Courtesy of the artist and Dominique Fiat, Paris

A - Il cinema in un certo senso è un fantasma, molto ingombrante, è difficile liberarsene - invece di feticizzarlo, si celebra quel fantasma evocandolo. Tu piuttosto cerchi di riattivare questo spazio espanso, ambiguo tra illusione e realtà attraverso le relazioni interne dei personaggi e delle cose, sguardi, gesti.


RD - Normalmente lavoro sui gesti e questo per me vuol dire che il pensiero passa attraverso la mano. In un film (Rouge, 2014) ho eseguito un tracciato contrario, pensando che fosse la materia ad indurci al gesto e quindi mi sembra di aver suggerito una modalità diversa da quella a cui siamo abituati. Allora sono andata in una cristalleria e ho cercato il minio, che è la materia da cui si parte per ottenere il cristallo. Volevo lavorare con questo pigmento che percepivo anche come materia pittorica. Questo film agisce su più livelli temporali portando il gesto ad una dimensione primordiale, e cercando di fare riemergere la materia dai macchinari industriali. Il rosso poi è il colore della rivoluzione, di una storia dell'operaio e un mio tentativo di mettere ancora la mano e quindi il gesto su un primo livello, ponendo lo sguardo di fronte alla sua dimensione democratica.

A - Puoi raccontare di questa ultima produzione "Sel" realizzato sotto l’etichetta Elevator Production, "il cui contenuto, la forma e la preparazione disegnano un’economia del consumo, anzi dello scambio e del baratto".

RD - Questo film scaturisce da un invito del museo La Banque (Bethune) a lavorare sul testo “La part Maudite” di George Bataille. Questo testo, degli anni 50' è un'opera di economia politica e io mi sono soffermata su di un passaggio in cui Bataille parla di un'economia basata sullo scambio e questo scambio diventa centrale al punto da essere una possibilità per evitare conflitti. Esistono molti altri livelli in questo lavoro, ma ci tengo nuovamente a ribadire l'importanza della materia, della sua decostruzione e ricostruzione anche come strumento narrativo. In questi termini il sale (l'elemento principale del film) stava a simboleggiare proprio l'idea e l'essenza dello scambio. Il sale in fin dei conti è sempre stato utilizzato come moneta di scambio e in un certo senso anche come elemento dedito alla conservazione.

Francesco Carone Rebecca Digne, Sel, 2016 Vidéo HD et Super 8 Courtesy Galleria Escougnou-Cetraro, Paris.

A - Nella tua biografia si accenna ad una residenza d'artista al Pavillon Neuflize OBC del Palais de Tokyo, luogo questo, spesso associato alla direzione artistica di Nicolas Bourriaud. Hanno influito su di te, le sue teorie e l'esperienza di "estetica relazionale" ed in che modo riaggiorni queste tematiche nei tuoi lavori.

RD - Quando ho preso parte alla residenza il direttore era era Jean De Loisy. Sinceramente poi non credo che i curatori riescano in qualche modo ad influenzare gli artisti, forse avviene l'opposto.

A - Nel recente workshop "Faredisfare" prodotto da Tai, Tuscan Art Industry -associazione che si occupa prevalentemente di archeologia industriale a Prato, mi è sembrato che abbiate lavorato, tu insieme ad Alessandro non alla concezione di un’opera ma all’invenzione di un mondo, ad una drammaturgia di eventi.

Alessandro Galicchio - Il progetto Tai (1) è un progetto molto complesso in cui si lavora sull’archeologia industriale, sulle mappature e su tutta una serie di pratiche promosse da Chiara Bettazzi da più di un decennio. Per il workshop ci siamo inseriti all'interno di questa struttura, dialogando nella differenza. Assistendo all’atelier di lettura, credo si possa aver capito la direzione che stavamo prendendo, che si è poi materializzata in una tavola rotonda e in un video nei quali l'idea di romanticismo, di sublime, di deambulazione all'interno della cattedrale (la fabbrica abbandonata) veniva sostituita da un processo di lenta sottrazione. Sottrazione del soggettivo, per intraprendere la via del fare, perché con il fare si sorpassa tutto questo processo di sublimazione derivato dalla tradizione romantica europea occidentale. Abbiamo deciso di lavorare su qualcosa di quasi primitivo, e siamo così partiti dal gesto. La nostra posizione si rivela non tanto nell’analisi e nello spoglio erotico-pornografico dell’architettura e della rovina, ma prendendo una o più vie che cercano di trovare le tensioni radicali nell'architettura. Radicalità che si materializza naturalmente attraverso un lavoro di coordinamento del workshop condiviso in cui io, Rebecca, Chiara, ma anche tutti gli altri partecipanti, siamo partiti dall'ex Anonima Calamai, ossia la Pompei di oggi, per arrivare a un lavoro di sintesi formale e concettuale.

Rebecca Digne Atelier di lettura con Alessandro Gallicchio e Rebecca Digne Foto Claudia Gori.

A - Dunque "l'arte come esperienza" è il punto di partenza condiviso per la partecipazione a questo lavoro.

RD. - L'invito di Tai a fare questo workshop ha permesso ad un'artista ed un curatore di sviluppare un metodo condiviso. I partecipanti avevano l'opportunità di sviluppare e ampliare i concetti da cui io e Alessandro eravamo partiti attivando processi di creazione e trasformazione. In cinque giorni abbiamo fatto ricerca, vissuto la spazio industriale in abbandono e dato inizio alle varie sperimentazioni che poi si sono tradotte in un unico video. Il progetto ha preso forma in modo condiviso selezionando e decidendo insieme andando avanti senza la finalità di avere un prodotto finito e raffinato, ma cercando di costruire e sperimentare insieme ai partecipanti, che non arrivavano esclusivamente dal mondo dell'arte e non erano nemmeno tutti artisti. Non siamo entrati veramente nel merito di ogni singolo lavoro, ma abbiamo privilegiato la costruzione condivisa di tutto il video.

A - Ci sarà anche la restuzione pubblica del workshop?

AG - Si. In realtà abbiamo lavorato su una proiezione, sulla qualità dell’immagine e sul suo inserimento nello spazio. Lo spazio è il punto d’equilibrio dal quale sia Chiara Bettazzi con il TAI che io e Rebecca non ci siamo mai allontanati. Dal mio punto di vista, quello che mi è interessato di più fin dall'inizio è stata la creazione di uno spazio di elaborazione teorica carico di energia. In questo momento del workshop, durato più o meno tre giorni – nei quali nessun partecipante aveva ancora iniziato a pensare alla produzione – ci siamo dedicati interamente all’approfondimento, allo scambio e alla comprensione del nostro futuro fare. Questo intervallo di libertà e di ricerca disorganizzata vale tanto quanto l’opera finale; anzi, penso addirittura che senza questa introduzione improduttiva non avremmo potuto creare un video così fortemente legato all’Ex-Anonima Calamai. Dunque sì, c’è una restituzione pubblica, ma da interpretare come il culmine di una percorso iniziato una settimana prima.

Rebecca Digne Talk di restituzione del workshop Foto Claudia Gori.


Note
1) Tai - Tuscan Art Industry è un laboratorio contemporaneo che invita artisti, curatori, fotografi, musicisti e performer a lavorare in sinergia e ad elaborare un nuovo concetto di riconversione produttiva delle industrie all’interno dei siti di archeologia industriale dell’800 e del 900 in Toscana. La rassegna pone al suo centro la sperimentazione delle arti visive contemporanee, accogliendo idee, sensibilità e opere ibride, invitando artisti e curatori di generazioni diverse a lavorare in luoghi specifici. La manifestazione coinvolge spazi in stato di abbandono che si trovano sul territorio, edifici stratificati nel tempo, rovine e reliquie del nostro passato, che si rivelano contenitori ideali ad ospitare i luoghi individuali e privati di ogni artista.

 

Rebecca Digne
Arte come esperienza :  Alessandro Gallicchio - Rebecca Digne
Site : Rebecca Digne
Site : TAI - TUSCAN ART INDUSTRY
@ 2017 Artext

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