Nan Goldin
This Will Not End Well
Fondazione Hangar Bicocca
Pirelli HangarBicocca presenta "This Will Not End
Well", la prima retrospettiva dedicata al lavoro di Nan Goldin come filmmaker. A Milano la
mostra riunisce il più grande corpus di slideshow mai presentato, include una installazione
sonora appositamente commissionata e offre l’occasione di esporre per la prima volta in
Europa in un contesto museale i suoi due più recenti slideshow.
"Ho sempre desiderato essere una filmmaker. I miei slideshow sono film composti da fotogrammi",
dice Nan Goldin.
La retrospettiva è allestita in diverse strutture architettoniche, definite come padiglioni, progettati
dall’architetta Hala Wardé, che già in varie occasioni ha collaborato con Goldin. Ciascun padiglione
è concepito in risposta a un’opera specifica, e tutti insieme formano un villaggio. Benché il titolo della L’esposizione include: The Ballad of Sexual Dependency (1981-2022), capolavoro di Goldin; The Other Side (1992-2021), ritratto storico, omaggio agli amici trans attraverso scatti intimi e privati realizzati tra il 1972 e il 2010; Sisters, Saints, Sibyls (2004-2022), testimonianza sul trauma familiare e sul suicidio; Fire Leap (2010-2022), incursione nel mondo dell’infanzia; Memory Lost (2019-2021), trip claustrofobico nell’astinenza da sostanze stupefacenti; e infine Sirens (2019-2020), viaggio nell'estasi della droga. A Milano, l'installazione Sisters, Saints, Sibyls (2004- 2022) sarà presentata all'interno del "Cubo", uno spazio in cui le dimensioni e l'altezza – che supera i 20 metri – richiamano la natura architettonica de La Chapelle de la Salpêtrière di Parigi, luogo in cui l'opera è stata originariamente commissionata ed esposta nel 2004. L'installazione presso Pirelli HangarBicocca sarà riproposta in una forma fedele all'originale, che comprende anche gli elementi scultorei, visibili da una piattaforma sopraelevata.
I soggetti delle fotografie di Baldessari sono sempre stati semplici: oggetti
che trovava intorno a sé a Los Angeles, spesso nel suo studio, a casa o mentre
insegnava. Quel che riusciva a fare con quegli oggetti, però, era molto più
complesso. Nella celebre serie Commissioned Paintings (1969), fotografò un dito
puntato su oggetti banali in luoghi altrettanto banali o indefiniti; poi incaricò un
pittore iperrealista di riprodurre l’immagine e un pittore di insegne di aggiungere
una didascalia con il nome del pittore, per esempio: “A Painting by Patrick X.
Nidorf, O.S.A.”. In questo modo, Baldessari non solo complicava l’autorialità
e la definizione di un quadro, ma rifletteva anche sulla capacità di quest’ultimo
di incanalare l’attenzione e determinare che cosa meriti di essere guardato:
concetti spesso dati per scontati, o trascurati.
Nan Goldin “This Will Not End Well” Veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2025 © Nan Goldin Foto Agostino Osio
Effetto Pigmalione
Alfred Pacquement
Scopophilia è una proiezione di diapositive realizzata da Nan Goldin nel 2010 e presentata per la prima volta al Louvre all’inizio del 2011.
La prima proiezione di diapositive di Goldin — quella che ha segnato tutto ciò che sarebbe venuto dopo nella sua produzione — fu, naturalmente,
The Ballad of Sexual Dependency, mostrata per la prima volta nei nightclub di New York nel 1979 e successivamente nei cinema underground.
Che contrasto con il luogo augusto che è il Louvre.
Quest’opera di grande rilievo fu creata nel contesto di un più ampio invito rivolto al regista teatrale e cinematografico Patrice Chéreau a organizzare una mostra e un programma di eventi che egli intitolò
Les visages et les corps. Oltre a uno spettacolo teatrale presentato nelle sale del museo,
Les visages et les corps(1) comprendeva esecuzioni musicali, proiezioni di film, una mostra sui progetti scenografici di Chéreau intitolata
Derrièreles imagesl, e un’atra che associava una selezione di dipinti delle collezioni del museo a fotografie di Nan Goldin. (2)
La proiezione di Goldin, che completava questo ricchissimo programma, fu curata da Marie-Laure Bernadac, allora responsabile dell’arte contemporanea presso il prestigioso museo, diretto in quel periodo da Henri Loyrette.
Le proiezioni di diapositive, così come i libri concepiti sotto la direzione dell’artista, rappresentano l’apice dell’opera di Nan Goldin, dalla quale spesso sono tratte anche le sue stampe fotografiche, talvolta sotto forma di montaggi di più immagini. Sebbene alcune delle sue fotografie possiedano un’indubbia forza iconica, il suo lavoro non può essere compreso secondo la logica delle singole immagini: per questo la forma della proiezione rappresenta un elemento fondamentale della sua produzione artistica.
Il suo opus magnum,
The Ballad of Sexual Dependency, fu seguito da una dozzina di altre proiezioni, tra cui
Scopophilia.
A differenza delle altre, che presentano esclusivamente fotografie dell’artista,
Scopophilia mette in relazione immagini proprie — alcune delle quali mai mostrate prima — con numerosi scatti realizzati da Goldin a dipinti e sculture del museo, dove le fu concesso di muoversi liberamente tra le gallerie, anche dopo l’orario di chiusura.
Girando con una piccola scala, fotografava all’altezza giusta i volti e i dettagli che sceglieva in quella galleria di fantasmi addormentati nel museo: un occhio dall’allegoria cristiana di Jan Provost, una curva d’anca dall’
Odalisca di Jean-Auguste-Dominique Ingres, un movimento del braccio di Diana di Anet intorno al collo di Atteone, ormai trasformato in cervo — e molti altri ancora — catturati dallo sguardo della sua macchina fotografica.
L’originalità di
Scopophilia consisteva nel mettere a confronto, durante i ventitré minuti della proiezione, frammenti del suo universo personale con immagini di opere d’arte — spesso dettagli — riprese dal punto di vista scelto dall’artista.
L’installazione comprendeva anche una voce fuori campo intermittente, scritta e narrata da Goldin stessa, e musiche composte da Alain Mahé.
Le coincidenze visive (che non possono definirsi semplici giustapposizioni, poiché le immagini si susseguono in sequenza) sono spesso sorprendenti: così, ad esempio, un nudo fotografato da Goldin sembra emergere direttamente dall’immagine del
Bagno turco o della
Grande Odalisca che lo segue. (3)
Nan Goldin Still from Stendhal Syndrome, 2024 © Nan Goldin Courtesy Gagosian
Qualcosa di perturbante accade quando ci si trova di fronte alle fotografie di Nan Goldin in una mostra o in un libro, e ancor più nelle proiezioni di diapositive, che riuniscono molte immagini in un ordine determinato dall’artista, spesso accompagnate da una colonna sonora ipnotica.
I soggetti delle fotografie — amici e amanti dell’artista — sono resi con un’empatia così contagiosa che lo spettatore finisce per sentirsi vicino a persone che non conosce, che non ha mai incontrato fisicamente, ma che finisce per riconoscere come se appartenessero al proprio stesso ambiente.
Senza dubbio, questi soggetti sono colti nei momenti più intimi della loro vita quotidiana, nella loro verità nuda, senza filtri né autocensura.
Sono lì con noi, al nostro fianco — definitivamente presenti.
L’opera fotografica di Goldin è fondamentalmente intima e autobiografica. Nessuno si è spinto più lontano nell’esporre una vita spesso dolorosa.
Le sue fotografie rivelano incontri emotivi o amorosi, le esperienze tragiche degli anni in cui l’AIDS decimava un’intera comunità, e la sua vicinanza al mondo delle drag queen e delle persone transgender, ma anche momenti felici di amore, tenerezza e armonia.
A differenza di un diario in cui si raccontano aneddoti, sentimenti o emozioni segrete, Goldin affida tutto alla presenza delle immagini, che, come recita il proverbio, “parlano più delle parole”.
Nella prefazione al libro Nan Goldin: The Ballad of Sexual Dependency, scrive: “Il mio diario visivo è pubblico.”(4)
Nan Goldin Stendhal Syndrome, 2024 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2025
© Nan Goldin Foto Agostino Osio
L’opera di Goldin, oggi parte integrante della storia della fotografia, presenta tuttavia molte altre sfaccettature.
Da oltre vent’anni, l’artista cattura la bellezza dei paesaggi, dei cieli infuocati, rivolge uno sguardo tenero ai bambini e instaura un dialogo con altre opere d’arte — pittura, scultura o cinema.
È quest’ultimo aspetto che qui ci interessa in modo particolare, poiché costituisce il tema dominante di un progetto come
Scopophilia, presentato al Louvre, così come lo sarà di una mostra come
Visible/Invisible al Petit Trianon di Versailles.
I due eventi possono essere messi in relazione poiché, in entrambi i casi — a quasi dieci anni di distanza — a Nan Goldin fu data carta bianca per immergersi, nel primo caso, nelle collezioni del Louvre, e nel secondo, nel castello e nei giardini di Versailles, fino ai sistemi idraulici sotterranei, normalmente chiusi al pubblico.
Nel caso del Louvre, il risultato fu un originale montaggio di diapositive, accompagnato da una selezione di stampe fotografiche esposte nelle gallerie del museo; nel caso di Versailles, invece, si trattò di un’installazione murale e sonora nei corridoi oscuri del castello di Luigi XV.
Entrambe le installazioni occupano un posto speciale nell’opera dell’artista.
“Ho iniziato a fare fotografie perché volevo realizzare film. E forse parte del mio successo deriva dal fatto che non mi è mai interessata davvero la fotografia. Ho trovato un modo per fare film mettendo insieme immagini fisse, creando proiezioni. Quelle sono i miei film.”
C’è, infatti, una spinta cinematografica nel montaggio delle sue proiezioni di diapositive.
Le singole immagini acquistano forza nella loro accumulazione e nel confronto reciproco.
Conosciamo l’illustre precedente di
La Jetée (1962):la narrazione del film di Chris Marker, composta esclusivamente da fotografie, si costruisce attraverso la sequenza delle immagini accompagnate da una voce fuori campo.
A volte la sequenza scompone un movimento, ma questo photo-roman, come viene definito nei titoli di apertura, obbedisce a codici cinematografici nel rapporto tra voce, immagine e suono — la serie di scatti che accompagna visivamente la narrazione, e così via.
Mentre l’obiettivo delle immagini di Marker è la costruzione di un film, quelle di Nan Goldin non sono state scattate con tale intento.
Esse nascono da esperienze completamente diverse, da molteplici situazioni e luoghi differenti, insieme alle persone che lei definisce la sua “famiglia” — alcune delle quali ricorrono più volte, in momenti diversi della proiezione, altre presenti solo in pochi scatti.
È superfluo dire che le persone ritratte non sono state fotografate in pose concepite in relazione alle opere d’arte del passato. Tuttavia, le somiglianze negli atteggiamenti, le corrispondenze con la pittura — in particolare nei volti, ma anche nei gesti — risultano sorprendenti in numerose immagini.
La loro accumulazione, attentamente costruita in tutte le proiezioni di Goldin e arricchita dalla scelta musicale, genera una sorta di ibridazione tra immagine statica e narrazione cinematografica.
Nel caso di
Scopophilia, si aggiunge l’alternanza e il dialogo tra le fotografie del suo entourage — spesso scattate in momenti di estrema intimità — e gli scatti delle opere pittoriche e scultoree.
Nella voce fuori campo della proiezione, Goldin descrive così il suo approccio:
“I dipinti hanno provocato in me il sentimento travolgente che mi è stato descritto come scopofilia, il desiderio intenso e l’appagamento di tale desiderio attraverso lo sguardo.”
Nan Goldin
Young Love, 2024 © Nan Goldin.
Alcune opere d’arte ricompaiono più volte, come nel caso del
Ritratto di una giovane ragazza di Pierre-Narcisse Guérin, che — comprensibilmente — catturò in modo particolare l’attenzione dell’artista.
Questa figura androgina, dai capelli corti e maschili, con le mani incrociate sul petto nudo, assomiglia in modo sorprendente a Siobhan Lidell, che occupava un ruolo importante nella selezione delle immagini.
Altri esempi:
Le dormienti di Gustave Courbet coincidono con fotografie di donne avvinghiate l’una all’altra, e una coppia, inconsapevolmente, assume una posa identica a quella di
Amore e Psiche di Antonio Canova.
Si potrebbero citare molti altri esempi che testimoniano l’immersione di Goldin nelle gallerie del museo durante gli otto mesi della sua esplorazione, così come la sua scelta estremamente accorta delle fotografie tratte dal suo vasto archivio, dei tagli sui dettagli, e così via.
Benché
Scopophilia non presenti un carattere propriamente narrativo, è chiaramente articolata in sezioni riconoscibili, che tuttavia non alterano il ritmo delle immagini.
Talvolta queste sezioni sono organizzate tematicamente: i capelli, i bambini, l’acqua, il bagno, le coppie che fanno l’amore — e, naturalmente, i nudi, onnipresenti nella fotografia come nella pittura e nella scultura.
Quanto ai temi tratti dalla mitologia, anch’essi oggetto di dipinti e sculture, essi punteggiano la sequenza delle diapositive.
Tutti sono legati all’amore e all’erotismo:
Pigmalione che abbraccia la statua da lui scolpita e divenuta viva;
Cupido che ridà vita a Psiche con un bacio;
Narciso che si innamora del proprio riflesso;
Tiresia, trasformato in donna e, una volta riacquistata la propria mascolinità, che racconta a Zeus che le donne provano un piacere dieci volte superiore a quello degli uomini.
Nel dare alla proiezione il titolo
Scopophilia, Goldin ci orienta — consapevolmente o meno — verso una lettura psicoanalitica della sua opera, collegandola al desiderio sessuale.
In effetti, apre la voce fuori campo ricordando le due radici greche del termine:
skopos, “guardare”, e
philia , “amorefraterno”.
Ma il termine originario usato da Freud era S
chaulust, tradotto come “l’eccitazione del guardare”, ovvero il piacere o l’estasi sessuale ottenuti attraverso lo sguardo.
Infatti, nella proiezione, i nudi femminili — e talvolta maschili — si susseguono: fotografati, dipinti o scolpiti, sdraiati, che si abbracciano, si baciano, fanno l’amore, e così via.
Goldin aggiunge nella voce fuori campo:
“La mia testa si rovescia all’indietro. Lascio che il mio sguardo si fermi sul soffitto. Ho vissuto l’esperienza più profonda di estasi che abbia mai conosciuto. Avevo raggiunto quel grado supremo di sensibilità in cui le divine suggestioni dell’arte si fondono con la sensualità appassionata dell’emozione...
Tra loro e me, scambi telepatici, divinazioni.”
La proiezione produce così un’esperienza sensoriale e quasi sessuale — un’esperienza tanto potente nei momenti di intimità e di complicità con i soggetti del suo entourage quanto nella sua esplorazione, ugualmente intima e quasi carnale, delle opere d’arte del museo.
Nan Goldin
Veiled Woman, 2010 © Nan Goldin Courtesy Gagosian
Nan Goldin mise nuovamente in relazione il proprio sguardo con le opere classiche in un’altra occasione.
Invitata a partecipare a una mostra organizzata dal Castello di Versailles, l’artista propose una duplice esplorazione: del sistema idraulico sotterraneo che alimenta la rete di fontane dei giardini e delle statue esterne e interne, che poté osservare a suo piacimento.
Il risultato, in questo caso, non fu una proiezione di diapositive, ma un’installazione articolata in due sequenze.
I visitatori vengono dapprima immersi nelle oscure viscere della rete sotterranea, dove gigantesche riproduzioni fotografiche ricoprono le volte di pietra; poi riemergono alla luce del giorno attraverso una struttura di passaggio progettata dall’architetta Hala Wardé, e scoprono immagini di statue, tutte raffiguranti figure femminili della mitologia greca, alcune avvolte nei teli con cui vengono protette a Versailles durante l’inverno.
“Le figure velate sono le prime donne che vediamo. Sei immerso nell’oscurità e poi riemergi nella luce. È una metafora del viaggio delle donne.” (8)
Estratti dalla Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791) di Olympe de Gouges vengono letti da famose attrici in una composizione sonora preregistrata del gruppo Soundwalk Collective.
Mentre
Scopophilia era un’opera sensuale, intrisa di risonanze erotiche, l’installazione per la mostra
Visible/Invisible a Versailles aveva invece un carattere politico.
Non è un caso che coincidesse con la campagna dell’artista contro l’industria farmaceutica e, in particolare, contro la famiglia Sackler, ritenuta responsabile del numero allarmante di morti negli Stati Uniti e altrove durante la crisi degli oppiacei.
Goldin, vittima lei stessa della dipendenza da farmaci, ha dedicato alcune sue opere alle conseguenze drammatiche dell’assuefazione — come la proiezione
Memory Lost — prima di intraprendere una lotta, insieme al gruppo di attivisti P.A.I.N., che ha contribuito in larga misura a far conoscere e vincere a livello internazionale.
Come donna, trovò un riflesso del proprio attivismo nella lotta delle donne francesi durante la Rivoluzione, che, oppresse dalla povertà e dalla mancanza di cibo, marciarono su Versailles per costringere il re e la regina a lasciare l’isolamento del loro sontuoso castello e a tornare a Parigi, tra il popolo.
La rivoluzione era in marcia nel 1789 — come lo è oggi contro i danni causati da politiche criminali sulla droga.
Rivolgendo il suo sguardo fotografico acuto alle opere d’arte del passato, Goldin arricchisce il proprio linguaggio in un modo del tutto inedito.
I dipinti e le sculture che giacciono silenziosi nel Louvre, o le statue che decorano pacificamente i giardini di Versailles, risvegliano i nostri sensi attraverso l’occhio attento dell’artista.
“Non fotografo mai nessuno che non trovi bello. Immagino che, se si fotografa una persona abbastanza a lungo, essa raggiunga una sorta di grandezza da stella. Diventa una star nel film della mia vita.” (9)
Con la stessa empatia, Nan Goldin integra i capolavori della storia dell’arte nel suo universo intimo, come appare evidente in
Scopophilia o in
The Women’s March 1789.
Note -
1. Les visages et les corps, Musée du Louvre, Parigi, 2 novembre 2010 – 31 gennaio 2011.
2. La mostra includeva opere provenienti da altri musei parigini, tra cui L’origine du monde di Gustave Courbet, prestata dal Musée d’Orsay.
3. Esistono anche griglie tematiche che raggruppano immagini tratte dalla proiezione, stampate su carta, dedicate per esempio a Occhi, Capelli e Odalisca, proponendo confronti diretti tra le fotografie.
4. Nan Goldin: The Ballad of Sexual Dependency (New York, Aperture, 1986).
5. Visible/Invisible, al castello e nei giardini del Petit Trianon, Château de Versailles, 14 maggio – 20 ottobre 2019.
6. Nan Goldin, intervista video con Thora Siemsen, in occasione della mostra Memory Lost presso la Marian Goodman Gallery, New York, 27 aprile – 12 giugno 2021;
https://www.youtube.com/watch?v=tlrlFKvN53w
Nan Goldin Sisters, Saints, Sibyls, 2004-2022 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2025 © Nan Goldin Foto Agostino Osio
Nan Goldin by Andrea Lissoni
ANDREA LISSONI: Come stai?
NAN GOLDIN: Fa molto caldo, e sono stata in giro tutto il giorno. Non sopporto bene il caldo. Come puoi vedere, sono completamente madida di sudore.
AL: Anche qui fa molto caldo, ma almeno è mezzanotte ormai. Vorrei concentrarmi soprattutto su
Sirens e Memory Lost, ma in particolare su
Sirens. L’ho visto di recente a Venezia, alla Biennale, e mi ha letteralmente sconvolto. Naturalmente non c’è un rapporto diretto, ma li percepisco come un film di montaggio e una proiezione di diapositive basati entrambi sul tuo archivio e sui tuoi filmati.
NG: In realtà un rapporto c’è.
Memory Lost e
Sirens sono due opere compagne: due versioni diverse dell’effetto delle droghe.
AL: Un elemento in comune è la colonna sonora, e la mia prima domanda è: come hai incontrato Mica Levi?
NG: È stata la prima volta che ho chiesto a un compositore di scrivere una colonna sonora. Ero entusiasta! Esisteva un forum online per contattarla. Mi ha risposto entro un’ora. Poi ci siamo incontrate a Londra, alla Tate; aveva appena visto l’installazione di
The Ballad e ne era rimasta profondamente colpita. Ci siamo piaciute subito e abbiamo deciso di collaborare.
Le ho parlato dell’idea di creare un’opera sull’assuefazione, e le ho mostrato alcune immagini spaventose e folli tratte dal mio archivio.
Mi ha inviato due brani musicali intitolati
Whistles e Waves.
Stavo già lavorando a un progetto legato al tema delle sirene, e i suoi fischi erano il suono perfetto per il canto delle sirene. Non ne avevamo nemmeno parlato: è stata pura fortuna.
Non riuscivo a definire pienamente la mia opera finché non ho ascoltato la sua musica. Ho iniziato a montare e ho inserito la colonna sonora in relazione al ritmo del montaggio.
L’altro brano, per
Memory Lost, si chiama
Waves, ed è stata anche quella una collaborazione magica.
AL: Ti ha dato la libertà di prendere qualsiasi cosa volessi dalla sua musica?
NG: Sì.
AL: Sorprendente.
NG:
Memory Lost è stata una collaborazione più intenzionale rispetto a Sirens. Ci siamo scambiate materiali avanti e indietro.
Memory Lost ha una colonna sonora più complessa.
In origine era tutta di Mica, poi ho deciso che doveva cambiare tono più profondamente.
È stato allora che ho coinvolto Soundwalk, con cui avevo già lavorato in diversi progetti.
Ho trovato un brano nel loro archivio, registrato in una scuola d’opera dell’Europa dell’Est. Abbiamo scelto studenti che cantavano un pezzo di Nikolaj Rimskij-Korsakov. L’abbiamo leggermente rielaborato in collaborazione con loro.
La musica puramente cacofonica alla fine è di CJ Calderwood, un amico di Mica.
La colonna sonora include anche Eartha Kitt, che canta I Wanna Be Evil, e Maurizio Pollini che suona la Sonata in La maggiore di Franz Schubert.
AL: Torniamo a
Sirens. Sono rimasto davvero colpito dal montaggio. Hai solo tagliato, oppure hai anche ricomposto e fatto zoom avanti e indietro sulle immagini in movimento?
NG: Abbiamo rimontato alcuni frammenti, scambiando parti dello stesso film. Non abbiamo mai riframato né zoomato. In generale, le immagini sono rimaste così come erano.
AL: Credo di aver visto
Sirens tre o quattro volte di fila. Ogni volta, all’inizio del film, pensavo che fosse un viaggio sul volto — su cosa sia e cosa possa rappresentare. Poi, a un certo punto, il film cambia e si trasforma: si vedono piedi e braccia, poi tutto passa al bianco e nero, poi compaiono le fiamme. Ed è lì che ho avuto l’impressione che si instaurasse un dialogo meraviglioso tra la musica e le immagini: la colonna sonora, le urla, e il modo in cui le urla sono trattate mi ricordano la costruzione tipica della musica trance — una progressione estatica.
È come se lo spettatore fosse sul punto di entrare in uno stato di trance, ma ciò non accade mai: la progressione visiva e musicale cresce in crescendo, accumula energia, ma non c’è mai uno sfogo. È un viaggio verso un’estasi imminente — un about-to-become-ecstatic — una costruzione senza compimento finale né gioia, che ho percepito come un gesto linguistico capace di rispecchiare sia la traiettoria della protagonista sia il destino di coloro che rimangono incantati dalle sirene.
NG: Adoro quello che dici. Corrisponde perfettamente al modo in cui ho montato insieme a David Sherman, il mio straordinario montatore.
Per entrambe quelle opere,
Memory Lost e Sirens, non avevamo né storyboard né un’intenzione scritta. Non abbiamo pianificato nulla; abbiamo lasciato che fossero i materiali stessi a indicarci la strada.
Mentre lavoravo a un pezzo chiamato
Salome — che poi è diventato una proiezione su tre schermi — ho trovato una versione bizzarra di
Salome diretta da Carmelo Bene, con Donyale Luna, la prima top model nera della storia.
Mi colpì che fosse evidentemente “fatta” — aveva gli occhi dilatati. Mi venne l’idea di mostrare l’euforia delle droghe e la sensualità dello sballo. All’inizio è piacere. Era un’opera gemella rispetto a
Memory Lost e alla sua oscurità dell’assuefazione. In realtà l’ho realizzata per procrastinare, per rimandare il lavoro sul pezzo più doloroso.
Donyale compare per tutto il film, che si conclude con lo Screen Test di Warhol in cui è protagonista lei.
AL: In quella sequenza hai lasciato S
irens in silenzio. È perché gli
Screen Tests di Warhol erano normalmente muti? È una conclusione incredibilmente sensuale e toccante, molto profonda.
NG: Sì, gli
Screen Tests erano sempre muti. Volevo rispettare Warhol.
AL: Verso la fine, i filmati sembrano includere delle videocassette, soprattutto nella lunga sequenza in bianco e nero, dove si vedono i segni elettronici tipici del video. Mi chiedevo perché tu abbia scelto di integrare il linguaggio del video.
NG: Quelle immagini vengono da un film intitolato Anna, che contiene una scena in cui lei appare in televisione.
AL: Oh, conosco molto bene
Anna (1974). È una sorta di capolavoro sotterraneo nella storia del cinema sperimentale italiano — incredibile che tu l’abbia integrato. È considerato il primo lungometraggio nella storia del cinema interamente girato in video. È di Alberto Grifi, un regista e artista italiano anticonformista.
Quando venne a sapere della storia di Anna — una giovane donna incinta e senzatetto che vive nel centro storico di Roma — dal suo amico di allora, Massimo Sarchielli, cominciò un viaggio incredibile dentro quella personalità: è un film di quattro ore, una storia tenerissima, con echi di marxismo, colonialismo, povertà, anarchia, emarginazione, e soprattutto amore e alterità.
Il film cambia completamente quando la realtà passa da una parte all’altra della macchina da presa — quando l’elettricista si innamora davvero di Anna. È anche una storia d’amore straordinaria.
NG: Sì, è una storia d’amore. E quella è la parte che mostra il video con l’intervista televisiva che lei fece, all’interno del film.
AL: Mentre Anna fuma, il
Whistle di Mica Levi raggiunge il suo punto più tattile. Si sente il respiro fondersi con il fischio vero e proprio, e questo ritorna alla qualità quasi corrotta delle immagini. L’ho trovato così commovente. Non è solo un fischio: è anche respiro. Un respiro di vita, d’amore e di disperazione. Ecco perché ho trovato incredibilmente pertinente e sensuale la tua scelta di quell’estratto.
NG: È stato il mio amico Jake Perlin a farmelo scoprire. E lo abbiamo aggiunto quando abbiamo montato la seconda versione.
AL: A proposito, che mi dici delle sequenze di danza?
NG: Anche quelle parlano di estasi. Si balla meglio quando si è fatti. C’è
L’angelo ubriaco di Akira Kurosawa. C’è
Le Notti Bianche di Luchino Visconti. C’è
Mountains May Depart di Jia Zhangke, e anche Lynne Ramsay.
Ma soprattutto ci sono filmati da un rave londinese degli anni ’80.
AL: Hai detto una cosa che mi ha molto colpito sul volto: il volto come luogo, ma anche come possibilità di quel momento in una relazione tra due persone in cui smetti di guardare un volto, e il volto cambia.
NG: È in realtà una mia ossessione: quando smetti di guardare qualcuno a te vicino per molto tempo, e all’improvviso lo osservi di nuovo ed è una rivelazione. È un volto vecchio, ma anche nuovo. È così che vivo il mio rapporto con il mondo — ed è ciò che fotografo da quando avevo quindici anni.
AL: C’è un altro elemento in
Sirens che ho notato in modo ancora più evidente in Memory Lost: gli animali. C’è un momento bellissimo in cui ho avuto l’impressione che animali ed esseri umani in qualche modo si confondessero.
NG: Ti riferisci forse alla parte con la
Manson Family, in cui Eric bacia il cavallo. Quella famiglia aveva un rapporto molto intenso con gli animali, credo che vivessero letteralmente insieme ai cavalli.
In questo momento della mia vita, preferisco gli animali agli esseri umani e voglio continuare a lavorare con animali silenziosi.
AL: Intrigante. In
Memory Lost, ho avuto la sensazione di essere osservato dai gatti. Poi compaiono altri animali: gli uccelli, e infine ancora i cavalli. Perché questa presenza? Sembra una nuova linea di ricerca.
NG: Sì, è una nuova linea.
Memory Lost si è fatta da sé.
E poiché l’opera parla del vedere attraverso il velo dell’oscurità, gli animali appaiono spesso distorti o surreali. Non c’è nessun “gattino carino”: sembrano folgorati, o come allucinazioni.
Vorrei poter vedere ciò che vedono gli animali.
Ci sono molti cavalli, anche di un circo equestre di Parigi e del mio stesso cavallo in Egitto.
Questa foto, per esempio, è rovinata perché l’ho scattata a una corsa di cavalli nel deserto, fuori Luxor: i ragazzini del posto non avevano mai visto una donna europea, né dei capelli di donna, e hanno lanciato del fango contro la mia macchina fotografica. Ecco da dove vengono i segni sulla foto.
Memory Lost parla molto del decennio in cui vivevo a Parigi.
Ero diventata molto isolata, ma continuavo a fotografare.
È composta quasi interamente da scarti. Le immagini non erano abbastanza nitide o tecnicamente buone per essere usate nei miei lavori abituali.
Così ho iniziato a scavare sempre più a fondo nei miei scarti e vi ho trovato moltissima bellezza.
Mi attraggono di più le immagini magiche, non letterali: quelle fuori fuoco, danneggiate.
Era un periodo in cui non usavo ancora la fotografia digitale, quindi nulla è stato manipolato: tutto è accaduto realmente.
Per me c’è qualcosa di magico in questo, come una sorta di voodoo, e c’è sempre stato: uno spirito dentro la macchina fotografica che operava.
AL: Come li hai assemblati? Devi avere un archivio enorme. Come hai navigato tra i materiali e li hai messi insieme?
NG: L’archivio comprende decine di migliaia di immagini, e oggi lo esploriamo quotidianamente.
Ho scelto scavando, cercando fotografie che avessero solo una chiarezza minima, che non descrivessero nulla di preciso.
Non c’è una foto che identifichi una persona in particolare.
È interessante, perché in
Memory Lost ci sonopochissime figure umane, ma quando il pubblico ne parla, ricorda le persone.
Questo dimostra che gli esseri umani ricordano altri esseri umani meglio di qualsiasi altra immagine. È ciò a cui si legano, anche se, in realtà, le persone sono quasi incidentali nell’opera.
In Memory Lost, molte delle persone ritratte sono sotto effetto di droghe, o comunque segnate da esse.
Memory Lost è come una crisi d’astinenza dolorosa.
Sirens parla dell’essere “fatti”, dell’estasi;
Memory Lost parla della prigionia.
Per me,
Memory Lost è la mia opera più importante dai tempi di The Ballad.
AL: È un memoriale estremamente ricco, empatico e sublime.
Non appare subito come un lavoro completamente nuovo, perché mostra paesaggi domestici e in qualche modo familiari.
Ci sono aneddoti, molti oggetti, fotografie.
È sempre qualcosa che si trova su una parete, sopra un camino o su una mensola — tutte scelte che mi fanno pensare a un memoriale.
Ho avuto la chiara impressione di un memoriale cantato da un coro — una sorta di canto collettivo.
Ad esempio, ci sono molti messaggi telefonici, e mi sono chiesto come tu sia riuscita a conservarli per tutti questi anni, insieme a conversazioni o interviste con dialoghi.
Ne risulta una sorta di coro di voci umane che non si vedono necessariamente.
NG: Adoro questa interpretazione.
Anch’io lo sento come un coro che muove l’opera.
Di solito il mio lavoro è guidato dalle voci, che diventano la voce narrativa.
Questa è un’altra maniera di far parlare le immagini.
Ci sono voci, ma le immagini non sono montate in funzione di esse.
È anche, in un certo senso, un’opera commemorativa.
E ho conservato tutto. Avevo una scatola di scarpe con le cassette della segreteria telefonica, e non le avevo mai più ascoltate da quando le avevo registrate, negli anni Ottanta.
È stato davvero uno scavo d’archivio.
E oggi non esistono più segreterie telefoniche, né registrazioni di quel tipo.
Non so nemmeno se le persone capiscano cosa siano: è un altro linguaggio.
Poi ci sono anche interviste contemporanee, realizzate durante la creazione dell’opera.
AL: Le persone intervistate sapevano del lavoro che stavi realizzando?
NG: Sì, sapevano che stavo lavorando a un progetto sull’assuefazione.
Ci sono state interviste con psichiatri, storici dell’arte, medici.
Ma alla fine ho deciso di usare soprattutto le voci dei miei amici che parlavano delle loro esperienze con le droghe; la maggior parte di loro oggi è sobria, quindi si tratta dei loro ricordi.
Da lì è nato un nuovo archivio.
AL: È davvero un memoriale, un processo toccante di ricordo e rievocazione.
Vorrei chiederti una cosa: sono rimasto colpito dalla presenza del fuoco in Sirens, e poi le fiamme tornano in
Memory Lost.
Ho avuto l’impressione che tu introduca il fuoco quando ti serve movimento, inquietudine, ma anche quando cerchi luce e riflessione.
NG: Immagino che sia una forma di “bella distruzione”.
Non avevo mai pensato al fuoco in termini di movimento visivo, ma è come una forza controllata.
C’è un uomo che sputa fuoco. Ci sono incendi contenuti, ma che lasciano cicatrici.
Mi piace quel senso di rischio, di pericolo, e il fuoco è anche qualcosa di estremamente bello e seducente.
AL: E per quanto riguarda
Salome? Devo dire che quando l’ho vista per la prima volta, mi ha davvero sorpreso.
NG: Ho realizzato quell’opera per divertimento.
Avevamo creato una piccola versione di
Salome usando filmati d’archivio, per includerla in una mostra nel carcere di Reading, dove fu imprigionato Oscar Wilde, e poi abbiamo deciso di ampliarla.
In un certo senso, è simile alla storia di Sirens: parla di seduzione e distruzione.
AL: Mi ha colpito come hai fatto funzionare i tre schermi, e lo sguardo degli uomini, guidato da ciò che monti sugli schermi laterali — una scelta linguistica semplice ma potente nel ritmo dei fotogrammi.
Ho trovato Salome piena di meraviglia. È davvero un’opera sullo sguardo, sulla meraviglia dell’incontro, sull’inatteso che affiora. È questo ciò che mi è rimasto dentro.
NG: Parla dello sguardo maschile portato al suo estremo, ma è anche ironica.
C’è anche il caos creato dalla tempesta sul terzo schermo.
Sul pannello centrale si vede la danza dei sette veli, ma chi danza? È una donna?
Sono versioni diverse della figura femminile: una
Salome è una macchina, e l’ultima è trans.
AL: Perché avete deciso di usare quella di Ken Russell?
NG: Abbiamo visto ogni singola versione di
Salomé mai realizzata. E volevamo una scena con la testa di Giovanni Battista tagliata e lei che la bacia. Ci sono così tante Salomé terribili. Quindi, anche se Ken Russell è pacchiano, è una delle versioni migliori. Il resto del quadro è orribile, come gli uomini chassidici ai margini dell’inquadratura. Abbiamo provato a ritagliarli. Ho visto Ken Russell fin da quando ero piccola. È il regista più estremo e volgare.
AL: È incredibile, mozzafiato, e sempre oltre ogni limite. È una scelta davvero sorprendente. Anche musicalmente, è inaspettata. Come hai incontrato quella traccia, così non ovvia? È una specie di pezzo elettronico?
NG: È disco primordiale. Si chiama C Spot, e il produttore è amico di una mia cara amica. Abbiamo provato a usare l’opera di Richard Strauss. Abbiamo provato la musica di alcuni dei vari film. E poi un giorno ero sotto la doccia e ho pensato che ci volesse disco. È stata una delle mie idee migliori. Non ho idee spesso, ma quella lo era. E la adoro.
AL: È davvero buona; urla forte.
NG: Sto anche rielaborando alcuni pezzi vecchi con tracce disco.
AL: Non filmerai più. Preferiresti lavorare di nuovo con il materiale già esistente?
NG: Sì. Voglio lavorare di più con film già esistenti. Non fotografo più. Vedo così tanti fotogrammi nei film su cui vorrei costruire, ma non so ancora come. Voglio fare un pezzo sull’invecchiamento, ma è difficile trovare film che non parlino del pathos dell’invecchiamento, e ci sono così poche mie immagini che lo trattano. La maggior parte delle persone è giovane e bella. Non riesco a immaginare cosa fotograferei.
AL: Penso che ciò che colpisce chiunque abbia un background nel cinema d’artista o sperimentale, è che apri una direzione completamente nuova e inaspettata nel trattare il materiale d’archivio. È stata la mia più grande sorpresa, dato che ho sempre seguito artisti che lavorano con il film come forma controculturale, un’arte sovversiva, da Joseph Cornell e Bruce Conner in poi. La pelle. Sento che lavori sulla pelle e sugli strati, non per caso: in qualche modo la tua interpretazione è legata a un’idea specifica dei tempi in cui si vedono aghi e la materialità reale delle cose. Ed è incredibile, perché riguarda un nuovo strato, un modo diverso di trattare le superfici come se fossero pelle; il tutto risulta molto fragile, molto sensibile, molto vivo, e sorprendentemente autentico.
NG: Sono senza parole. È la cosa migliore che abbia sentito su questo pezzo. In cosa differisce da come altri hanno usato materiale trovato? La fragilità? O la selezione dei film?
AL: Il montaggio, semplicemente il montaggio. Il modo in cui tagli delicatamente, come se toccassi e sfiorassi, e il modo in cui scivoli da un taglio all’altro – è sempre connesso al movimento. Movimento a letto, da destra a sinistra, su e giù. È completamente diverso. Non sono pezzi tagliati a caso. Non sono frammenti tagliati e giustapposti. È così drammaticamente diverso, senza paragoni. Anche il dialogo con la musica è così legato alla percezione corporea. Legato al vedere, al sentire, all’olfatto, e soprattutto al percepire e sentire.
NG: Quindi il soggetto è la seduzione; questo è il suo effetto, si spera. Se dovessi dire come voglio che la gente lo percepisca, non riguarda “questo è Cluzot”, “questo è Portobello”, “questo è Fellini”. Non si tratta di nominare i segmenti; si tratta di lasciarsi sedurre e viaggiare con esso.
AL: Esattamente. È in qualche modo un viaggio.
NG: Sì, è quello che deve essere. Esattamente. Grazie, mi rende molto felice. Voglio che la gente lo senta nel proprio corpo.
Nan Goldin Sirens, 2019–2021 Veduta dell’installazione, Marian Goodman Gallery, New York, 2021
Nan Goldin
This Will Not End Well
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