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Palazzo Strozzi
Olafur Eliasson
Nel tuo tempo

 
Olafur EliassonOlafur Eliasson, Under the weather, 2022, Cortile di Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio

Olafur Eliasson
NEL NOSTRO TEMPO
di Arturo Galansino

Questo progetto è cominciato molti anni fa, quando Olafur Eliasson visitò per la prima volta gli spazi di Palazzo Strozzi. Allora non sapevamo quali ne sarebbero stati gli esiti e nemmeno quali sarebbero state le direzioni da intraprendere. Non lo avremmo saputo ancora per molto tempo a venire. Ricordo però che durante quella prima ricognizione fiorentina, nel 2015, l’artista non smetteva di osservare gli elementi architettonici rinascimentali, i capitelli e i portali di pietra serena, saliva i gradini per affacciarsi dalle bifore e volgere lo sguardo, oltre i vetri piombati spessi e irregolari, sulle strade adiacenti e la piazza antistante. Da quelle vestigia, giunte fino a noi da un lontano passato, cominciava una lunga conversazione tra Eliasson e il palazzo quattrocentesco, un dialogo complesso il cui senso si riassume nella esposizione odierna. Per la sua importanza storica e per i significati che incarna, Palazzo Strozzi non può essere un contenitore neutro e, grazie al lavoro dell’artista e alla partecipazione dei visitatori, esso diventa portatore di senso e co-creatore della mostra stessa. Nella serie di installazioni che costituiscono il percorso espositivo, infatti, il palazzo diventa un luogo di incontro tra l’architettura e la sua storia, le opere e le persone, lo spazio e, appunto, il tempo.

Nel tuo tempo vuole essere un viaggio attraverso il “nostro” tempo, ovvero il tempo del luogo a cui si vuole dar voce e il tempo dei visitatori, sia a livello individuale che collettivo, composto dalle loro percezioni e memorie, dai loro sensi e pensieri. Nonostante sia espresso da una posizione privilegiata, anche il mio punto di vista, il “mio” tempo, contribuisce alla grande operazione collettiva che è questa mostra e, da storico dell’arte, vivo questa esperienza attraverso i miei filtri e le mie conoscenze, cercando echi di antiche pratiche e teorie che risuonano in quelle dell’artista.

Olafur EliassonOlafur Eliasson, Triple seeing survey, 2022, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


Vista la sua attività nel campo dell’architettura, i suoi interessi per il mondo scientifico e tecnico, per le indagini sperimentali e per la centralità che la psicologia e le percezioni umane hanno nel suo lavoro, si riempiono particolarmente di senso gli interventi di Eliasson nell’edificio simbolo dell’Umanesimo. Nella storia dell’arte è infatti il palazzo fiorentino, nella formulazione perfetta e assoluta di Palazzo Strozzi – come modello astratto, sintesi formale e rappresentazione ideale di un rigoroso e razionale metodo compositivo fondato sulla geometria e sulla matematica – a riassumere il valore dei contenuti teorici e metodologici di questa rivoluzionaria epoca storica. [ ]

Seppure si tratti della prima volta che Eliasson si confronta con un palazzo rinascimentale, in passato egli aveva già riflettuto sul rapporto tra l’edificio che ospita una mostra, soprattutto se di particolare rilievo, e la percezione dei visitatori:

Quando l’edificio viene percepito come un’icona (dell’architettura) – un’immagine rappresentativa e statica del buon gusto o addirittura un salone sacro e oggettivizzante – il coinvolgimento dei visitatori è puramente formale. E la loro sensazione di presenza viene assorbita in una narrazione sospesa della conoscenza (quindi un dislocamento nel quale il tempo atmosferico che è al di fuori non fa alcuna differenza). È come relazionarsi e discutere con l’edificio senza la componente più rilevante: la durata oppure, ancora meglio, il tempo cronologico. Il tempo del visitatore – il tuo tempo. Ci vuole del tempo per camminare […] in ogni singolo spazio espositivo nell’edificio. Sperimentare gli spazi, muoversi in loro, approfittare del tuo senso del tempo, ti dona il beneficio della presenza – di possedere un corpo. Spostarsi e interagire con l’ambiente circostante è, infine, ciò che costituisce gli spazi1.
[continua]

1 - Cari Visitatori, in Leggere è respirare, è divenire. Scritti di Olafur Eliasson, a cura di M. Puente, Milano 2021, pp. 11-15: 13.

Olafur EliassonOlafur Eliasson, Tomorrow, 2022, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


Percepito, esperito, vissuto!
Olafur Eliasson

Rifletto meglio quando sono in compagnia di altre persone. È come quando nuoto in acque agitate: l’attrito delle onde e delle correnti mi mantiene concentrato, mi tiene a galla. E in pratica è sempre stato così. Saggio le mie idee osservandole attraverso gli occhi, le menti e i corpi degli altri; mi aiuta a comprendere quello che sento, ciò che penso e quello che mi piacerebbe o non mi piacerebbe fare.

Me ne sono accorto per la prima volta negli anni novanta. Stavo facendo un’escursione in Islanda, camminavo da Landmannalaugar a Thórsmörk, forse per la decima volta: l’itinerario mi era ormai estremamente familiare. La mia compagna dell’epoca, l’artista Frances Stark, mi accompagnava nell’escursione e il suo entusiasmo e le sue acutissime percezioni – la sua capacità di concentrare tutta la sua attenzione in modo quasi chirurgico su una pietra, oppure di dedicarsi alla dettagliatissima esplorazione di un pezzo di muschio – mi rivelarono il piacere puro dello stare insieme, del condividere un’esperienza con e per tramite di un’altra persona. Ci scambiavamo impressioni su quello che vedevamo ed esploravamo il significato reale dell’esperienza visiva. Grazie a questa esperienza mi sono persuaso che fare le cose insieme può essere significativo in molteplici modi.

Questo tipo di scambio avviene quotidianamente nel mio studio. Attraverso le mani e le menti dei membri del mio team – fabbri, falegnami, artigiani, architetti, designer, cuochi e artigiani delle parole –, riesco a riflettere sui materiali, sulla ricerca della forma, sulle caratteristiche di un luogo, sulle implicazioni sociali di un progetto e così via.

Olafur EliassonOlafur Eliasson, Just before now, 2022, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


Nel corso degli anni ho anche tratto ispirazione da un gran numero di pensatori, ricercatori e scienziati: filosofi, antropologi, geografi culturali, biologi, botanici, ballerini, scrittori e molti altri ancora. Leggere quello che scrivono mi aiuta a esplorare il mio rapporto con il mondo circostante, con le comunità di cui faccio parte, con la società e i tempi in cui vivo. Attraverso di loro riesco a lavorare in modo da rendere visibili e percepibili queste reti e queste connessioni.

A dire il vero, non sono mai stato un gran lettore, ma sono bravo a riportare alla mente citazioni tratte da questi testi sotto forma di immagini; la forma di un libro, il colore di una pagina, dove mi trovavo mentre leggevo una cosa che mi ha colpito: queste sono le sensazioni che mi rimangono impresse. È così che mi avvicino alle idee degli altri.

A volte applico un procedimento attraverso il quale faccio sì che in un’opera d’arte riecheggi un’idea testuale. Oppure mentre pianifico una mostra trovo uno spazio all’interno del progetto per collocare idee provenienti da libri che mi hanno colpito. Mi sforzo di rendere meno netti i confini e di affrontare prospettive plurali una alla volta, danzando con – e all’interno di – un processo che potrebbe condurre a qualcosa, a una proposizione artistica.

Olafur EliassonOlafur Eliasson, How do you live together?, 2019, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


Quando, dopo qualche tempo, riprendo in mano l’esperimento artistico, la memoria fisica di questa danza che ho intrapreso con le idee, i materiali e le forme mi riporta completamente a quell’opera d’arte o a quella mostra. L’incorporazione dell’idea è cruciale. In questo processo di allontanamento e riavvicinamento all’opera d’arte posso inoltre saggiare l’accuratezza della mia visione del mondo, esaminare i miei punti ciechi e sposare le mie incertezze, cosa non sempre possibile quando lavoro nel mio studio.

Ho quindi selezionato un certo numero di citazioni che sono per me fonte d’ispirazione. Cinque anni fa la selezione sarebbe stata nel complesso diversa. Nell’arco dei prossimi cinque anni è probabile che cambi ancora. Ciò che incontrerete qui è una fetta dello spazio in cui mi trovo a navigare in questo momento. Mi muovo con le idee e attraverso le idee nel tentativo di dare corpo alle stesse tramite il mio lavoro, nella mia pratica quotidiana. È una sorta di architettura temporanea di pensieri e concetti: un luogo effimero, con spazi in cui si può esistere, vivere ed esplorare; con sentieri e accessi secondari a completamento dell’esposizione e dell’architettura di Palazzo Strozzi, a Firenze. Ogni citazione costruisce uno spazio che è sempre interconnesso con altre citazioni e altri spazi in questo edificio di pensieri incorporati.

Dapprima non sentiamo, siamo insensibili, neutralizzati. Poi, all’improvviso, sentiamo qualcosa, ma si tratta dell’assenza di qualcosa della cui mancanza non potevamo essere assolutamente a conoscenza. Pensate a quei poveri soldati, sepolti nelle loro trincee sul fronte nei pressi di Ypres il 22 aprile 1915. Conoscevano benissimo i proiettili, i bossoli, i ratti, la morte, il fango e la paura, ma l’aria, essi non percepivano l’aria, si limitavano a respirarla. Poi, all’improvviso, appare una brutta nube verdognola che si muove lentamente, sospesa sopra di loro, e inizia a succhiare via l’aria. Cominciano a soffocare. L’aria si è aggiunta alla lista delle cose di cui possiamo essere privati. Per dirla con il grande pensatore tedesco Peter Sloterdijk, l’aria è stata resa esplicita; l’aria è stata riconfigurata; fa adesso parte di un sistema di condizionamento dell’aria che rende possibile la nostra vita.

Si potrebbe obiettare che sia sempre stato così, per lo meno da quando la Terra è “inquinata” – come sosteneva Lovelock – dall’ossigeno. Non è forse l’aria uno dei quattro elementi? “Tutti sapevano” che l’aria era una delle condizioni perché la vita fosse possibile, per lo meno quella degli organismi aerobi. Tuttavia, questa consapevolezza non era esplicita nella maniera intesa da Sloterdijk. L’aria non era percepita, non era sentita, nessuno scienziato sperimentale era in grado di posizionare il proprio laboratorio tra gli organismi viventi e l’aria stessa. L’aria non era una cosa che meritasse la nostra attenzione collettiva, politica.


Bruno Latour è sociologo, filosofo e professore emerito presso il Médialab de SciencesPo di Parigi. I suoi studi sono incentrati sulla sociologia delle scienze e della tecnologia.

Olafur EliassonOlafur Eliasson, Solar compression, 2016, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


Percepito, esperito, vissuto! Mi sono imbattuto in questo breve testo di Bruno Latour per la prima volta nel 2008 e tutt’ora continuo a trarne ispirazione. L’arte è, a mio avviso, capace di rendere esplicito ciò che è invisibile e assimilato all’ambiente naturale. Questo processo trasformativo, che coinvolge sia il corpo sia la mente, come pure la nostra sensazione di essere presenti e consapevoli, è al centro della mia pratica. Per esempio, quando stavo progettando Nel tuo tempo per Palazzo Strozzi, mi proponevo di concepire questo meraviglioso edificio non tanto come un ospite passivo, come uno sfondo, o persino un contenitore per l’esposizione, ma piuttosto come un co-produttore della mostra stessa. Spero infatti che le opere che ho creato permettano all’edificio di essere presente ed esplicito per voi visitatori.

Immaginate un viaggio. Non importa che sia un viaggio epico; potrebbe addirittura essere un tragitto ordinario, un semplice spostamento da “qui” a “lì”, da Manchester a Liverpool, per dire. Un modo di immaginarselo è come un viaggio attraverso uno spazio. Lo spostamento tra due punti su una mappa. Manchester e Liverpool sono dati certi; e voi, l’elemento attivo che viaggia tra l’uno e l’altro. Possedete una traiettoria.

Ora pensateci in modo diverso. Perché questo vostro movimento non si limita allo spazio, ma coinvolge anche il tempo. Siete dunque appena usciti da Manchester, vi state avvicinando alle distese di torbiere che si estendono da una parte e dall’altra, e la stessa Manchester è già andata avanti. Vite sono proseguite, affari sono stati conclusi, persino il tempo atmosferico è cambiato. L’insieme di traiettorie che costituisce Manchester è diverso da quando ve ne siete andati. Ha continuato a vivere senza di voi. E che dire di Liverpool? Anche lei non si è limitata a rimanere lì, immobile sulla mappa, in attesa del vostro arrivo. Anch’essa ha continuato a farsi i fatti propri, è andata avanti. Il vostro arrivo a Lime Street, quando scendete dal treno e cominciate a immergervi nelle cose che siete venuti a fare, è un incontro di traiettorie e vi troverete aggrovigliati in storie cominciate prima che voi arrivaste. Non si tratta dell’arrivo di un viaggiatore attivo in una destinazione passiva che lo attende, ma piuttosto di un intrecciarsi di traiettorie ininterrotte dal quale potrebbe emergere qualcosa di nuovo. Il movimento, l’incontro e l’intrecciarsi di nuovi rapporti sono cose che richiedono tempo… Il viaggiatore non è l’unico elemento attivo. Il punto di partenza e quello di arrivo sono dotati di vita propria.


Doreen Massey (1944-2016) è stata geografa e insegnante. Il suo lavoro è stato cruciale per la comprensione dei concetti di spazio e di potere, e di come questi siano correlati con il cambiamento politico.

Olafur EliassonOlafur Eliasson, Red window semicircle, 2008, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


Palazzo Strozzi ha compiuto un viaggio nel tempo, dalla sua origine nel Rinascimento come palazzo di proprietà della potente famiglia degli Strozzi, al suo odierno ruolo di spazio che accoglie centri di ricerca e mostre. I visitatori della mostra hanno compiuto un viaggio. Io ho compiuto un viaggio. Le mie opere hanno compiuto un viaggio. Ognuno alle prese con il proprio viaggio, ci incontriamo nel qui e ora di questa mostra.

Quali futuri ci attendono? E, se è per questo, quali sono i nostri passati?

Ogni generazione affronta il compito di scegliere il proprio passato. Le eredità vengono scelte tanto quanto vengono trasmesse. Il passato dipende meno da “ciò che accadde allora” che da desideri e malcontenti del presente. Gli sforzi e i fallimenti danno forma alle storie che raccontiamo. Ciò che ricordiamo è connesso, allo stesso tempo, con le cose terribili che speriamo di evitare e con la vita serena che desideriamo. Ma quand’è che uno decide di smettere di guardare al passato e di concepire invece un nuovo ordine? Quand’è che arriva il momento di sognare un’altra patria, di abbracciare altri stranieri come alleati o di operare un’apertura, una ouverture, laddove non ce n’è nessuna? Quand’è che diviene chiaro che la vecchia vita è finita, che una nuova è iniziata e che non si può più guardare indietro? Era possibile, lì dalla cella, guardare oltre la fine del mondo e immaginare di vivere e respirare di nuovo?

Saidiya Hartman è accademica e autrice di Scenes of Subjection. Terror, Slavery, and Self-Making in Nineteenth-Century America e Perdi la madre. Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi. Nel 2019 ha ricevuto un MacArthur Fellowship e attualmente insegna presso la Columbia University.

Olafur EliassonOlafur Eliasson, Triple window, 1999, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


Continuo a tornare su questo passaggio di Saidiya Hartman da quando mi è capitato di leggerlo per la prima volta circa due anni fa, citato in A Billion Black Anthropocenes or None di Kathryn Yusoff, un altro libro che mi ha influenzato molto. Noi scegliamo le versioni della storia che preferiamo. Le inventiamo. E a volte l’invenzione si smarrisce e finisce per sembrare una realtà solida e inconfutabile. Ma la storia non esiste come accadimento a sé stante: ha radici profonde che affondano in prospettive specifiche. Ad esempio, una scultura che troviamo in uno spazio pubblico non rappresenta tanto il passato quanto gli ideali del passato. Firenze – con la sua lunga storia di opere d’arte esposte in luoghi pubblici, ad esempio il Giardino di Boboli o Piazza della Signoria – è ricca di storie possenti. Palazzo Strozzi stesso ci racconta una storia che parla dell’architettura impiegata come strumento di potere.

Nel raccontare altre storie, non di Firenze ma della tratta atlantica degli schiavi, Hartman introduce e impiega una tecnica che combina ricerche, immaginazione e scrittura in un processo che l’autrice definisce «affabulazione critica »1. Sono rimasto davvero colpito quando ne ho sentito parlare per la prima volta: mi sembra così sensato, da un punto di vista artistico. Hartman scava nel profondo degli archivi storici, non considerandoli oro colato, ma per restituire e rendere vivo il non detto. Ascolta le voci che sono state zittite e rende percepibile la loro assenza grazie alla sua affabulazione. È possibile operare in modo critico e allo stesso tempo utilizzare l’immaginazione per produrre affabulazioni ricche di conoscenze somatiche; allo stesso modo, si può essere immersi anima e corpo in una situazione e al contempo riflettere su questa immersione, ovvero valutare in modo critico ciò che si sta facendo mentre lo si sta facendo. Dunque, almeno per come interpreto quello che dice Hartman, analisi critica e affabulazione non sono pratiche distinte, ma possono coesistere e nutrirsi l’una dell’altra.

Per meglio comprendere lo spazio nel quale emergono le esperienze, è necessario osservare più da vicino i nostri corpi e le loro azioni. Da ragazzo praticavo la street dance e quando avevo più o meno quindici anni ho incontrato il meraviglioso ballerino e coreografo Steen Koerner in un circolo per ragazzi a Copenaghen. Steen mi parlò della differenza tra lo spazio della street dance e lo spazio del balletto classico, e questo mi è rimasto impresso: nel balletto lo spazio si dà per scontato, è il contenitore del movimento; l’ambizione del ballerino è sconfiggere la gravità, divenire privo di peso. L’attrito dell’aria viene eliminato. Nella street dance, invece, come pure nel mimo, l’attrito può essere esasperato, rendendo visibile ciò che altrimenti è invisibile: il vento, la gravità… Questo pensiero mi ha aiutato nella pratica della street dance prima e nel mio lavoro di artista poi. Da allora, l’idea di rappresentare attivamente lo spazio per mezzo del corpo, di creare lo spazio e renderlo percepibile, è sempre stata cruciale per me.

Il concetto dell’isolamento è importante. Isolando i movimenti si crea uno spazio: il corpo fa sì che lo spazio emerga. È la differenza che c’è tra entrare in uno spazio e cominciare a ballare, oppure creare uno spazio per mezzo del ballo…

Se tengo la mano alzata, posso camminarci intorno con il resto del corpo, e quelli che mi osservano percepiranno uno spazio che emerge intorno alla mia mano.


Steen Koerner è direttore, coreografo e ballerino noto per la sua rilettura in chiave contemporanea e urbana dei fondamenti della danza classica. Ha esordito nel 1982 praticando la robot dance da autodidatta. In seguito ha fondato gli Steen Koerner Studios a Copenaghen.

1 - Vedi S. Hartman, Venus in Two Acts, in «Small Axe», 26, giugno 2008, pp. 1-14.


Olafur EliassonOlafur Eliasson, Beauty, 1993, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


Un’altra coreografa che mi ha influenzato è Yvonne Rainer. Nel 1966 Rainer ha creato un’opera audiovisiva rivoluzionaria dal titolo Hand Movie alla quale ritorno spesso. Ha concepito quest’opera in un letto d’ospedale, lavorando con grosse limitazioni spaziali e una mano sola. Ciò che ci vuol far capire è che non esiste uno spazio che non abbia un potenziale per l’esplorazione artistica, uno spazio quotidiano così piccolo o insignificante da impedirci di esplorare il nostro qui e ora. Le sfumature che emergono dai movimenti limitatissimi delle sue dita sono assolutamente sconvolgenti. In effetti, l’esplicitazione del tempo è un argomento cruciale del film tanto quanto lo spazio. Basta avere il coraggio di far ballare la mano.

E se i visitatori – spostandosi, corporei, da un’opera all’altra, attraverso le sale dell’edificio – contribuissero a creare gli spazi di Palazzo Strozzi proprio perché rendono percepibile e presente lo scorrere del tempo? Può la consapevolezza del ruolo rivestito dal tempo nell’incontro con l’arte offrire alle singole e divergenti percezioni l’opportunità di manifestarsi? E se invito il tempo a questo incontro, posso destabilizzare la struttura architettonica apparentemente solida di Palazzo Strozzi?

Non solo i nostri corpi influiscono sul modo in cui lo spazio viene creato e percepito, ma li utilizziamo anche per conoscere e creare consapevolezza. Natasha Myers, studiando i corpi degli scienziati, tenta di comprendere come persino i modelli scientifici siano generati attraverso il coinvolgimento fisico. È uno studio appassionante che contribuisce allo smantellamento delle nostre concezioni decisamente troppo rigide riguardo alla pratica della scienza. Di sicuro ho imparato tanto da Natasha.

Questo studio antropologico presta molta attenzione alle modalità con cui gli scienziati costruiscono e diffondono i dati visivi. Sostiene che le culture visive delle scienze debbano essere concepite allo stesso tempo come culture dell’azione. In sintesi, dimostra che i movimenti fisici degli scienziati che si occupano di modellazione proteica come pure le loro storie di movimento sono parti integranti dell’indagine scientifica… […]

Mi trovavo a una conferenza annuale per scienziati che si occupano di modellazione proteica con Michael Fischer. Mi ero allontanata per guardare i poster degli studenti, quando Mike ha detto ad Andres che stavo studiando il modo in cui gli esperti di modellazione «rappresentavano» le loro molecole «ballando». Andres confessò a Mike di aver creato «una piccola coreografia» per una delle molecole che aveva modellato. Quando, avendo appreso la notizia, mi sono precipitata da lui, si è schermito dicendo: «Odio ballare, ma non c’era nessun altro modo di spiegare il meccanismo. Lo dovevo rappresentare ballando». […]

La vivacità serve a raccontare una storia senza dover fare distinzioni nette tra organismi e macchine, o tra vitalismo e meccanicismo. Le narrazioni vivaci si protendono verso un mondo nel quale prosperano forme di vita a malapena riconoscibili. La vivacità è un concetto relazionale. È imperniata su una concezione intra-attiva di agentività o di agencement.

L’“animatezza” reciproca si genera in contesti nei quali i corpi sono aperti a muoversi e a essere mossi l’uno dall’altro.


Natasha Myers impiega l’arte, l’etnografia e l’ecologia decoloniale per concepire la creazione di Planthroposcenes, ambienti in cui le persone possono imparare a cooperare con le piante per coltivare mondi vivibili. È professoressa associata presso il Dipartimento di Antropologia della York University e direttrice del Plant Studies Collaboratory.

Olafur EliassonOlafur Eliasson, Colour spectrum kaleidoscope, 2003 e Firefly double-polyhedron sphere experiment, 2020, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


Questa è, in poche parole, una sintesi approssimativa di quello con cui lavoro: «I corpi sono aperti a muoversi e a essere mossi l’uno dall’altro ». È una cosa che mi ispira nel lavoro di diverse persone che si occupano di incorporazione e percezione.

Gli oggetti sono situati percettivamente in virtù del rapporto che intrattengono con i nostri corpi che si muovono e percepiscono. Prendere in mano una tazza da tè significa afferrarla con una certa angolazione e maneggiarla e tenerla in una certa maniera. Ascoltare la radio significa che si sente il suono da un punto d’ascolto specifico, che può cambiare se l’ascoltatore si sposta nella stanza. Vedere una bottiglia di vino sul tavolo implica che la osserviamo da un certo punto di vista, dal quale riusciamo a percepire se essa è a portata di mano o fuori dalla nostra portata. Se un oggetto ci appare in una determinata prospettiva, ciò implica che il soggetto al quale appare deve avere con esso un rapporto spaziale. Per intrattenere un rapporto spaziale con un oggetto, è necessario essere incorporati.

Evan Thompson è professore di filosofia presso l’Università della British Columbia. Lavora sulla natura della mente, sul sé e sulla esperienza umana.

L’esperienza non è una cosa che ci accade. È una cosa che facciamo; è un processo di indagine esperta prolungato nel tempo. Il mondo si mette alla nostra portata. L’esperienza include sia la mente che il mondo.

L’esperienza ha un contenuto solamente in virtù delle dinamiche prestabilite di interazione tra percepente e mondo.
Alva Noë è un filosofo della mente. La sua ricerca e i suoi insegnamenti sono incentrati su percezione, coscienza e filosofia dell’arte. È professore di filosofia presso la University of California di Berkeley. L’esperienza è spaziale, l’esperienza è una cosa che facciamo, l’esperienza è ora! Un atteggiamento poetico implica l’essere presenti. Quando si legge una poesia, inevitabilmente si è presenti. Una poesia ci conduce sempre al momento presente, ci conduce in uno spazio dal quale si può osservare in qualunque modo riteniamo di dover osservare, che sia criticamente, intimamente, o con compassione.

Minna Salami è scrittrice, conferenziera e critica sociale. Ha scritto Sensuous Knowledge. A Black Feminist Approach for Everyone, in cui affronta temi universali in una prospettiva femminista e afrocentrica.

Olafur Eliasson Olafur Eliasson, Room for one colour, 1997, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


Cosa succede se si incontra la letteratura o l’arte nel momento in cui si è presenti? Si tratta di un incontro con l’ignoto, o con qualcosa che intuiamo nel nostro profondo, ma di cui forse non siamo attivamente consapevoli. Oppure ci può sembrare di sentire uno scossone, una specie di capovolgimento, e improvvisamente ogni cosa si aggiusta e trova il proprio posto. Se percepite un senso di connessione con un’opera d’arte, potreste aprirvi a essa e alla situazione in cui è collocata, invitarla a entrare nello spazio della vostra esistenza. Potreste essere sbalorditi, toccati, commossi, coinvolti…

Ma torniamo all’idea che l’esperienza è una cosa che facciamo. Di recente ho scoperto gli scritti di Maria Lugones. Nonostante io lavori con la percezione da diversi decenni, l’imbattermi nei suoi concetti di «percezione arrogante » e «percezione affettuosa» – basati sulle idee formulate dalla filosofa e teorica del femminismo Marilyn Frye – mi ha scosso nel profondo. Lugones utilizza il proprio rapporto con la madre come punto di partenza per analizzare ciò che avviene quando si percepiscono gli altri: percepire gli altri come oggetti è percepirli in modo arrogante. Per percepirli affettuosamente sarà necessario compiere un viaggio nel loro mondo, mostrando empatia, sentendo ciò che sentono loro, osservando il loro mondo e predisponendosi a comprenderlo.

Il pensiero di Lugones ha improvvisamente disvelato uno dei principi organizzativi fondamentali della percezione, un aspetto che non avevo mai davvero colto nei miei lunghi anni di analisi della percezione sensoriale e motoria e del coinvolgimento come azione. Con l’introduzione dei concetti di percezione arrogante e percezione affettuosa, la percezione stessa si trova ad affrontare problemi di natura patriarcale e coloniale.

In quanto estranee al mainstream, negli Stati Uniti le donne di colore si dedicano a viaggiare nei “mondi” altrui soprattutto per necessità. Ritengo che questa pratica sia un modo magistrale, creativo, ricco, arricchente e, in certe circostanze, affettuoso di vivere e di esistere. Mi rendo conto che viaggiamo soprattutto contro la nostra volontà in “mondi” ostili e prevalentemente anglo/bianchi. L’ostilità di tali “mondi” e la natura forzosa del “viaggio” hanno oscurato per noi l’enorme valore che può avere questo aspetto del nostro vivere e la sua connessione con l’affetto.

[Questo] saggio stabilisce un collegamento tra quello che Marilyn Frye definisce «percezione arrogante » e l’incapacità di immedesimarsi con persone che giudichiamo con arroganza o che vediamo ormai come i prodotti di una percezione arrogante. Si può stabilire, poi, un collegamento tra questa incapacità di immedesimarsi e l’incapacità di provare affetto, e dunque tra il provare affetto e l’identificarsi con un’altra persona.


María Lugones (1944-2020) è stata filosofa, sociologa e attivista. Pioniera del femminismo decoloniale, il suo contributo è stato cruciale in diverse aree, dall’etica alla filosofia sociale e politica, dagli studi etnici e di genere al lavoro nelle comunità.

Olafur EliassonOlafur Eliasson, City plan, 2018, Strozzina, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


Questo, per me, è davvero rivoluzionario: vedere questa pratica di viaggiare per mondi altrui come un’esperienza creativa e arricchente, centrale alla vita stessa, alla capacità di immedesimarsi negli altri e di percepire con affetto.

L’incontro con un’opera d’arte e con la sede di una mostra è anch’esso un modo per compiere un viaggio in un altro mondo. Il fatto di essere stato invitato a lavorare a Firenze e a esibirvi le mie opere mi ha permesso di compiere un viaggio indietro nel tempo, non solo nel Rinascimento, ma anche nel momento dell’introduzione dei concetti di umanità e Umanesimo, termini che non esistevano prima del Rinascimento, seppure per alcuni oggi risultino “naturali”. Tuttavia, questi concetti non appartengono al passato, né possiamo darli per scontati. Se ci serviamo dell’idea introdotta da Latour, che suggeriva di denaturalizzare gli oggetti e i concetti per impedire loro di rimanere impliciti, di passare inosservati, allora “umanità” è un termine che ha urgente bisogno di essere rivisitato e ripensato. In diversi hanno fatto questa osservazione in tempi recenti, tra cui Sylvia Wynter, il cui lavoro ho avuto modo di conoscere alcuni anni fa.

Dobbiamo a questo punto dedicarci a una riscrittura collettiva della conoscenza per come la concepiamo. Si tratterebbe di una riscrittura nella quale vorrei che, tra le altre cose, l’Occidente riconoscesse la portata di ciò che ha introdotto nel mondo, con particolare attenzione alle modalità e ai generi ormai del tutto acquisiti di umanità. Vedete? È perché l’Occidente ha davvero cambiato il mondo, completamente. E vorrei suggerire che è proprio questo cambiamento che adesso rende le trasformazioni ambiziose che ci proponiamo tanto imperative ora quanto inevitabili. Come disse Einstein quando i fisici scoprirono la scissione dell’atomo, se insistiamo nel nostro vecchio modo di pensare – il pensiero preatomico – la nostra specie verrà inevitabilmente trascinata verso una catastrofe senza precedenti.

Si ipotizza dunque che la sfida del nuovo millennio sarà tra l’imperativo sempre presente di garantire il benessere della nostra attuale concezione etno-classista (borghese e occidentale) dell’essere umano, dell’uomo, che tende a sovrarappresentare se stesso, come se rappresentasse l’umanità in senso assoluto, e la necessità di garantire il benessere, e dunque la piena autonomia cognitiva e comportamentale, della specie umana stessa, di noi stessi.


Sylvia Wynter è scrittrice e teorica della cultura. I suoi scritti attingono alla storia, alla letteratura, alle scienze e ai Black studies per esplorare i temi della razza, del retaggio del colonialismo e delle rappresentazioni dell’umanità. È professoressa emerita presso la Stanford University.

Olafur EliassonOlafur Eliasson, Your view matter, 2022, installazione di realtà virtuale, audio Metapurse, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


Wynter riassume la propria posizione nel titolo di questo testo: «Verso l’umano, dopo l’uomo». Insiste dunque nel liberare il termine “umano” dalla sua intima connessione con l’uomo bianco, occidentale e privilegiato. Quella di essere umano è una categoria molto più ampia e il suo ambito deve essere ridefinito. Non posso che essere d’accordo.

Circa un anno e mezzo fa Júlia Frate Bolliger, che un tempo faceva parte del mio team, mi ha dato una copia di Idee per rimandare la fine del mondo, un libretto scritto da Ailton Krenak, che era appena stato tradotto in inglese dal portoghese. Mi ha riportato al pensiero di Sylvia Wynter, ma questa volta in relazione ai popoli indigeni.

Siamo stati a lungo condizionati dalla storia che noi siamo l’umanità. Nel frattempo abbiamo iniziato ad allontanarci da quell’organismo di cui facciamo parte, la Terra, e abbiamo iniziato a pensare che quella fosse una cosa e noi un’altra: la Terra e l’umanità. […] Dobbiamo rinunciare al nostro antropocentrismo. La Terra è molto di più degli esseri umani, e la biodiversità non sembra sentire la nostra mancanza. Tutt’altro.

[…]

Ci sono centinaia di narrazioni di popoli viventi, che raccontano storie, cantano, viaggiano e ci insegnano più di quanto non faccia questa umanità. Non siamo le uniche persone interessanti al mondo, siamo parte del tutto. Forse questo riduce un po’ la vanità dell’umanità che pensiamo di essere, oltre a ridurre la mancanza di riferimento che proviamo sempre nei confronti di chi ci accompagna in questo viaggio cosmico.


Ailton Krenak è ambientalista, autore e capo indigeno. Fin dagli anni settanta il suo lavoro è stato cruciale per assicurare ai popoli indigeni del Brasile i diritti costituzionali sulle terre dei loro antenati. Nel 2016 è stato insignito dell’Ordine al Merito Culturale dal Presidente della Repubblica.

[…]

Olafur EliassonOlafur Eliasson, Fivefold dodecahedron lamp, 2006, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio


 

Olafur Eliasson: Nel tuo tempo
a cura di Arturo Galansino
Palazzo Strozzi 22 settembre 2022 - 22 gennaio 2023
@ 2022 Artext

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