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Centro Pecci
Diego Marcon
Glassa

 
Diego MarconDiego Marcon. Glassa, Installation View, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, immagini di Andrea Rossetti



L’ASINO DI BURIDANO
Palindromi virtuali:
GLASSA di Diego Marcon


L’evento del reale – il virtuale – differisce per natura dal reale di cui è l’evento – l’attuale.
Rocco Ronchi

Si tratta della lettera velata, ma non nel senso che si sa che è velata. Non è la lettera sotto il burka, che è un modo di vestirsi come un altro, ma che mostra e che dice: sono velata. La lettera velata dice: bikini.
Jacques-Alain Miller


GAG

Cosa, o meglio, come si può rendere conto di un segno intrinsecamente virtuale? Virtuale non virtualità comunemente intesa come un qualcosa di necessariamente ancillare rispetto a ciò che sarebbe e diventerebbe esistenza reale. Come si manifesta un segno virtuale, se, tenendo a mente la prima ipotesi del Parmenide di Platone, poi lo fa? Se ne puo’ fare e dare esperienza? Si puo’ dare esperienza di un atto virtuale e quindi impossibile – impossibile inteso come alcunché di privativo, di mancante e formatosi apofaticamente per via negationis – di un possibile insurrogabile che inizia solo con il reale, nel momento esatto in cui il virtuale si è già ipostatizzato differenziandosi in una attualità? Il virtuale, appunto, non circoscrive alcuna dicotomizzazione antinomizzante - armonizzante con il cosiddetto reale. Esso non preesiste a niente e non appartiene all’attualità a cui dà tuttavia agio. Esso ne è semmai la differenza di natura e non di grado: soglia virtuale d’iscrizione postuma – aprés-coup – che il divenire, divenuto inesperenzialmente, ha sempre anticipato, in atto sul proprio atto, come l’accadere in quanto e di quanto avviene come personificazione in fieri dell’impersonale irrelato. L’accadere di ciò che avviene che “genera, scrive Federico Leoni, attraverso ogni passo una diversa premessa e la getta alle proprie spalle, e guarda avanti senza vedere nulla”? Acta est Fabula?

E POI MORIRA’ MIOPE

Se ciò che non è mai entrato – processandosi sempre in actu exercito, all’altezza del suo atto in atto da cui non è possibile trarne esperienza se non traumaticamente, a cose fatte – né nell’affermazione e né nella negazione, che senso si può trarre da entrambe quando ciò che si presenta come affermazione anasemica (o meglio, attraverso Deleuze e Guattari, “asignificante”, non privo di significato ma “imminentemente significativo”), mancante di mancanze non può che continuare a sancirne il decesso inesauribile ed incorruttibile ad un tempo, che scivola, sempre e solo nell’evidenza cieca del suo atto, dal loro nome al loro pronome? Pronome, omonimia di una luttuosità glassata, imbiancata a cielo aperto, da ciò che non saprà mai di mostrare - se non come effetto intrinsecamente celibatario e acefalo – da ciò che non potrà mai manifestarsi se non come l’atto in atto che si rimuove, incancellabilmente in fieri, attraverso tutto ciò che si iscrive di sé. L’atto irrelato come causa sui non è un’apoteosi mortuaria ma un processo vivente, la continuazione ottusa, il tratto quantico di una kenosi che non può non presentare la partenza, come scrive Nancy,” inscritta in ogni presenza, la presenza per presenta il suo congedo” attraverso il brulicare intensivo di sé. La forma, ci si chiede con Bergson, altro non è allora che un’istantanea presa su una transizione in cui appare altro senza che ci sia stata mancanza? Atto in atto tra il sempre già chiuso di sé aperto sul proprio aprés-coup e il sempre già aperto di sé chiuso sul proprio avant-coup?

OSSO

Lutto bianco: meno nato morto che nato vivo, succeduto in precedenza da un contraccolpo rimbalzato da tutta l’eternità come irreversibile processo in fieri, evacuato in sé stesso dalla sua possibilità solo virtuale come abbandono autoassimilativo dallo stesso allo stesso: Lutto incorporato, la causa persa e ritrovata a terra, sepolta viva, come l’oggetto qualunque dell’inconscio a cielo aperto della pulsione sempre più aperta nel chiuso più inaccessibile, dove, scrive Campo, “l’effettivo reale (del processo) è il fine e non il mezzo”. Esattamente come accade, mentre accade, nella giaculatoria ‘ Io sono morto’, ripetuta, sempre per la prima volta, da Mr. Valdemar nel racconto di Poe, questa falsa dicotomia di cui dicevamo sopra andrà dimenticata, come soleva insistere Lacan, a condizione di servirsene, a condizione di rovesciarla – come il guanto su cui insisteva Merleau-Ponty, d’invertirla lasciandola esattamente al suo posto, al suo stato a luogo preriflessivamente atopico come la lettera rubata, nel racconto di Poe, nascosta nella più oscena visibilità dove non si può non trovarla…mai. In maniera analoga, tutta spostata dalla parte del virtuale, qualcosa di quanto premesso s’intravede nel dispositivo installativo della recente personale di Diego Marcon al Centro Pecci di Prato che, proprio a scanso d’equivoci, nel nostro caso dicotomici, ha deciso d’intitolare, callidamente, GLASSA : una sorta d’ingranaggio olistico che tiene in equilibrio, come in una corda tesa, l’intrinseca palindromia esotopico- ordinale - non cardinale - dell’attualità virtuale del processo e l’irrilevanza attualizzata di quanto in essa non può non manifestarsi in ciò che Deleuze chiama, attraverso Beckett, “lo spazio qualunque”, in cui si tratta, continua il filosofo francese, di “ricoprire (glassare) tutte le direzioni possibili, pur andando dritti”.

E CARBONIZZINO BRACE

L’etimologia di questa parola deriva dal francese glace, ghiaccio, rivestimento, indurimento e generalmente indica il versare sopra, il ricoprire, il tumulare, il seppellire insomma. Sempre in francese, sulla scorta del celebre testo diadico, a due colonne, dedicate rispettivamente a Hegel e Genet, che Derrida ha intitolato GLAS, questa parola rintocca, si fa rintocco, e precisamente rintocco funebre. Sonner le glas: suonare le campane a morto. Anche in questo caso, tutto converge, come nella mostra di Marcon, ma oserei dire in tutto il suo lavoro, verso la sepoltura clandestina – né prematura né fuori tempo massimo - di qualcosa. Di cosa poi? Cosa e soprattutto come si tratterebbe di immobilizzare, di tumulare, di tassidermizzare e in fondo di tautologizzare in tale gigantomachia della grande salute “nel mutismo degli organi” (Leriche)? La tautologia naturante – ciò che Hofmann rilevava similmente in presenza delle effigi in cera, “veri e propri monumenti eretti alla morte in piedi, alla vita mummificata” - intesa qua come il processo virtuale, non è forse il tentativo di uccidere la frontalità aplat, scopicamente bidimensionale, della morte stessa come segno- aggetto referenziato e referenziale; ciò che Wolfflin denomina effetto malerisch per designare il pittorico in opposizione al lineare, la massa in opposizione al contorno? Morte che non muore questa, se non immolandosi nella carta moschicida di un fenomenismo escatologico – ricapitolativo, sempre alla ricerca della correlazione perduta e quindi introvabilmente mancante; intrascendibile conseguenza dicotomica della vita presunta mediante ciò che in fenomenologia si chiama, riflessivamente e in extremis, fenomeno. Fenomeno correlativo in quanto scotomizzante, via remotionis, per antonomasia: vita – morte, coscienza – mondo attraverso il cardine indissolubile dell’esperienza posta preliminarmente come mero oggetto prensivo empirico-realista. Esso, parafrasando Ronchi, appare quando, invece di guardare semplicemente la realtà, mi guardo guardare mentre la guardo (percezione, memoria, immaginazione: tutti ingranaggi visivi, trappole scopiche disseminate nel tentativo di sventare l’irrompere irrelato dell’anamorfosi del monstrum noumenico - si pensi solo a cosa capita, a cosa si ri-cerca nell’ablefaria (senza palpebre) integrale del cinema horror, dispositivo che ribatte insistentemente, e tautologicamente, ciò che accade all’ibrido protagonista della Tana di Kafka e alla mise en place dei suoi infiniti carotaggi tesi alla comprensione-sublimazione-rimozione di chi o di ciò che lo minaccia da vicino, troppo da vicino, mediante una vicinanza assolutamente non posizionale - attraverso la tela di ragno dello schermo noumenicida, del debito doppiaggio pro – de - iettivo, naufragio con spettatore dell’escalation fenomenica, presupposta a priori, della coscienza con il mondo-noema da ristabilire (l’attenzione alla scena come accade all’interno di una scatola prospettica rinascimentale, congegno molto presente, non a caso, nell’architettonica hitchcockiana) come esperienza di qualcosa che è per lei e che ne costituisce il suo punto di fuga precipuo e normodotato, meglio, normomontato dal vanishing point. Un esempio su tutti: un ingessato Jeff che in Rear Window di Hitchcock, non cessa di compulsare la finestra-correlazione che ha di fronte, alla ricerca della materializzazione del fenomeno criminogeno che lo confermi, scrive Florenskij, “soggetto trascendente regnante proprio della concezione kantiana del mondo”. In questa inesausta ricerca della prospettiva perduta si trova a dover scrutare la finestra spalancata del presunto omicida che non gli rimanda nient’altro che buio (forse l’effetto malerisch a cui alludevamo), nient’altro che non-azione, mediante la quale nessuna penetrazione, prensione soggetto-oggetto-mondo sarebbe stata possibile. Ma ad un certo punto, fiat lux, venne la luce: il fenomeno cicatriziale batte finalmente un colpo attraverso la comparsa di un debole e intermittente puntino rosso che altro non è che il ritmo d’aspirazione della sigaretta che Lars Thorwald sta fumando allo scuro, credendosi così al riparo di sguardi. Qualcosa o qualcuno si è fatto vivo, e l’horror pleni dell’horror vacui che manca di nulla, contro cui il punctum del fenomeno di combustione cremisi era stato evocato, è stato sventato. La roccia della rimozione e della correlazione prospettica è di nuovo, difettivamente e stabilmente mancante al suo posto, il punto di fuga ripristinato, in modo tale che Jeff, come scrive Agamben “ da pura parabasi, potesse finalmente affrancarsi, continua Agamben, dall’uscita dalla scena, dalla storia, dalla fatua inconsistente vicenda in cui si vorrebbe implicarlo”, imprigionandolo così nella caverna dello spazio striato della scatola prospettica mirabilmente richiamata e ricamata dal regista inglese.

A RITROSO SORTIRA’

Non commettere e quindi omettere atti puri? Infatti ciò che si chiama “fenomeno, continua Ronchi, non è che l’essere della cosa relativamente alla coscienza che la sta guardando in quel determinato modo”, forcludendone il processo, il taglio in atto, il fumo senza – messa a - fuoco, la tumulazione in media res, la differenza di natura del virtuale noumenico di cui il grado fenomenico, l’identificazione speculare, (l’imago narcisistica di chi guarda, riguardato dal suo guardare) non è che il passaggio all’atto intrinseco, il suo non poter non, non avendoci niente a che…guardare attraverso il vedere. Da qui, da questo vis a vis derisorio dall’iconico all’icomico, tautologicamente, correlativamente e dunque comicamente invertito nel jeu lugubre della dormienza dei cani morti appesi alle pareti ad altezza di sguardo - a guisa di scena primaria, intrinsecamente traumatica, di ogni fase dello specchio - di Marcon, non si dà forse adito, profondamente, alla questione di Merleau-Ponty che recita, “Capovolgere un oggetto significa privarlo del suo significato”? Nella massa in scena palisincronica di GLASSA non si attua forse la schisi, dal concetto di scatola prospettica - alla base di ciò che rilevavamo sopra anche a proposito dell’aspettualizzazione diacronica nel cinema horror - a quello che si potrebbe definire di scatologia palindromica? E capovolgere, invertire, palindomizzare, carnivalizzare. buttarla sul ridere bergsonianamente inteso, non assomiglia a quella sorta di tanaoprassi o parabasi (altra inglassatura) che Fontana esegue, portando il kitsch, altrettanto derisoriamente, cosmeticamente, al di qua del suo effetto e della sua causa, nella serie Fine di Dio? E, a proposito di cani morti appesi, cosa dire dell’effetto devastante che il cristo morto di Holbein, suscita su Dostoevskij, costringendolo a variare il punto di vista (salire su una sedia per compulsarne la frontalità in occasione di una sua visita al museo di Basilea dove il quadro è appeso), o meglio, punto formicolante di vita, in cui il sincronico cieco delle reciproche relazioni,”sono colte nella sezione di un solo istante” scrive Bachtin a proposito dell’Idiota, romanzo nel quale questo quadro-palindromo di Holbein ha molta parte in causa nel tragitto vicissitudinale del principe Myskin? E non è ciò che Beckett dice, quando fa dire: “Più azzurro finito l’azzurro” in cui si mostra il non poter non, sempre in esercizio, che pongianamente effettua il divenire “fuori uso della metafora”?. E infatti cos’è d’altro quella “scatologia scultorea” di tale serie, come la chiama Bois nel suo libro sull‘informe, in cui, attraverso una sorprendente assonanza tautoforica con il lavoro di Marcon qua analizzato, l’autore parla proprio di “accento culinario messo sul pigmento come crema, trattato come glassatura da pasticceria”? Glassare, palindromonimia generalizzata, una palindromachia metastatica senza direzione, senza fine e senza fini mimetici - da mimesis, reperimento intenzionale che non ha nulla del mimetico assoluto del modulo, senza alcuna referenza - che ha infestato di sé ogni cosa, ogni predicato, ogni nome. Tale neghentropia processuale e affatto cinetica, nel lavoro di Marcon, si fa monodia d'individuazione palindromicida, congegno di “morte permanente”, scrive Kristeva, ricapitolando, con parole sue, il leit motif che dalla sapienza antica giunge fino alla presunta modernità: “la sfera il cui centro è ovunque, e la circonferenza in nessun luogo”, limite attuato in atto, aggetto di determinazione sincronica di un contenimento in fieri secondo la pura apparizione dell’essere integralmente avvitato nelle spire della propria manifestazione infrarevulsiva, lasciando insistere, scrive Bailly, “per ciò che è il fondo che in quel momento risale”, rendendo in questo modo il contenuto quidditativo non ulteriormente comunicabile.

OSSESSO

Glassa-tura quindi che approfondisce la presenza - talità beante - per renderla sconosciuta. " Lusso pericoloso tra natura e cultura", come definisce il divenire involutivo della mimesi pura, Andreas Becker. Divenire che, deleuzianamente, non diviene in quanto atto puro che nessuna mimetizzazione riuscirà mai a - non - mimetizzare, formando così "un blocco che fila secondo la propria linea". La GLASSA, contagio mimetico, ottura, c-ostruisce, cola, invade, infesta e seppellisce la morte della morte mostrandone, glassandone il teschio, ciò che nemmeno la morte riesce a decomporre, Qua infatti la morte non conferisce alcun senso, non sanziona, “non c’è sanzione”, scrive Lacoue-Labarthe. La GLASSA im-moni-zza, più che immunizzare, secretando e secernendo ad un tempo, il fundamentum assoluto di un atto-prototipo perfetto che manca di nulla e nel quale s’ingenera quell’esperienza postuma senza passato, aprés – coup, di un passato senza alcun passato che non sia effettivo processo monogenetico, inesperito ed inesperibile e che perciò non può non perdurare in ogni attualizzazione come la sua pulsione incessantemente battente: individuazione in atto non riproducibile. L’atto incoato in Marcon ribatte, riveste, fodera e immette, segretamente, all’interno del fenomeno (sotto la pelle c’è il frac, diceva e faceva bene, Bene), attraverso una praxis inesausta di ecolalie palindromiche non posizionali, ciò che Abraham e Torok, due psicanalisti ungheresi, hanno ribattezzato ‘incorporazione criptica’. La cripta assolve il compito di tumulare, di tenere ben sigillato, non un noumeno di meno, un trauma di fatticità atarassica che il paziente stesso non conosce ed anzi ignora completamente ma che nondimeno agisce al suo interno condizionandone, nella più irriducibile ed anomica alterità, ogni suo agire ed intendimento. Il cantus firmus incalcolabile della cripta s’incorpora e agisce, né viva né morta, solo a condizione di essere, non ignorata, ma totalmente ignota, inesperibile ed inallogabile topica d’immissione abusiva che fa eccezione di sé in sé, intrusione per rigetto – in camera caritatis - di cui non si può rendere conto se non incarnandone il sinthomo attuoso di cui parla Lacan: il torso reale irriducibilmente isolato, corpo senza organi, pezzo staccato, incorporato vivo e non introiettato morto, il cui maneggiamento incomprensibile, inaudito, impassibile non si rivela essere che il trauma, la GLASSA anestetica che asseconda l’attualità di natura della virtualità dell’evento: monogramma inassimilabile che circoscrive l’essere al verbo della sua emissione – imitazione attiva di ciò che è in atto, di cui Lorenzaccio di Bene rende perfettamente l’economia dell’urto o incidenza aprés-coup - adattamento all'atto pietrificantesi al di qua del suo destino di pietrificazione, come ricaduta di e in un “punto di riduzione in cui non c’è più niente da fare per analizzarlo” (Miller).


E’ LA TELA LETALE

Si formano e fermano così, continuano Abraham e Torok, grumi di tanatosi immunizzate, detumescenze anasemiche, parassiti criptolalici che ostacolano il ritrovamento della tomba, il tentativo del criptoforo (il portatore inconsapevole di cripta) di violarne, diacronicamente, la sepoltura che nessun tempo riuscirà mai a darsi il tempo di estumulare, discretizzandosi da fenomeno a fenomeno. La criptosemia d’immanenza ordinale, nel capovolgere il senso e il senso del senso, comporta una conversione, ma una conversione tale da inerire a tutt’altra cosa che la riduzione fenomenologica; essa è, come indica Whitehead, “la durata totale che è sempre in atto, perfettamente compiuta, in ogni momento”, parola – cosa, rimozione conservatrice esclusa all’interno nel suo dentro, ciste sigillata, intatta di un enclave clandestino murato vivo che non accetta né trasgredisce alcunché se non l’atto puro, ci ritorneremo, pur-ificato di cui ciò che non può non comparire se non come mero portavoce irriducibilmente inconscio, lo zimbello o ritornello virtuale che avrà dovuto inventare l’anonimato prototipico del processo monomorfico che gli preesiste anonimamente, individuandosi, aprés-coup, in ciò che, per parafrasare un celebre adagio di Lacan, resta completamente dimenticato e quindi sepolto vivo, dietro ciò che si dice in ciò che si intende. Il vivente assoluto del processo in atto non decede mai perché non manca di nulla, non capta privazioni compensative di sorta, si dà senza intercessioni o arresti, come capacità di autodemolizione attraverso l’irripetibilità del suo essere medesimo a sé, nel rovescio in atto della decomposizione privativo- speculare ri-animata dal fenomeno: esso non incontra mai qualcosa come altro – addenda o sottrazione che sia – o come differente da sé; esso, come il cadavere blanchottiananente e marconianamente inteso, si è sdegnosamente ritirato da noi, rassomigliando a se stesso; “completamente rassomiglianza” nel processo in fieri del proprio calvario – il non poter non - aprés-coup. L’atto in atto che rassomiglia dunque a sé stesso? Rassomiglianza che sfugge al campo visivo in quanto “l’inscrizione dell’inscrittibile non si vede” (Derrida)? In quanto ciò che fa avvenire non può essere in sé mimetico se non attraverso impulsionalita' sodomitico - simulacrali di atti in atto che, klossowskiamente, insistono a mettere a morte ogni istinto di procreazione assistita, a cui si può assistere moltiplicando gli esempi come incitamenti all’imitazione? La forma rassomigliante della concrezione dell’atto anipostatico non è dunque confrontabile, scrive Freud a proposito dell’ereditarietà incorporata viva di cui non si ha la minima cognizione, “con quella del moltiplicatore nel circuito elettrico, che aumenta la deviazione visibile dell’ago, ma che non può tuttavia determinarne la direzione”?

E’ CORTA E ATROCE

L’atto dunque la GLASSA dunque la chora platonica: il paradossale ricettatolo che nel Timeo viene solo dopo attraverso il suo prima sempre in atto sul suo atto, né passivo né attivo. Il presente in movimento interminatamente atrofizzato nel proprio mosso – di natura – imponderabilmente in atto, in cui ogni cosa, nota Campo a proposito di chora, “termina traboccando dal suo topos per divenire conoscibile sub specie aeterni”, in una morte viva incistata nel fuori più esterno del dentro più inaccessibile della vita della morte, senza accesso né uscita; mortilegio palindrocorico an-as-emico (basti pensare all’omonimo anzi all’ononim-ic-o film-odradek duchampiano – Anémic Cinéma - incriptato come una sorta di convitato di pietra sepolcrale in ogni lavorio dell’artista, alla Pop art, altro palindromo, che ha saputo spingere, glassare, imbr-attare la copia, la copia della copia e così via, fino a quel punto estremo, scrive Gambazzi, “in cui essa si capovolge e diventa simulacro” o al montaggio intensivo della Cappella Albertoni di Bernini denominato bel composto, in cui pittura, scultura e architettura danno vita ad una sorta di campo d’immanenza che li traversa e collega senza essere omogenei al loro modo di significare e la cui funzione, come accade tautologicamente in GLASSA, è quella di “denominare, codificare, generalizzare e rendere accessibili attraverso metafore codificate, ciò che, seguendo un movimento in senso opposto, tende al singolare puro che si sottrae alla presa del nome, della generalizzazione e, al limite, dell’interpretazione” (Careri) che resta in gola, secernendo senza posa l’antidoto preriflessivo – senza alcuna apposizione e opposizione fenomenico – correlativa – di un attonimia crittogrammatica che non si farà mai sorprendere a delimitarsi, a suturarsi enunciando se stessa prima di enunciarsi. Il mortilegio come pura differenza di natura, nella sindrome necessariamente non posizionale – palindromica scavata in superficie da Marcon, giunge a se stesso a partire dall’enunciazione che si dilapida in presenza, senza alcuna privazione, senza alcuna mediazione o piegatura riflessiva, in un giogo mimetico-analgesico e astenico assoluto in cui scrive Lacoue-Labarthe, “il gioco mimetico esibisce la simulazione per se stessa che alla fine non di distingue più da nessun reale”, senza alcun tripode referenziale e inferenziale su cui poggiare lo sguardo se non presupponendo, ancora per la prima volta aprés-coup, senza dunque alcuna entelechia, esperienza esperibile che ci attenderebbe al varco – della quale, chiosa Gentile, “si dovrà pur dire che essa, finché è in atto, risulterà nuovamente inoggettivabile” (macchia cieca e sepolta che fonda e fonde ad un tempo la visione restando però oscenamente in ombra, incorporata nel processo acefalo attraverso e nonostante tutto ciò che non potrà non manifestarsi).

INANI

In questa sorta di topologia dinamogena in cui le singolarità, scrive Deleuze, “possono comporsi come un muro di pietre libere, non cementate, in cui ogni elemento vale per se stesso e tuttavia in rapporto agli altri gruppi isolati e relazioni fluttuanti, isole e inter-isole, punti mobili e linee sinuose”: il fondo affiora in superficie senza cessare di restare sepolto vivo mediante scatologie catatoniche oggettificantesi ottusamente, come spiega Lacan a proposito degli oggetti piccoli a nella sindrome di Cotard (dal nome del neurologo francese che la scoprì), chiamata anche ‘sindrome del cadavere che cammina’, in cui gli escrementi, il seno, lo sguardo, la voce…e la glassa sono tornati a far parte di questo protoplasma uroboro - come nessun-modo compatto - pseudopodo monomorfico di blocchi amebici di anti-memoria, di anti-fantasia, invece di essere da esso separati dall’incisione che i significati le infliggono. Per esprimerci sempre avvalendoci della lingua francese in questo caso particolarmente versatile a questi tipi di abbrivi, potremmo far valere per GLASSA la distinzione tra object pur e object pour; oggetto puro e oggetto per. Oggetto per dove il per sta per il telos da cui si diparte qualcosa come un soggetto per un altro soggetto che fa da punto d’arrivo. La stessa differenza la si ritrova, sintomaticamente, nella foronimia acustica del neonato, attraverso il cri pur e il cri pour; urlo puro anasemico il primo e grido per interpsichico il secondo, teso questo alla ricerca della negoziazione neonevrotica della con-fusione perduta che si tratta di riattivare attraverso lo stratagemma della contrazione del patto del negativo, del privativo, della finitudine, del manque à etre. Oggettificazione pura come potenza del falso questa di Marcon, rinvenuta nell’ebullitio di un fort/da palindromico di una litania coreica sgranata in bocca tra un falso inizio e una falsa fine; falsificazione intesa qua come affermazione assoluta di una tardività segnica che non può che arrivare sempre troppo tardi nel proprio essere sempre stato qua, reificata nell’anticipo zeitlos, aposizionale e attuoso - sepolto vivo - che Deleuze chiamerà “il precursore buio” e Sartre “il passaggio nel pratico – inerte”, ossia la modulazione vivente, la trasduzione assoluta (la cura di sé di matrice foucaultiana retroversa ontogeneticamente nel dispositivo d’immanenza tecnico-estetico - estetico qua da non confondere con l’estetica - come individuazione in atto su cui riflette Simondon in ordine al concetto d’implicazione cibernetico: il saperci fare nel pilotare la nave in porto nonostante il mare e per di più in tempesta…in un bicchier d’acqua) che non promette e premette alcun nostos che non sia la primavoltità assoluta d’indeterminati determinanti individuantesi nella risacca incoativa del trascendere dell’organismo nell’inorganico disinteressato, glassato nell’anticipo virtuale come perenne aprés-coup, fungente e cieco come una talpa.

E’ CANE TENACE

Tutto ciò, come indica precisamente James, “scorre per interi”, proprio come accade, sincronicamente e in massa, in GLASSA, in cui il dispositivo infrapalindromico non è più una porta -finestra (dietro la quale), né un quadro-piano (nel quale), ma una tavola d’informazione sulla quale scorrono, in transizione, le immagini come dei dati; le foucaultiane “cose dette”, l’archivio virtuale che non cessa di varcare a monte la linea del possibile o diventare-altri. Infatti, continua il fratello di Henry, “se in natura non vi fossero altri modi di ottenere le cose se non per mezzo dell’addizione successiva delle parti logiche, nessun tipo di unità completa o di cosa intera verrebbe mai in essere, perché la somma delle frazioni lascerebbe sempre un resto”. Cosa intera-mente virtuale potremmo dire, l’inverso irreversibilmente e automaticamente palindromicida e non dicotomico (accennavamo sopra al dispositivo acefalo e a questo punto ipopalindromico intentato dal roditore della Tana – la cui sommità è, guarda caso, coperta di strati di gelatina e che da fuori sembra un gran buco che non porta in nessun luogo - di Kafka…e di Marcon, attraverso l’escavazione inesausta di labirinti e vicoli ciechi, loop spazio-temporali in cui ogni traiettoria risulta già da sempre attuata in tragitti che in conclusione altro non possono fare che condurre alla dossologia omnipalindromica che potremmo tranquillamente posizionare come controcanto, sottotitolo, controfirma o working title di tutta la strategia dell’artista: “Tutto invece è rimasto immutato”, senza storia), l’inverso contra-ffatto per natura, e non per grado, di ciò che balugina a morte, troppo a morte, (morte virtualmente intesa), nella cosiddetta mise en abyme della funzione che, secondo Foucault, permette l’istituirsi del discorso, della barratura, della lontananza, della malinconia, della luogotenenza, della sagomatura di un morire transitivo confermato, sempre di nuovo, nella resurrezione transferale, nella ritenzione o traccia che, derridianamente, si aspetta da per sempre al proprio morire sempre già morto a posteriori, da distanza a distanza, in un altro grado. L’è stato invece, nel gl-ossario coibentato di GLASSA, si rivela, in prima istanza, non poter non che essere, virtualmente, l’è stato in atto perfettamente conchiuso di una sterilità senza risguardo dove non si trova nessun appiglio, nessuna steresis, nessun fallimento o riuscita teleologica a cui appellarsi per decifrare meglio, ma criptonimie assolute, risolute ed irreversibili che sanciscono, una volta per sempre incoativamente, nonostante e attraverso di sé, la causa sui, il cul de sac, la durezza ottusa, l’irrompere acronico di una totalità rizomatica chiusa o completa di condizioni, la “possibilità totale” (Hartmann) secondo la quale si è portato ad assimilazione e ad esaurimento (sepolto vivo nescio quomodo) tutto il lotto dei segni, nel cui dispositivo-sacello, come sottolinea ancora il filosofo tedesco nel suo saggio capolavoro Possibilità ed effettività, “ è esattamente possibile solo ciò le cui condizioni sono tutte meno necessarie che effettive, sino all’ultima”.

I TOPI NON AVEVANO NIPOTI

La figura si è dissolta – gli spettri esorcizzati - realizzando così la profezia immanente meno inscenata che oscenata ribattuta da Marcon: tu non sarai che ritmicità d’incistazione palindrolalica in cui non si vede più nulla; il modo - come accade al Papa di Bacon che urla dietro e sotto la tenda malerisch - che fa sì che la figura stessa, più che lo spettatore , non veda più nulla e, parafrasando Deleuze, urli di fronte all’invisibile irrelato dell’atto in atto totalmente collerativicida che ne esautora il lotto dei segni. Completare il lotto dei segni, completare la copertura che non può essere tolta: ecco il proprium monomorfico della topologia ordinale oramai protopalindromica (l’equidistanza assoluta di una reversibilità puramente attuosa, come accade, senza accadere, all’asino di Buridano, vero e proprio apriti sesamo al fondo dell’operazione dell’artista; l’equidistanza - come il simulacro, “sta in mezzo, ma in un mezzo che non conosce alcun estremo, alcun termine, alcun bordo”, scrive Leoni - bloccata nell’automaton del proprio atto che de-termina, nota giustamente Bailly a proposito del dispositivo di stordimento anagrammatico dell’animale, “l’insieme di tutte le strategie di fuga grazie alle quali gli animali attraversano le apparenze e le rovesciano”) che si glassa e ripete, sempre per la prima volta, senza alcun accadimento che non può (non) accadere, nel saperci fare in actu exercito virtuale in cui insiste, e non consiste, il piano d’immanenza assoluta di Marcon; produrre tutte le condizioni affinché l’atto cada improvvisamente come “un frutto troppo maturo”, scrive Bergson, dall’albero nevrotico fenomenico-correlativo. Spazio liscio, sahara integralmente attificato, finalmente glassato, che sottomette assolutamente ogni apparente gioco di accadimento, una struttura di ripetizione e compulsione che, scrive Krauss a proposito del cadavere intensivo e topologico batailliano nella sua diatriba contro quello squisito, ritoccato (e non rintoccato… a morto) dell’autoeffige di Breton, “automatizza e programma il campo in rapporto alla morte” in una virtualità perplicata in stato metastabile, spatium come differenza in sé comprendente tutti i propri gradi nella produzione di ciascuno di loro. L’oggetto, il corpo immenso, cade - l’oggetto che ac-cade, già accaduto, in ciò che accade – quando la totalità, per esaurire il possibile ha, come indica Deleuze, ricondotto i possibilia alle parole, agli oggetti , ai cosi che li “designano per disgiunzioni incluse, all’interno della combinatoria, incriptata virtualiter, delle condizioni indispensabili all‘evento-sinthomo parretico effettivamente integralizzato: "non può finché non deve; deve appena può”, conclude, una volta per tutte…in bikini, Hartmann.

Intanto la candela, con il vacillare dei chiarori sul libro nel
brusco sprigionarsi dei fumi originari, incoraggia il lettore
-poi si inclina sul suo piatto e affoga nel suo alimento.

Francis Ponge

Alessandro Sarri


Bibliografia:
Nicholas Abraham - Maria Torok, Il Verbario dell’uomo dei lupi, Liguori, 1999
Jean-Christophe Bailly, Il partito preso degli animali, Nottetempo,2015
Carmelo Bene, Lorenzaccio, Nostra Signora Editrice, 1986
Henri Bergson, Materia e memoria, Laterza, 2009
Yve-Alain Bois, Rosalind Krauss, L’informe, Bruno Monadori,2003
Mireille Buydens, Sahara, L’estétique de Gilles Deleuze, Vrin, 2005
Alessandra Campo, Fantasma e sensazione. Lacan con Kant, Aesthetica,2020
Giovanni Careri, Voli d’amore, Architettura, pittura e scultura nel “bel composto” di Bernini, Mimesis, 2017
Hubert Damisch, Teoria della nuvola, Costa&Nolan, 1984
Manuel DeLanda, Scienza filosofica e filosofia virtuale, Meltemi,2022
Gilles Deleuze, L’esausto, Cronopio,1999
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Gilles Deleuze, Felix Guattari, Mille piani, Castelvecchi, 2003
Jacques Derrida, Glas, Bompiani, 2006
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Paolo Gambazzi, L’occhio e il suo inconscio, Raffaello Cortina, 1999
Nicolai Hartmann, Possibilità ed effettività, Mimesis, 2018
William James, Saggi sull’empirismo radicale, Mimesis, 2023
Franz Kafka, Tutti i racconti, Mondadori, 2017
Philippe Lacoue-Labarthe, Il ritratto dell’artista, in generale, Il melangolo,2006
Federico Leoni, Henri Bergson; Feltrinelli, 2021
Jacques-Alain Miller, Pezzi staccati, Introduzione al seminario XXIII “Il sinthomo” di Jacques Lacan, Astrolabio,2006
Jean-Luc Nancy, L’intruso, Cronopio, 2000
Jean-Luc Nancy, Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo. Bollati Boringhieri. 2005
Francis Ponge, Il partito preso delle cose, Einaudi, 1979
Rocco Ronchi, Gilles Deleuze, Credere nel reale, Feltrinelli, 2015
Jean-Paul Sarte, La trascendenza dell’ego, Marinotti,2011
Gilbert Simondon, Immaginazione e invenzione, (1965 – 1966), Mimesis, 2022
Victor I. Stoichita, Effetto Sherlock, Il Saggiatore,2017
Alfred North Whitehead, Processo e realtà, Bompiani, 2019

 

Diego Marcon Glassa
Glassa
A cura di Stefano Collicelli Cagol ed Elena Magini
Site Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci 30 settembre 2023 – 4 febbraio 2024
@ 2023 Artext

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