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Fondazione Peccioli per l’Arte
Rampa di lancio

 
Mimmo PaladinoMimmo Paladino, Senza Titolo (Testimoni), 1997. Sculture in bronzo


Fondazione Peccioli per l’Arte
Rampa di lancio
a cura d Antonella Nicola e Sergio Risaliti

Sul primordiale
di Mirco Marino

Il tempo, e il nostro atteggiamento nei confronti del tempo, non sono di solito complicati ma complessi. Provare a rendere semplice ciò che è complesso non porta da nessuna parte. Eliminare la complessità è un attacco alla struttura centrale che reca solo danno al tutto. Se ciò che è complicato può essere paragonato a una matassa aggrovigliata, ciò che è complesso è come un arazzo: tirare dei fili della trama o dell'ordito rimuove qualcosa di essenziale dal motivo e dalle forme. (1)

Dare forma all’originario è un’impresa complessa. È necessario da principio riflettere sui sistemi che regolano il ritmo esistenziale e mettere in ordine e collaudare le relazioni che legano l’uomo al tempo del mondo.

Peccioli il pomeriggio di un giorno d’inverno è un nitido e contenuto capolavoro. La cittadina si comprime sulla sua collina e il suo peso sembra allinearsi a quello della terra. La terrazza del Palazzo Senza Tempo galleggia dileguando la gravità di un intero paese e slancia in un volo panoramico non solo lo spettatore che passeggia sull’affaccio, ma lo stesso tessuto della cittadina toscana. Il tempo si sospende nella visione che la terrazza progettata da Mario Cucinella inquadra e ciò che si srotola sotto gli occhi è una distesa infinita di mondo.

Rampa di Lancio, a cura di Sergio Risaliti e Antonella Nicola, è una mostra che si misura col primordiale, col sentire naturale del senza tempo, e sembra farlo attraverso una ricerca che si muove su tre ordini diversificati: il naturale/artificiale, il sociale e il religioso. D’altra parte, gli stessi artisti in mostra sviluppano ricerche non facilmente paragonabili l’una all’altra, ciò che li lega sembra essere un sottile filo che in mostra si erge a trave portante.

Domenico BianchiDomenico Bianchi, Senza Titolo (Panchine), 2009-2021. Sculture in marmo bianco di Carrara, intarsi marmo blu


Il filo è il primordiale, l’originario, raccontato nel suo tempo indeciso e complesso, attraverso le sue forme arcaizzanti, i suoi gesti perenni e i suoi oggetti che, nel tempo, si sedimentano e ci ricordano di un’umanità che si trova a prendere parte ad un lontanissimo per sempre. La visita, al pari delle forme dell’originario, non può avere un punto d’inizio prescritto, deve necessariamente intessersi con le forme irregolari delle vie e delle piazze del paese e della comunità di cui richiama, accuratamente, i luoghi, dislocandosi quindi su più spazi e più tempi.

Un’opera sembra possedere la chiave per fare simbolicamente l’ingresso nello spazio aperto della mostra. Tre panchine progettate e lavorate da Domenico Bianchi tra il 2009 e il 2021 si ergono a monumento sociale sulla terrazza del Palazzo Senza Tempo. Il marmo bianco della forma-panchina contrasta col centro intarsiato in blu lapislazzulo, e sembra riflettere su una dimensione di connessione tra la terra, la pietra marmorea e il cielo, gli intarsi. Al di là degli aspetti formali e contenutistici la panchina in quanto oggetto di design prevede delle precise funzioni: quella di ristoro, quella sociale e per ultima, per importanza, quella visiva.
La panchina, al pari della cornice, delimita attraverso la sua posizione la porzione di spazio da inquadrare, costringe perciò il campo visivo in un raggio ristretto, creando un quadro ben preciso di ciò che deve essere visto. In Rampa di Lancio le tre panchine di Bianchi formano una curva sulla parte posteriore della terrazza, in questo modo, le linee sbieche dell’architettura si trovano in contrasto con la curva creata dalla disposizione delle panchine, un contrasto che viene mantenuto cromaticamente con le scure e silenziose divinità che fluttuano sul panorama, e che sono perfettamente inquadrate dalla visione dalla panchina. I Testimoni di Mimmo Paladino fanno da guardia all’infinito che si staglia al di là della terrazza. Ognuno di loro sembra mantenere un segreto incastonato nel simbolo, una verità trattenuta nei vuoti occhi neri delle sculture. La figuratività di Paladino cede facilmente all’astrazione espressiva, ridurre il particolare all’universale per elevarlo a simbolo, meditare attraverso forme semplici sull’arcaicità stessa, implicita in quelle forme che richiamano un ordine macroscopico, distante, religioso.

La disposizione dei Testimoni, posti in diagonale sulla terrazza, riesce nella creazione di una dinamicità statica, nel guidare e slanciare lo sguardo verso un al di là, verso un mondo naturale e divino, racchiuso nella visione panoramica sulle colline toscane.

Paolo ParisiPaolo Parisi, Il respiro delle piante produce cielo (Blues), 2021 Piazza del Popolo, Peccioli. Wall painting, audio in diffusione continua, sensori di temperatura, umidità e luminosità, piante, luci. Concept Audio e Sound Design: Lorenzo Ballerini, Remo Zanin


Attraverso una dinamica concettuale simile l’intervento sull’architettura di Piazza del Popolo di Paolo Parisi in collaborazione per il suono con Lorenzo Ballerini e Remo Zanin, dal titolo Il respiro delle piante produce cielo (blues) riverbera una riflessione su natura e comunità. La facciata di un palazzo della piazza viene trasformata in puro colore seguendo le linee interne delle abitazioni. Le tonalità più basse dello spettro luminoso, dal violetto al blu, organizzano un universo di senso autonomo e celeste, che dalla parte superiore del loggia riecheggia al di sotto di essa attraverso il sentire del naturale: mediante dei sensori posti sulle piante del loggiato l’artista riesce ad ascoltare il ritmo naturale della vegetazione, che in base a cambiamenti atmosferici e di luce dà forma all’illuminazione e a impressioni sonore variando di volta in volta in combinazioni infinite e imprevedibili. Si tratta nuovamente di una connessione tra comunità, uomo e natura, in un delicato gioco di equilibri in cui l’uomo non imita le forme del naturale, ma lascia che il naturale stesso, attraverso lo sviluppo tecnologico, quindi umano, possa lasciarsi sentire. Ciò che è necessario sottolineare è come, in una prospettiva storica, quest’opera interroghi lo spazio cittadino. Se le città nascono in opposizione alla natura, e quindi estromettendola in favore dell’urbanizzazione, questa nel lavoro di Parisi si trova reinserita nel contesto urbano e ascoltata nei suoi ritmi cadenzati e nelle sue delicate sfumature.

Pantani-SuracePantani-Surace, The Other Party, 2021 Installazione luminosa, Viale Mazzini e Bar C’era una volta, viale Mazzini 53, Peccioli


In maniera attinente all’opera di Parisi, la traduzione del suono in colore attraverso la regolazione di impulsi elettrici che si fanno luce è parte integrante dell’opera di Lia Pantani e Giovanni Surace The Other party. Un flipper, oggetto dimenticato all’interno di un bar cittadino diventa cabina di regia per l’illuminazione di un segmento di Via Mazzini. I suoni prodotti dall’uso del flipper regolano un sistema di luci multicolore sulla strada antistante il bar. Il gioco nel gioco individua una dimensione sociale che si basa sul contrasto tra l’isolamento del giocatore singolo del flipper e l’esperienza visiva di chi invece è dalle parte opposta, di chi può godere della dinamica d’illuminazione che a ritmo irregolare disegna lo spazio.

Se l’opera di Parisi ha a che fare col sentimento del ritmo del naturale, l’opera di Pantani e Surace investiga la dimensione sociale, il ritmo della comunità e dei luoghi simbolo del paese che si riscopre in maniera sempre nuova nei gesti quotidiani dell’uomo.

Il primordiale è espresso in queste due opere attraverso una dinamica che si muove tra il naturale e il sociale e che sembra aver bisogno di un tassello successivo per mantenere l’equilibrio. Il tassello è il singolo, l’uomo e la sua capacità di pensiero e di creazione. L’uomo in quanto creatore di segni, creatore del linguaggio che permette la comunicazione del pensiero. Le opere di Parisi e Pantani-Surace elaborano il proprio linguaggio interno partendo dagli elementi cittadini e caratterizzandosi entrambe, su dimensioni diverse ma parallele, in ciò che può essere definita, in maniera sinestetica, come cromo-fonia: un’elaborazione attraverso le specifiche del cromatico e del sonoro. La dimensione umano-linguistica è investigata a partire dalla lingua naturale nelle Etimografie di David Reimondo.
Reimondo sviluppa una scrittura basata sullo spostamento dal segnico al simbolico, creando quindi un linguaggio che mantiene lo stesso processo di lettura generalizzando però le singole lettere che compongono la parola in simboli che riferiscono alla parola stessa. A livello contenutistico l’opera interviene concettualmente sul linguaggio, portando quindi l’atto creativo dell’opera al livello dell’opera stessa. Il lavoro si traduce perciò in una dimensione creativa di nuove elaborazioni del pensiero, che scoprono, mediante una dinamica arcaica, un nuovo alfabeto contemporaneo.

David ReimondoDavid Reimondo, Etimografie, 2021 Wall painting, Palazzo Polivalente Via del Carmine 1, Peccioli Realizzato col sostegno della Galleria Mazzoleni, Torino-Londra


L’artista inserisce sul muro di Via del Carmine, oltre la frase “Il muscolo del pensiero è il cervello… Nuovi linguaggi determinano la nascita di nuovi mondi” anche un altro simbolo del contemporaneo, un qrcode. Questo permette di intessere un relazione interattiva con l’opera e una volta scannerizzato è possibile accedere a un video che mostra, e spiega, il processo di creazione dell’opera, con le seguenti parole:

Il muscolo del pensiero è il cervello. Un modo del cervello è il linguaggio. Il linguaggio definisce e indica il funzionamento del pensiero. Vedere in azione il linguaggio è vedere l’organo tipico dell’animale uomo. Nuovi linguaggi determinano la nascita di nuovi mondi.

Da questo è possibile evincere il modo in cui l’opera indaga le coordinate che muovono il pensiero umano, elevando il linguaggio naturale a espressione del funzionamento del cervello, svela come la creazione di un linguaggio nuovo riesca nell’indicare di più di quello che esprime: creare un nuovo mondo attraverso la nuova dimensione che si dà di esso. D’altra parte, il significato risiede sempre là, in «quella piccola distanza che c’è di volta in volta tra il mondo e tutti i discorsi che lo raccontano”. (2)

Rampa di Lancio è una mostra che si insinua nelle pieghe del tessuto cittadino, andando oltre il circoscritto paese di Peccioli, per svilupparsi lungo un percorso naturale fino a Legoli, frazione dello stesso comune. La ricerca del remoto primordiale si allontana quindi dalla presupposizione di un centro fisso attorno a cui le opere esposte ruotano, per avvicinarsi invece a una forma ellittica, che richiama quella dei moti planetari, dislocandosi quindi attorno a due fuochi.

A Legoli si dovrà contare sull’orientamento naturale, la Chiesa dei Santi Giusto e Bartolomeo non risulta sulle comuni mappe, e basterà seguire il campanile che si erge al di sopra dell’intero paese per scoprire, salendo una verde erta, una chiesa che porta le tracce del tempo trascorso, e, con le istallazioni di Rampa di Lancio, quelle del tempo presente a stretto contatto con l’originario.

Francesca BanchelliFrancesca Banchelli, L’ombra del cielo, 2021 Installazione permanente, Wall Painting, Chiesa SS Giusto e Bartolomeo, Legoli.


Il visitatore è accolto dall’opera di Francesca Banchelli L’ombra del cielo sulla facciata esterna della chiesa rivolta al sole. La sintassi delle figure che in moti ancestrali vivono attorno a una forma centrale richiama per un verso una performatività arcaica, per un altro un assetto formale investigato dai movimenti pre-avanguardisti fine-ottocenteschi. L’istallazione site-specific si compone di tre sostanziali elementi: uno gnomone, una forma centrale in metallo specchiante, e le figure rappresentate intorno a questa.
La meridiana creata sul muro è un’indicazione molto nitida al tempo, o a quello che l’uomo ha chiamato tale. La meridiana ricorda sempre che ciò che l’uomo definisce tempo non è altro che una misurazione del ritmo dei movimenti dei pianeti, una connessione tra terra e cielo che uno strumento dalla struttura elementare rende da invisibile a visibile. Si tratta quindi di una modalità di rappresentazione, che è allo stesso tempo una modalità di presentazione, in quanto la meridiana nel suo complesso si compone dell’oggetto fisico e della proiezione della sua ombra.

Le figure rappresentate in varie tonalità accese sembrano richiamare nuovamente una dimensione temporale, come indicato dalla stessa artista, i soggetti sono Le profetesse bibliche, figure che congiungono il futuro scoperto all’istante epifanico del presente. Queste nella scena sembrano muoversi attorno a ciò che a prima vista nelle sue forme ricorda un falò, un fuoco primordiale, ma che è anche la forma di un’amigdala, la tipica forma a mandorla di un’umanità antichissima, il primo utensile tecnologico, ovvero necessario di una tékhne, termine greco che echeggia nella successiva ars, artis latina. A mezzogiorno, il sole allo zenit fa sì che l’ombra dello gnomone incontri l’inesistenza visiva del metallo specchiante, suggerendo un allineamento originario al nucleo, di nuovo, tra la terra, il cielo e l’esperienza umana.

Sulla parete opposta, l’istallazione sonora di Emiliano Zelada Sometimes, propone una definizione diversa dello scandire del tempo. Ai rintocchi del campanile viene associata una nuova suggestione sonora, un “canto del tempo”, in cui le voci di un coro di bambini cantano l’ora in linea con il suonare delle campane. Il tempo è qui preso direttamente in causa affidando alla voce corale e umana la sua presa di coscienza.

Le due opere esterne alla chiesa si avvicinano l’una all’altra quindi, in un’idea comune di rendere esperibile l’invisibile tempo: da un lato la meridiana dà forma visiva al tempo, dall’altro il canto gli dà una forma sonora.

Giulia CenciGiulia Cenci, Lento-Violento (Ring), 2020. Courtesy l’artista e Galleria Spazio A, Pistoia


L’ingresso nella chiesa porta il visitatore in un ambiente opposto a quello della terrazza del Palazzo Senza Tempo. L’infinito naturale che si distende dalla terrazza è qui inaccessibile, lo spazio si chiude nel finito delle pareti; l’infinito è però rievocato necessariamente dalla dimensione religiosa che connota lo spazio.

L’allestimento rispetta la struttura canonica della chiesa, presentando al suo interno tre istallazioni che elaborano un universo di senso a partire dagli elementi sostanziali dell’architettura e del luogo.

Fin dalla soglia d’ingresso la grande scultura di Giulia Cenci che pende sul transetto si lascia intravedere. Entrando, l’opera assume dimensioni paleontologiche: le due imponenti carcasse di un qualche essere vivente sconosciuto sono in mostra come entità sacrificali. Il loro colore grigio uniforme le relega a relitti di vita, a qualcosa di rinvenuto dalla terra dopo una lunga attesa. Dalla terra, queste risalgono fino alla costrizione religiosa che li lascia fermi, sospesi nel vuoto, in una situazione di precario equilibrio. È Lento-Violento (Ring), un’istallazione che si compone di materiali biologici e detriti industriali, per dare vita a un anello arcaico che manifesta la sua potenza nella straniante e al contempo familiare forma che questi resti animali-industriali assumono.
Il tempo impresso in quest’opera sembra essere necessariamente anacronistico, una ripresa e un rilascio di tempi eterogenei che prendono parte alla formazione di un’opera nel presente della sua sospensione. Il tratto di sospensione è allora ciò di cui è necessario parlare, una sospensione che è espressa da un lato nell’accurato allestimento, dall’altro nella sospensione temporale che, contenutisticamente, l’opera introduce. Esiste però una diversa dinamica di sospensione a cui è necessario guardare, ed è quella religiosa collegata agli ex-voto: la pratica di dare materiali in voto alla divinità è antichissima, come ci ricorda Lucia Corrain: Prima di approdare a una consona forma di musealizzazione, le stranezze della natura – insieme alle preziose reliquie dei santi e dei martiri e agli ex voto – venivano appese negli edifici religiosi. (3)

È quindi utile sottolineare come con l’opera di Cenci, le stranezze della natura insieme con quelle della cultura, siano tornate a prendere il loro spazio all’interno degli edifici religiosi, recuperando una pratica temporalmente lontana e, adesso anacronisticamente vicina.

Andrea FrancolinoAndrea Francolino, Crepa 2021. Realizzato col sostegno della Galleria Mazzoleni, Torino-Londra


Con un intervento di natura più implicita la Crepa dorata di Andrea Francolino si staglia alle spalle del visitatore. Al di sotto del rosone, una rinnovata luce illumina uno spacco architetturale: è una faglia nel tempo, una faglia illuminante, dissestante, e richiedente attenzione.

La crepa rinnova quella sensazione di equilibrio precario con cui l’opera di Cenci accoglie l’osservatore. Una crepa è il simbolo di un cedimento strutturale, e porta a domandarsi quale sia la struttura in fase di cedimento. La risposta sembra essere contenuta nei rimandi al tempo che lungo tutta la mostra si susseguono: lo spazio della crepa è il tempo della crepa, che con la sua, illuminante e illuminata, foglia d’oro rivendica l’infinito della terrazza del Palazzo Senza Tempo nello spazio scuro della chiesa. È il gesto dinamico e drammatico della perdita di bilanciamento, la rottura tra prima e dopo in un’istante che comunica nel momento esatto della sua visione.
La navata della chiesa si organizza allora in due momenti distinti che si conciliano: la rottura temporale di Francolino si riflette nella rottura temporale esposta nel transetto da Cenci. Il senso di sospensione è evocato in questi due centri distanti, posti uno all’inizio e uno alla fine dello spazio, uno spazio che il visitatore è invitato ad attraversare, a fare proprio e a mettere in questione rispetto alla sua esistenza al di fuori di esso.

Lo stesso sentimento di sospensione temporale è avvertito nelle due stanze della chiesa che vedono l’istallazione La fonte della giovinezza di Chiara Bettazzi. L’acqua si muove isotopicamente nello spazio, si riconcilia alle piante sul fondo, e nel suo flusso si trasforma in fontana, in fonte battesimale e inno al moto perpetuo dell’esistenza nell’andare del tempo. L’acqua, l’elemento rimasto fuori dalle suggestioni naturali che Rampa di Lancio espone nel loro primordiale, entra nell’esposizione per chiuderla, per lasciare che il tempo lontanissimo continui a esistere nel movimento incessante del mondo.

Chiara BettazziChiara Bettazzi, La Fonte della Giovinezza, 2021. Installazione.


L’opera di Bettazzi tratta il naturale e il culturale come materiale evocativo. Ogni oggetto o pianta che richiama lo spazio si eleva a resistenza al tempo: sono reperti di un’archeologia contemporanea, di una vita delle cose, che esistono e fioriscono negli spazi in disuso, negli spazi vuoti, assumendone la loro forma. È ciò che succede all’altare e al confessionale parte dell’opera: gli oggetti pongono le loro radici su di essi e vi ci crescono, esplodono in frammenti e discretizzano la visione in una costellazione di memorie che, lasciate andare, cedono al flusso dell’acqua e si sedimentano. Ogni oggetto riemerge dalle sabbie fluviali che lo hanno allontanato dal quotidiano, il naturale e l’artificiale si congiungono, l’uno prendendo le forme dell’altro.

Il percorso che si crea attraverso le due stanze sembra essere di ordine simbolico. Sulla soglia attorno alla centrale fontana crescono tronchi di oggetti, piccole colonne, piante che trovano il loro spazio vitale sul fondo di vasi in vetro, radici germoglianti che richiamano la stessa disposizione degli oggetti, una casualità controllata, un equilibrio precario ma sempre perfetto. L’acqua si muove nello spazio tramite dei piccoli tubi e porta alla straordinariamente moderna vasca da bagno sul fondo, una vasca da bagno che è nuovamente culla del naturale, le piante la circondano e la inglobano rendendola parte del loro ecosistema. Sulla parete opposta l’altare celebra la rappresentazione: in una nicchia creata da tue teli una natura morta dell’artista incorniciata è poggiata al muro. Attraverso un doppio scambio che vede la natura trasformarsi in opera d’arte e l’opera d’arte trasformarsi in oggetto, il quadro è trattato con la stessa naturale riscoperta degli altri, germoglia nello spazio come le colonne di porcellana, è artificiale al pari delle piante che crescono in bottiglia. La fotografia esposta è il trionfo della rappresentazione.

Chiara BettazziChiara Bettazzi, La Fonte della Giovinezza, 2021. Installazione.


Nella stanza adiacente un vecchio confessionale in legno scuro diventa nicchia che custodisce il fiorire di pezzi e foglie, spighe, vetri e merletti. La luce diviene endogena e subisce lo stesso trattamento degli oggetti. Questi crescono negli spazi e nelle nicchie del confessionale, ne assumono la sua forma generale per trasformarsi in qualcosa di maggiore rispetto alla somma delle parti, qualcosa di aspramente simbolico ed esplosivo: il ritmo incessante si ferma, il confessionale è ora piedistallo, su di esso una Madonna veglia. Nella chiesa dei Santi Giusto e Bartolomeo, attraverso l’opera di Chiara Bettazzi, lo spazio ricompone una narrazione degli oggetti, che adesso acquistano, nel flusso incessante e atavico dell’acqua, un respiro divino, un riscoperto senso del religioso.
“Il tempo, e il nostro atteggiamento nei confronti del tempo, non sono di solito complicati ma complessi”, dare forma al tempo è un’impresa complessa.

L’esposizione Rampa di Lancio impone, per concludere, una riflessione sul sentimento del tempo, soffiando via la polvere da un lontanissimo primordiale, che riemerge al centro di un paese a stretto contatto con la natura ma anche a stretto contatto col contemporaneo. È un primordiale che fluttua con le oscure figure di Mimmo Paladino sulla terrazza del Palazzo Senza Tempo, che ascolta il respiro delle piante di Paolo Parisi, che siede attorno all’amigdala specchiante di Francesca Banchelli ed è violentemente archeologico come le sculture di Giulia Cenci, ma che infine ritorna al suo flusso nella magmatica acqua di Chiara Bettazzi.


Note
1 Bodil Jonsson, Ten Thoughts about Time, Constable & Robinson, London, 2005.
2 Francesco Marsciani, Esercizi di semiotica generativa, Euscalpio editrice, Bologna, 1997.
3 Lucia Corrain, Il velo dell’arte, La casa Usher, VoLo publisher, Lucca 2016.

 

Rampa di lancio
a cura di Antonella Nicola e Sergio Risaliti
Fondazione Peccioli per l’Arte 19 dicembre 2021 - 15 marzo 2022
@ 2022 Artext

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