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Palazzo Strozzi
Reaching for the Stars
Da Maurizio Cattelan
a Lynette Yiadom-Boakye

 
Reaching for the StarsReaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio

Patrizia Sandretto Re Rebaudengo
In Dialogo con
Hans Ulrich Obrist


Hans Ulrich Obrist — Sono molto emozionato per questa conversazione: siamo qui insieme e vogliamo “prendere il sole a Torino” come Alighiero Boetti. È il trentesimo anniversario della tua collezione e anche quest’anno hai organizzato la grande cena durante Artissima, un appuntamento al quale non sono mai mancato. Tarkovskij diceva sempre che abbiamo bisogno di rituali e la tua cena è un rituale annuale. Vorrei cominciare con gli inizi-inizi e sapere come sei arrivata all’arte.
Credo che le epifanie siano sempre molto interessanti. La mia, per esempio, è arrivata quando sono entrato per la prima volta nella Kunsthaus di Zurigo. Avrò avuto undici o dodici anni: da subito sono stato ossessionato dalle figure long and thin di Alberto Giacometti. Sono state per me una sorta di portale.
Vorrei sapere qual è stato il tuo inizio.

Patrizia Sandretto Re Rebaudengo — Collezionare è parte della mia identità e della mia storia: mia mamma collezionava porcellane di Meissen e di Sèvres e, forse per imitarla, da ragazzina raccoglievo scatoline portapillole. Registravo su un quaderno l’ingresso di ogni nuovo pezzo, scoperto nei mercatini dell’antiquariato. Ero decisamente sistematica.
Poi, negli anni Ottanta, mi sono appassionata all’American costume jewelry e ho iniziato a collezionare bijou realizzati a partire dagli anni Venti del secolo scorso. Amo molto i miei gioielli fantasia e ogni giorno indosso un pezzo diverso che si abbina con il mio umore e la mia agenda. Dopo la laurea in Economia e commercio ho lavorato nell’azienda di famiglia.
L’arte contemporanea è entrata nella mia vita grazie a una cara amica, Rosangela Cochrane. È con lei che ho fatto il mio primo viaggio d’arte, a Londra nel 1992, l’anno di nascita della collezione.

HUO — È una collezionista?

PSRR — A Torino, negli anni Sessanta, Rosangela comprava Paolini, Manzoni, Twombly. È una donna che ha sempre avuto una visione illuminata. Siamo andate a Londra insieme e mi ha portato alla Lisson Gallery, da Nicholas Logsdail. Con Nicholas abbiamo visitato gli studi di alcuni dei suoi artisti. La mia prima studio visit è stata da Anish Kapoor.

HUO — La prima visita in studio è molto importante. Per me è stata da un artista svizzero e la seconda, subito dopo, da Peter Fischli e David Weiss. Era il 1987 e stavano lavorando al film The Way Things Go. Quando sono arrivato nello studio, c’era un oggetto che cadeva mettendone in movimento un altro. Una reazione a catena. Era così affascinante che penso abbia proprio cambiato la mia vita.

PSRR — Anche per me la prima studio visit è stata fondamentale. Mi ricordo tutto: il cielo grigio, la giornata piovosa di maggio, l’ora in auto per arrivare allo studio di Kapoor e finalmente l’ingresso in un luogo sorprendente, incredibile.
Nel loft immenso, mi apparve una moltitudine di opere disposte a terra: un’infilata di tante piccole sculture ricoperte di pigmenti blu, rossi, gialli. I colori primari davano alle loro forme un effetto vellutato e profondo.
È stata un’emozione indimenticabile. Le sculture facevano parte del ciclo 1000 Names e le ho ancora impresse negli occhi.
Poi Anish ha iniziato a raccontarle e mentre parlava sembrava quasi che levitasse. La sua energia era forte, palpabile.
In quel preciso momento ho deciso di diventare collezionista. Così è iniziata la mia settimana di incontri con gli artisti a Londra e la mia vita dedicata all’arte.

Reaching for the StarsReaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Cortile di Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


HUO — Hai incontrato anche Rachel Whiteread?

PSRR — Sì, l’ho conosciuta in quel periodo. Da subito ho apprezzato il suo lavoro e ho cominciato ad acquistare sue opere. La collezione inizia proprio con quella generazione di artiste e artisti. Alla fine di quella settimana londinese, alla Lisson Gallery ricordo che Nicholas Logsdail mi chiese: «Cosa ti è piaciuto? Cosa vuoi comprare?». Ebbi la sensazione di precipitare in un nightmare. «Cosa mi consigli?». Allora Nicholas mi rispose: «Hai una testa, usa la tua testa e compra quello che ti piace».
Le sue parole mi hanno fatto capire che una collezione ha bisogno di osservazione, di studio e di curiosità. Ho realizzato che servono sia testa che cuore. Quel giorno ho acquistato, fra le altre, due sculture di Kapoor, di cui una della serie 1000 Names, insieme a un’installazione di Tony Cragg e ad alcune opere di Julian Opie. I lavori di questi tre artisti e di altri quindici sono confluiti nel catalogo della prima mostra della collezione, presentata in uno spazio industriale di mio padre, vicino a Torino.
Si intitolava Arte inglese d’oggi ed è poi stata allestita alla Galleria Civica di Modena.

HUO — Che anno era?

PSRR — Era il 1995. Tre anni dopo Londra.

HUO — In una conversazione con Ida Gianelli hai spiegato che l’arte è stata un’avventura con la tua generazione. Anche per me. Quando si comincia, si entra in contatto con gli artisti più anziani ma a un certo punto arriva quello della nostra stessa età. Ricordo gli incontri con Rirkrit Tiravanija, uno dei primi che ho conosciuto della mia generazione. E tu?

PSRR — I primi artisti che ho conosciuto – a Londra, a Los Angeles, a Torino e nel mondo – erano quasi tutti trentenni, come me. Infatti la mia collezione è nata come collezione generazionale. Ho la sensazione che se non avessi conosciuto quegli artisti e quelle artiste probabilmente non avrei iniziato a collezionare. L’amicizia, il dialogo con loro nei loro studi, davanti alle opere, sono stati decisivi. Quella che stai guardando è la prima opera di Douglas Gordon entrata in collezione. Si intitola 24 inch Practice Tightrope with Niagara Falls ed è stata realizzata nel 1994. È un’opera ispirata al film hollywoodiano Niagara Falls, che Douglas ha trasformato nello scenario di un esercizio mentale, in un gioco di equilibrio tra realtà e immagine.

HUO — L’abbiamo incontrato più o meno nello stesso momento. Nel 1994-1995 ho realizzato con lui alcuni progetti al Musée d’art moderne de la Ville de Paris. E invece a quando risale il viaggio a Los Angeles?

PSRR — Al 1996, direi. Con Francesco Bonami.

HUO — Come vi siete incontrati?

PSRR — Era il 1995 ed era appena stata costituita la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Ho voluto crearla perché sentivo che l’Italia aveva bisogno di nuove istituzioni – in quegli anni gli unici due musei dedicati all’arte contemporanea erano il Castello di Rivoli e il Centro Pecci di Prato. Perché desideravo sostenere concretamente gli artisti.
Perché volevo condividere la mia collezione. Ho sempre pensato che le opere della collezione non fossero destinate a rimanere sulle pareti della mia casa né chiuse in un deposito. L’ho sempre immaginata aperta al pubblico.
Queste sono le ragioni che mi hanno spinta a dare vita alla Fondazione. Lo stesso anno Flaminio Gualdoni mi ha invitata a presentare alla Galleria Civica di Modena (di cui era direttore) le opere di artisti inglesi in collezione.
Era maggio e un mese dopo era prevista l’apertura della Biennale di Venezia. All’inaugurazione c’era Francesco Bonami, che si è presentato e mi ha detto che voleva organizzare una mostra di giovani artisti fotografi a Venezia.

Reaching for the StarsReaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


HUO — È divertente che sulla copertina del catalogo ci sia un lavoro di Richard Wentworth. Ho fatto la mia prima mostra come curatore nel 1991, in cucina, con Fischli & Weiss e Frédéric Bruly Bouabré. Il titolo, The Kitchen Show, veniva proprio dal lavoro World Soup di Richard Wentworth. Wentworth è sempre stato una figura affascinante per me. Per questa ragione sono andato a Londra: è lui che nel 1995 mi ha presentato a Julia Peyton-Jones. Tutta la mia storia con la Serpentine Gallery è cominciata così. Wentworth è stato professore, un maestro per i giovani, una figura di riferimento per gli Young British Artists e oltre.
È lui che mi ha fatto scoprire Helen Marten.

PSRR — Wentworth è una persona davvero speciale e molto generosa. La scelta della copertina è riconducibile non solo al mio apprezzamento per il suo lavoro, ma anche all’empatia che c’è stata fra lui e me durante i nostri primi incontri.

HUO — E tu hai costituito la Fondazione con tuo marito, Agostino Re Rebaudengo, giusto? L’hai cofondata. PSRR — Sì, Agostino ha condiviso con me l’idea e la nascita della Fondazione, che poi è diventata la mia attività a tempo pieno.
La Fondazione è un’istituzione no-profit e ha tra i propri obiettivi il sostegno agli artisti, anche attraverso la produzione delle loro opere. Fin dall’inizio la committenza è stata molto importante per me, così come la relazione con il pubblico e la costruzione di partnership con altre istituzioni. Sono le missioni fondanti che guidano il nostro lavoro.

HUO — La parte inglese della tua collezione va dagli anni Ottanta, con Tony Cragg, Wentworth, Kapoor, fino agli YBAs.

PSRR — Sì, rispecchia ciò che stava accadendo a Londra in quegli anni. Poi ho fatto rotta su Los Angeles.

Reaching for the StarsReaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


HUO — Con Francesco Bonami hai subito iniziato a lavorare insieme?

PSRR — Come ti raccontavo, ho conosciuto Bonami a Modena nel maggio 1995. Il suo progetto era di organizzare una mostra durante la Biennale di Venezia. Il direttore di quella edizione era Jean Clair e quindi si prospettava una mostra conservativa, sicuramente non supercontemporanea. Francesco pensava a una mostra più giovane, più fresca, dedicata alla fotografia e me la propose a Modena. Mi chiese di sostenerla economicamente. A giugno l’abbiamo inaugurata. Ecco il catalogo.
Sai chi ha disegnato questo primo logo? Umberto Allemandi, l’editore con cui abbiamo pubblicato il catalogo della mostra. Avevamo deciso di utilizzare la stellina blu dello stemma araldico della famiglia Rebaudengo. Lui ha disegnato queste due piccole stelle che si sono poi trasformate nella nostra stella, ancora oggi simbolo della Fondazione. Tornando alla mostra, l’unica eccezione alla panoramica sulla fotografia emergente era la scultura di Kcho, intitolata A los ojos de la historia.
La mostra era allestita alle Corderie dell’Arsenale, nello spazio dove ora c’è il bookshop della Biennale.

HUO — Ma io l’ho vista quella mostra!

PSRR — Ah, te la ricordi? Campo 95 è stata la prima mostra che abbiamo realizzato Francesco e io. Il titolo era ispirato alla tipica piazza veneziana e all’immagine capiente di una coltivazione, di una semina. In Campo 95 esponevano ventisette artisti, giunti con le loro opere da tredici diversi Paesi del mondo.

HUO — Nella prefazione in catalogo scrivevi di voler contribuire allo sviluppo e alla divulgazione dell’arte contemporanea. Da allora hai sempre avuto questo desiderio, questa necessità di divulgare.

PSRR — Sì, è un principio che guida tutti i miei progetti.

HUO — Proprio in quegli anni hai cominciato a incontrare gli artisti italiani: Maurizio Cattelan, Vanessa Beecroft…

PSRR — Era molto difficile essere artisti italiani allora. Hai nominato due artisti che per farsi conoscere si sono spostati negli Stati Uniti. Il sistema dell’arte contemporanea era fragile, privo di strutture dedicate ai giovani. Ho guardato agli artisti italiani con un’attenzione particolare. Anche in questo caso molti appartenevano alla generazione dei nati negli anni Sessanta: Stefano Arienti, Luisa Lambri, Massimo Bartolini, Eva Marisaldi…

HUO — Eva Marisaldi, che nel 1994 aveva esposto a L’Hiver de l’amour, al Musée d’art moderne de la Ville de Paris.

PSRR — Fin da subito ho guardato con attenzione alla ricerca di Eva ed è entrata con diverse opere in collezione. Era chiaro che in Italia mancasse un sistema dell’arte evoluto e competitivo rispetto alla scena internazionale.

HUO — Mancava un sistema di Kunsthallen, di spazi pubblici.

PSRR — E la formazione accademica era ancora molto tradizionalista.

Reaching for the StarsReaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


HUO — In quell’ambito, proprio allora, lo IUAV di Venezia segnò una vera e propria rinascita. C’erano Angela Vettese e Marco De Michelis e si invitavano gli artisti a insegnare. Olafur Eliasson, Rirkrit Tiravanija, io e Nicolas Bourriaud: siamo stati tutti professori per alcuni anni. Io ho scelto di combinare la mia classe d’arte con quella di architettura di Stefano Boeri.

PSRR — Quella scuola ha fatto la differenza.

HUO — Grazia Toderi ha insegnato con me, Tomás Saraceno con Stefano Boeri. È stato un momento raro.

PSRR — Un caso unico nel panorama universitario italiano, un modello. In Fondazione, da tempo, promuoviamo la formazione specialistica e per questo abbiamo dato vita a un corso di studi e pratiche curatoriali.

HUO — Quando è stata fondata la scuola?

PSRR — Nel 2012, dieci anni fa. Sono sempre stata attenta al ruolo del curatore. Credo sia importante avere buoni artisti, ma anche curatrici e curatori professionalmente preparati. Nel 2007 abbiamo avviato lo Young Curators Residency Programme, un viaggio di studio in Italia che coinvolge giovani professionisti agli esordi, provenienti dalle più autorevoli scuole di curatela del mondo. Quasi immediatamente abbiamo cominciato a ricevere richieste anche da giovanti aspiranti curatrici e curatori italiani. Per loro abbiamo progettato un corso di studi indipendente e lo abbiamo intitolato Campo, ispirandoci alle prime mostre di Bonami: Campo 95 a Venezia e Campo 6, inaugurata a Torino nel 1996.
Le consideriamo mostre generative nella storia della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.

HUO — Campo 6. Il villaggio a spirale.

PSRR — È stata la prima mostra della Fondazione che abbiamo proposto a Torino, ospitata nelle sale della GAM, la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea della nostra città. Francesco Bonami invitò, tra gli altri, Maurizio Cattelan, Doug Aitken, i fratelli Chapman, Thomas Demand, Sam Taylor-Wood, William Kentridge, Gabriel Orozco, Rirkrit Tiravanija.
Erano giovani ma già affermati. Sono arrivati a Torino e si sono fermati una settimana, dieci giorni.
C’era un’atmosfera molto speciale.

Reaching for the StarsReaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


HUO — È stata anche una delle prime mostre con Philippe Parreno, vero?

PSRR — Sì, c’era anche Philippe. Tutti hanno partecipato all’allestimento delle loro opere: Tobias Rehberger, Pascale Marthine Tayou, Tracey Moffatt, Mark Dion, Sarah Ciracì…

HUO — Intanto viaggiavate?

PSRR — Da Campo 95 Bonami è diventato il direttore artistico della Fondazione. Lavoravamo sia sulle mostre sia sulla collezione e i viaggi erano fondamentali.

HUO — Francesco ha sempre avuto un legame con Los Angeles. L’ho incontrato spesso lì. Oggi Los Angeles è uno dei centri dell’arte più frequentati ma in quel momento non era ancora così. C’era una incredibile atmosfera. Mi ricordo che, quando arrivai per la prima volta a Los Angeles, all’aeroporto mi venne a prendere Jason Rhoades.
Mi disse: «Prima di andare nel mio studio, devi incontrare e aiutare altri colleghi meno conosciuti». A Los Angeles, in quegli anni, c’era uno spirito molto bello, di solidarietà fra gli artisti. Una situazione rara.

PSRR — Hai ragione, anch’io ho percepito un’energia unica. Quando sono andata a trovare Charles Ray, mi ha portata a conoscere i suoi studenti nell’università in cui insegnava. HUO — Qual è la sua opera che hai acquisito per prima?

PSRR — Eccola… Immagina, una collezionista torinese che ha appena iniziato ad avvicinarsi all’arte contemporanea e sceglie 7 ½ Ton Cube. È un’opera difficile da mostrare, perché pesa sette tonnellate e mezza ed è molto delicata. È stata la prima opera che ho comprato di Charles Ray. In seguito sono entrati in collezione Viral Research e la fotografia Untitled del 1973, dove Ray appare legato e sospeso a un ramo di un albero. Un’immagine molto forte.

HUO — All’epoca viveva a Los Angeles anche Raymond Pettibon.

PSRR — Raymond Pettibon e Catherine Opie, entrambi presenti in collezione. Un altro artista eccezionale che ho incontrato durante una delle studio visit organizzate con Bonami è Paul McCarthy. Avevo già conosciuto Doug Aitken, a Torino, per Campo 6. Doug è stato uno dei primi artisti a cui ho commissionato un’opera, realizzata nel 1999 in occasione della Biennale di Venezia. Con Bonami decidemmo di produrre la videoinstallazione Electric Earth, che poi, nel 2017, ha dato il titolo alla personale di Aitken al MOCA di Los Angeles.

Reaching for the StarsReaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


HUO — Il ruolo del collezionista come committente e produttore di opere è diventato più rilevante negli anni Duemila.

PSRR — Già nel 1996 abbiamo prodotto alcune delle opere di Campo 6 ma è proprio con Electric Earth che la committenza diventa un vero e proprio metodo, un nostro approccio distintivo. Nel 2001 la Fondazione ha prodotto insieme alla Serpentine Gallery di Londra i lavori realizzati da Aitken per la personale New Ocean, e li ho poi acquisiti.
Non tutte le opere prodotte entrano in collezione. In altre occasioni abbiamo scelto la coproduzione, come nel caso del progetto Future Fields Commission in Time-Based Media, un’iniziativa congiunta del Philadelphia Museum of Art e della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.

HUO — La Fondazione non è mai stata un’entità isolata. C’è sempre stata l’idea della rete e soprattutto della collaborazione, del dialogo con le istituzioni pubbliche. Talvolta capita che le persone aprano una fondazione e poi smettano di relazionarsi con altri musei. Tu invece fin dall’inizio hai costruito una solida rete di partnership. Insieme abbiamo lavorato a un progetto di Ian Cheng, con la mostra Emissary in the Squat of Gods, in Fondazione a Torino nel 2015, poi a Londra alla Serpentine e a Madrid nel 2020. Ora collabori con il Philadelphia Museum e hai appena inaugurato la terza mostra della serie Future Fields.

PSRR — Per Future Fields la prima è stata la commissione dell’opera Wil-o-Wisp di Rachel Rose nel 2018, poi Neural Swamp di Martine Syms nel 2021 e ora Air Pressure di Lawrence Abu Hamdan. Ogni mostra è accompagnata da un catalogo.
Il lavoro viene poi co-acquisito dalla Fondazione e dal Philadelphia. È un procedimento piuttosto nuovo che reputo molto interessante.

HUO — Quando ci siamo conosciuti, mi hai invitato a far parte dell’advisory board della Fondazione. La nostra prima vera collaborazione, nel senso del produrre, è nata però con Dreams, un piccolo libro che ho curato insieme a Bonami nel 1999.
Ora che hai parlato di Electric Earth e della Biennale mi hai fatto ripensare ad Harald Szeemann, direttore artistico di quella edizione. È evidentemente una figura importante per me come svizzero. Quando ero al liceo, a Zurigo, a diciassette, diciott’anni, ho visitato la sua mostra Der Hang zum Gesamtkunstwerk [Tendenza verso l’opera d’arte totale].
Sono tornato a rivederla quaranta volte. L’ho imparata a memoria come si impara una canzone.
Un’altra coreografa che mi ha influenzato è Yvonne Rainer. Nel 1966 Rainer ha creato un’opera audiovisiva rivoluzionaria dal titolo Hand Movie

PSRR — Davvero?

Reaching for the StarsReaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


HUO — L’ho imparata con il cuore. Tornando a noi, nel 1999 decidemmo di lavorare insieme a questo progetto a Venezia. Come ha spiegato Édouard Glissant, molta gente non va a vedere le mostre perché c’è sempre una porta, una barriera. Dovremmo cercare allora di andare incontro alle persone, e questo fa parte della divulgazione dell’arte – no, anzi, della disseminazione. È un’idea che Félix González- Torres ci ha insegnato e di cui ho discusso molto con lui.
Era il concetto alla base di Take Me (I’m Yours), una mostra che ho fatto con Boltanski, la mia prima mostra alla Serpentine nel 1995.

PSRR — Quando sei arrivato alla Serpentine?

HUO — Sono stato guest curator nel 1995-1996 e nel 2006 ho affiancato Julia Peyton-Jones come codirettore.
Take Me (I’m Yours) ribaltava le regole che vigono nello spazio espositivo, sospendendo per esempio il divieto di toccare. Potevi portarti a casa uno dei frammenti delle opere esposte e allestire la tua personale kitchen show. Tu e io abbiamo sempre discusso su questo, sul fatto che si possa fare divulgazione anche fuori dal museo. E così, non mi ricordo esattamente come, mi è nata l’idea di fare una mostra portabile, una piccola mostra da mettere in tasca, da far trovare nelle camere degli alberghi, come segno di benvenuto. Questa era l’idea. È vero, no? Ti ricordi come è nato Dreams? Eravamo a pranzo, proprio come oggi, e abbiamo fatto brainstorming.

PSRR — È vero, mi ricordo. Stavamo pensando a un progetto diffuso e avevamo deciso di raccogliere tanti sogni. È stato un lavoro lungo ma entusiasmante: internet non si usava ancora molto e quindi i sogni arrivavano via fax. Ma sai che ho ancora trovato qualche fax?

HUO — Dove sono ora?

PSRR — In archivio. È un progetto bellissimo. Abbiamo raccolto centocinque sogni in una piccola pubblicazione che distribuivamo a Venezia. Avevano tutti in mano il nostro libricino. Mi ricordo di Nicholas Serota che durante la serata dell’International Council della Tate, a casa di Attilio Codognato, mostrava Dreams a tutti i presenti. Pensi che potremmo riproporlo?

HUO — Dovremmo riproporlo con la realtà virtuale e fisica combinate, come mixed reality. Avevamo raccolto i sogni degli artisti e i loro progetti non realizzati. Era quello che Alighiero Boetti mi aveva consigliato di fare come curatore: chiedere agli artisti non le opere ma le loro utopie, uscendo dal mondo dell’arte, dalla cornice delle mostre, delle biennali, del museo, della galleria. Ecco, con questo libro abbiamo lasciato gli artisti sognare e, se possibile, realizzare alcuni di quei sogni.

PSRR — Anche incubi. Non solo sogni.

HUO — Anche incubi. Mi ricordo che Cattelan diceva che non si sogna quando non si dorme abbastanza e questo mi ha fatto iniziare a dormire. Prima dormivo molto poco.

PSRR — È vero, non dormivi!

Reaching for the StarsReaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


HUO — Mi sono messo a dormire nel 1999, per poter sognare. Ho anche incontrato Hélène Cixous, che aveva l’abitudine di appuntarsi frammenti dei suoi sogni subito dopo il risveglio. Nel libro Rêve je te dis [Sogno ti dico] ne colleziona cinquanta dei dieci anni precedenti.

PSRR — Ma tu sogni molto?

HUO — Adesso sì e tu?

PSRR — Sogno, ma dormo ancora poco.

HUO — Quante ore?

PSRR — Non più di cinque ore per notte.

HUO — Io cinque o sei dopo il 1999, prima del 1999 due. Dreams ha cambiato il mio ritmo, proprio grazie alla frase di Cattelan e al libro di Cixous.

PSRR — Veramente? Dovrei fare anche un po’ mia quella frase. Dormo pochissimo perché mi sembra quasi di perdere tempo.

HUO — Anch’io ho questo feeling di perdere tempo.

PSRR — Con Dreams abbiamo disseminato sogni. Li abbiamo messi in circolazione. Anche per le opere della collezione è così. Ho sempre voluto che fossero esposte in altri musei, in altre istituzioni. Quest’anno, a Siviglia, nella mostra della collezione al Centro Andaluz de Arte Contemporáneo, abbiamo esposto anche Stoner, un’installazione ambientale di Andra Ursuţa del 2013. Si tratta di un lancia-palle da baseball modificato per scagliare pietre contro due grandi pareti coperte di piastrelle invecchiate e screpolate del colore della carne livida, incrostate di capelli umani. È un lavoro durissimo che condanna la lapidazione, un metodo secolare di esecuzione capitale mediante tortura, ancora oggi praticato e sanzionato in alcuni Paesi.
Quando ho visto l’installazione a Siviglia, ho detto al direttore del Centro, Juan Antonio Álvarez: «Sei stato coraggioso a esporre quest’opera», e lui mi ha risposto: «Forse sei stata più coraggiosa tu a comprarla». Quando rivedo le mie opere in contesti nuovi, nelle sale dei musei di tutto il mondo, mi appaiono diverse, quasi non mi sembrano più mie.
È una sensazione di riscoperta molto strana.

HUO — Perché le dai al mondo.

PSRR — Dopo averle acquisite, credo sia giusto restituirle alla visione delle persone, del pubblico. Per questo penso che la mia collezione debba viaggiare. Ho sempre creduto che la Fondazione non dovesse essere la casa della collezione.
Diventerebbe uno spazio fisso, immobile, statico. La collezione viaggia. È un veicolo. Un laboratorio.

HUO — La collezione è stata mostrata in decine di Paesi, è diventata un itinerario, come dimostrano tutti i libri e i cataloghi che mi hai portato e stiamo sfogliando.

PSRR — Sì, esatto. La collezione è un itinerario. È iniziato a Modena nel 1995 ed è proseguito con le mostre realizzate in tutti questi anni.

Reaching for the Stars Reaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


HUO — Quali sono le tue preferite? Le ricordi tutte?

PSRR — Sì, tutte. Ricordo Espíritu y espacio nella sede del Banco Santander a Boadilla del Monte, vicino a Madrid, nel 2011. Una mostra fantastica.

HUO — Chi l’ha curata?

PSRR — Francesco Bonami. Le opere erano esposte in tremila metri quadri di spazio: quando entravi, avevi la percezione di un ambiente talmente grande che non riuscivi a farti subito un’idea complessiva. Era una mostra da percorrere e scoprire passo dopo passo. Un’altra mostra di cui ho uno splendido ricordo è Walking on the Fade Out Lines, del 2018, al Rockbund Art Museum di Shanghai. Un’altra esperienza indimenticabile.

HUO — Come erano state scelte le opere? PSRR — La mostra era a cura di Larys Frogier, direttore del Rockbund, con Hsieh Feng-Rong, senior curator del museo. Come sempre, abbiamo instaurato un dialogo attento e proficuo ma poi la selezione finale è stata loro. Non sono una curatrice e quindi non ho mai curato mostre della collezione. Amo vedere la collezione esposta in altri musei, raccontata e reinterpretata da uno sguardo esterno, alla luce di altre idee, di altre prospettive. Dopo Madrid e Shanghai, ripenso ancora alle mostre alla Whitechapel Gallery, a Londra, e al Centro de Arte Contemporáneo di Quito.

HUO — Parlami della mostra alla Whitechapel. PSRR — Think Twice è durata un intero anno, dal settembre 2012 al settembre 2013. Era curata da Francesco Bonami e Achim Borchardt-Hume, un caro amico scomparso tragicamente.

HUO — È importante ricordarlo, onorare la memoria di Achim.

PSRR — Era davvero speciale. Ricordo i giorni trascorsi con lui a Torino. Ci siamo presi del tempo per riguardare insieme le opere della collezione. In Fondazione lavoriamo sempre così, è il nostro metodo consolidato: prima inviamo i cataloghi e la documentazione ai curatori, poi ci incontriamo a Torino per analizzare i materiali insieme e per approfondire il confronto. Ovviamente poi le scelte stanno ai curatori.

HUO — Come dite voi: prendere il sole a Torino.

PSRR — È vero, è una bellissima immagine. Il titolo dell’opera di Boetti è particolarmente efficace. Le mostre nascono da un dialogo, dall’intreccio fra la storia della collezione e il background dei curatori e delle istituzioni che hanno deciso di ospitarle. Think Twice era un progetto espositivo diviso in quattro mostre, ciascuna della durata di tre mesi. Ogni mostra aveva un tema, un concetto, un suo titolo.

Reaching for the StarsReaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


HUO — La divulgazione, la disseminazione, ancora Félix González-Torres.

PSRR — Le quattro mostre, allestite nella Collection Gallery, hanno creato una successione, un racconto, una trama di relazioni. Ognuna aveva il titolo di un’opera: Catttelan, con tre t, dal lavoro di Maurizio, Viral Research dall’opera di Charles Ray di cui abbiamo parlato prima, A Love Meal dall’opera di Félix González-Torres e Have you seen me before?, l’irresistibile orso con il pelo di piume di pulcino di Paola Pivi. Anche la mostra di Quito, in Ecuador, nel 2015, è stata molto importante per me. Un vortice di emozioni. Ho passato notti insonni a pensare alle opere chiuse nei container, sulla nave, in mezzo all’oceano. Avevo una terribile paura che potesse affondare. Il lungo allestimento e poi l’immensa felicità della sera dell’opening. Ero circondata da migliaia di persone, venute appositamente a scoprire la collezione. Si intitolava Spin-Off. Fra le sessantacinque opere esposte c’era Christmas Tree di Philippe Parreno, con la registrazione di quarantacinque minuti di un finto monologo di Jean-Luc Godard. Un lavoro che amo molto, forse uno dei primi che ho acquisito di Philippe.

HUO — Come è stata accolta la mostra a Quito?

PSRR — È stato magico. L’emozione delle persone era tangibile, la loro curiosità, il desiderio di vedere, di conoscere. È in momenti unici come quello che realizzo che una collezione deve viaggiare, che non deve fermarsi. È questo il modo in cui cresce ed evolve.

HUO — È interessante perché questo vuol dire che il museo è “mobile”. La tua idea di collezione è sempre stata orientata, da una parte, da questo museo mobile in diversi luoghi del mondo e, dall’altra, dalla Fondazione intesa come laboratorio. Un laboratorio di mostre, di premi, della residenza e della scuola per i giovani curatori.

PSRR — Fin dall’inizio il progetto della Fondazione si è concentrato anche sulle nuove generazioni curatoriali, oltre che sui giovani artisti. Guarda questo catalogo: è uno di quelli realizzati per le mostre degli anni Novanta, raccolte nel programma intitolato Guarene Arte. Le mostre si svolgevano a Palazzo Re Rebaudengo, la nostra prima sede, inaugurata nel 1997: una residenza settecentesca della famiglia di mio marito Agostino. Per quelle mostre chiedevamo ai giovani curatori e curatrici di tutto il mondo di segnalare un artista e questo ci consentiva di documentare con precisione e grande tempismo le scene emergenti. La mostra si concludeva con un premio, anzi due, entrambi presieduti da una giuria autorevole: uno, della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, era assegnato all’opera più interessante; l’altro, della Regione Piemonte, al migliore progetto ancora da realizzare.

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HUO — Questo è il catalogo di Guarene Arte 99. PSRR — Il progetto è iniziato nel 1997 e tu c’eri. Eri presente alla prima edizione.

HUO — Sì, è vero, mi ricordo.

PSRR — Avevi segnalato Urs Fischer.

HUO — Sì, Urs Fischer, che non era ancora famoso. Me lo avevano suggerito Peter Fischli e David Weiss, dicendomi: «C’è questo ragazzo in Svizzera, fai attenzione». Sai, gli artisti parlano di altri artisti. Gli artisti sanno sempre dov’è la prossima generazione.

PSRR — Oltre a te, quell’anno fra i segnalatori c’erano Jean-Christophe Ammann, Kate Bush, Richard Flood, Jaap Guldemond, Lars Nittve, Angela Vettese e Octavio Zaya.

HUO — È in una di queste mostre che appare per la prima volta Roberto Cuoghi, no?

PSRR — Sì, nella mostra del 1999, segnalato da Emanuela De Cecco. Guarene Arte si è concluso nel 2001. Sono stati cinque anni bellissimi e, direi, cinque mostre fondative.

HUO — Credo sia molto importante sostenere gli artisti all’inizio delle loro carriere. Penso allo Young Curators Residency Programme, la vostra residenza per curatori. Nel 1991-1992, quando ho cominciato a fare mostre e ho curato The Kitchen Show, avevo uno stipendio, grazie a una borsa di studio della Fondation Cartier. Mi aveva invitato Jean de Loisy. Mi ha cambiato la vita e non l’ho mai dimenticato. Ho avuto per la prima volta l’opportunità di partire dalla Svizzera senza prendere un treno notturno. Prima potevo fare soltanto spostamenti di un giorno, viaggiando di notte perché non potevo permettermi gli alberghi. Arrivo da Cartier e mi fermo per tre mesi: così per me è cominciato tutto. Bisogna sostenere gli artisti, i critici, i creatori, gli architetti all’inizio della loro démarche. Così si può fare davvero la differenza. Per questo la tua Fondazione mi ha sempre colpito. Hai cominciato sostenendo gli artisti della tua generazione. Dunque, sono trent’anni?

PSRR — Trent’anni intensi, costellati di incontri, di progetti e di risultati.

HUO — A oggi sei entrata in contatto con quattro generazioni di artisti, proprio cominciando dai tuoi viaggi e dalle mostre di Guarene Arte. Quattro generazioni di artisti e di curatori.

PSRR — In effetti la nostra attenzione per la curatela è emersa proprio in quegli anni, a Guarene, prima dello Young Curators Residency Programme, che, come dicevo, è nato nel 2007. Era un tratto distintivo di Bonami. Francesco ha sempre lavorato in modo molto partecipativo. È l’approccio che caratterizza anche lo Young Curators Residency Programme.
Ogni anno invitiamo in Italia tre giovani curatori e curatrici che hanno appena terminato i loro studi nelle migliori scuole specialistiche del mondo. Viaggiano in tutto il paese accompagnati da un curatore italiano che coordina il progetto e questo permette loro di scoprire la nostra scena creativa, di conoscere direttamente i giovani artisti, di visitare i loro studi, le gallerie, gli spazi no-profit. Incontrano i direttori e i curatori di musei e fondazioni, entrano nelle redazioni delle riviste.
Alla fine viene concepita una mostra di artisti italiani, pensata e curata da loro. Fino a oggi la Residenza ha prodotto sedici mostre sull’arte italiana, vista dalla prospettiva specifica, e per certi aspetti inedita, dei curatori internazionali coinvolti nel progetto. Dal 2020, lo YCRP è attivo anche in Spagna, promosso dalla Fundación Sandretto Re Rebaudengo Madrid.
Abbiamo sempre sostenuto sia gli artisti che i curatori. Non abbiamo mai separato questi due aspetti.
Grazie a questo progetto, infatti, favoriamo il networking: l’arte italiana o spagnola entra in contatto con gli sguardi dei giovani curatori di tutto il mondo, molti dei quali intraprendono una brillante carriera e continuano a coinvolgere gli artisti conosciuti durante la residenza. Per sostenere davvero i giovani artisti ritengo sia essenziale incrementare la loro mobilità e sviluppare per loro occasioni di scambio professionale anche con coetanei stranieri.

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Reaching for the StarsReaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


 

Reaching for the Stars
Da Maurizio Cattelan a Lynette Yiadom-Boakye
a cura di Arturo Galansino
Palazzo Strozzi 4 marzo - 18 giugno 2023
@ 2023 Artext

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