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La Galleria Nazionale
Works are out of joint
Mirco Marino

Galleria NazionaleGiuseppe Penone, Spoglia d’oro su spine d’acacia, 2002


 

Works are out of joint
Attraversare La Galleria Nazionale
Mirco Marino

Time Is Out of Joint, il tempo scardinato e disilluso, composto da riemersioni dal profondo e sorprese, è una mostra che sembra basarsi su una temporalità simile a quella dell’anacronia. Un tempo che si contrae nel momento della visita esplodendo in frammenti di tempo eterogenei, che collidono e costringono a vedere il passato dialetticamente, in un’audace impossibilità di ricostruzione storica lineare.
In questo saggio sono mostrati tre esempi, tre sale o gruppi di opere che convivono nella dinamica dialettica di questo tempo out. Il primo, l’ormai celebre salone di Ercole e Lica, che è anche il salone in cui 32 metri quadrati sono occupati dal Mare, impone all’osservatore, portato a emanciparsi, il tentativo di ricostruzione del senso a partire da frammenti che collidono. Il secondo, è un discorso maggiormente warburghiano, si tratta di guardare alle tre Ninfee che occupano una piccola sala al primo piano, un discorso che è introdotto attraverso lo sviluppo dello stesso tema declinato in tre modi, e tre epoche, diverse. Il terzo e ultimo esempio è il tentativo di rendere conto della pluralità d’interpretazione di una saletta angolare, del disimpegno che introduce alle scale che conducono al primo piano del museo. La lettura che in questo spazio di crocevia si impone risponde anch’essa, conformemente allo spazio, all’incrocio di strade diverse.

Galleria NazionalePino Pascali, 32 mq di mare circa, 1967; Antonio Canova, Ercole e Lica, 1795-1815; Giuseppe Penone, Spoglia d’oro su spine d’acacia, 2002

Ercole e il mare

L’ampio salone che si apre sull’ala sinistra del primo piano della Galleria vede esposte un gruppo di opere che hanno assunto, per il loro essere estremamente scenografiche e cinematografiche, il ruolo di immagine simbolo dell’intera mostra Time Is Out of Joint. Le dimensioni della sala sono di 14 per 33 metri con un’altezza di 10 metri. Sui lati vi sono tre aperture, due verso le sale minori, e una sul corridoio che fa da perimetro all’apertura su una delle corti interne. L’illuminazione pervade la grande sala attraverso un ampio lucernaio che corredato di faretti garantisce la corretta illuminazione delle opere.
Le opere si mostrano come un insieme così bilanciato da rendere difficile tracciare gli equilibri della sala, facendo tornare alla memoria quella frase di Wittgenstein riportata da Kosuth “ciò che guardi come un dono è per te un problema da risolvere”.

Galleria NazionalePino Pascali, 32 mq di mare circa, 1967; Antonio Canova, Ercole e Lica, 1795-1815; Giuseppe Penone, Spoglia d’oro su spine d’acacia, 2002

Nella topologia generale della sala, lo spazio assume a tutti gli effetti l’aspetto di un’ellisse che presenta al centro due fuochi: Ercole e Lica da una parte, e 32 mq di mare circa dall’altra. Intorno a queste gravitano le opere di Twombly, Klein, Castellani e Mondrian che definiscono l’allestimento, il quale resta in ogni caso mobile e temporaneo, suscettibile di essere riallestito.
Ercole e Lica, scolpito da Antonio Canova tra il 1795 e il 1815, rappresenta fin dal suo ingresso in Galleria il punto d’inizio della storia della collezione del museo. Con un’altezza di 3.35 metri, e il moto guizzante ed energico delle sue forme l’opera conquista senza dubbio il centro dell’attenzione all’interno della sala. La tragicità della rappresentazione neoclassica è resa attraverso una tensione generale delle due figure, e la linearità del movimento è data dalla struttura geometrica semplice, che nel suo insieme può essere ricondotta a una forma triangolare.
Alle sue spalle è installata l’opera Spoglia d’oro su spine d’acacia di Giuseppe Penone (2002). L’imponente tela di 12 metri conta sulla sua superficie migliaia di spine d’acacia posizionate in modo da tracciare i contorni di una bocca. Al centro, tra il labbro superiore e quello inferiore una piccola lamina d’oro completa l’opera. Riconducibile alla linea poverista, di cui Penone è esponente fin dalla fine degli anni Sessanta, la tela possiede una propria capacità di impressionare: è la visione ravvicinata, come quella costretta dalla disposizione della sala in Time, che consente di perdere l’orientamento generale del disegno delle labbra e smarrirsi tra i mille violenti aculei che sporgono dalla superficie.
Dall’altra parte della sala, il secondo fuoco dell’ellisse è quello di 32 mq di mare circa di Pino Pascali (1967). Di nuovo nel mondo dell’Arte Povera, la natura è qui investigata attraverso trenta vasche quadrate in alluminio zincato contenenti acqua colorata all’anilina. L’anilina, sostanza di per sé incolore acquisisce cromia attraverso varie miscele di coloranti ma anche a seconda dell’illuminazione. Sembra interessante qui, e come vedremo anche in altre opere di Pascali che saranno prese in esame, la dinamica che nell’opera viene a crearsi tra natura e cultura. Il mare di Pascali è un mare estremamente culturalizzato, è un mare che è stato sottoposto al processo di artificializzazione per eccellenza: la misurazione. Sezionato e diviso in trenta precisissimi quadrati, si tratta di un mare che ha perso il suo moto, la vitalità, e definitivamente la sua naturalità. L’unico spazio dinamico è quello che viene conservato in quelle vasche che come onde sulla spiaggia si distaccano dal loro insieme, ma solo per farvi ritorno.
È necessario notare come il mare di Pascali si ponga in rima con la forma a griglia del lucernaio. Si tratta di una rima quasi baciata, poiché non è solo eidetica, ma anche topologica, il mare installato a terra riflette il lucernaio del soffitto, creando un’asse verticale marcato e una situazione di sospensione, uno spazio che riflette sé stesso mediante sé stesso, poiché è proprio la luce proveniente dal lucernaio a consentire il riflesso.

Galleria Nazionale Pino Pascali, 32 mq di mare circa, 1967; Yves Klein, International Klein Blue 199, 1958; Enrico Castellani, Superficie bianca, 1964 circa; Piet Mondrian, Grande composizione A con nero, rosso, giallo e blu, 1919-1920.

Alla destra del mare troviamo, specchiato in esso, La caduta di Iperione di Cy Twombly, una grafia caotica che realizza una lettura mitologica opposta al classicismo canoviano; e un altro senza titolo di Cy Twombly. Alla sinistra dell’opera vi compaiono un monocromo blu oltremare di Yves Klein, International Klein Blue 199; un’elegante quanto delicata opera di Enrico Castellani, Superficie bianca; e in rima con la griglia del mare e del lucernario, l’equilibrato bilanciamento di linee e colori di Piet Mondrian, Grande composizione A con nero, rosso, giallo e blu. Il montaggio delle opere nella sala appare strutturato per relazioni e contrasti, per strutture evidenti e conversazioni sottovoce. È necessario allora soffermarsi e osservare per comprendere come le relazioni formali che le opere tessono tra di loro compongano un discorso composito, in cui un’opera ne richiama un’altra, che a sua volta si connette a un’altra ancora.
Partiamo nuovamente dal mare, quel mare che duplica lo spazio in un riflesso che sospende il tempo, ma è un mare che ha perso il suo moto, e che sembra invece ritrovarlo nell’opera totalmente bianca di Castellani. In quest’opera i chiodi posizionati dietro la tela regalano una superficie uniformemente ondulata, un paesaggio di pressioni e rilievi che si alternano regolarmente, un moto ondoso che conserva una dinamicità nella stasi che è impressa dal retro della tela. Un mare incolore, la cui componente cromatica va ricercata allora non in esso, ma nel montaggio con il profondo blu oltremare di Klein.
Nell’esposizione le due opere sono state “montate” l’una accanto all’altra, per rendere conto dell’espressione di un senso che può avvenire soltanto attraverso la relazione, il contesto. Infatti, oltre a essere entrambe riconducibili allo stesso clima artistico della seconda metà del Novecento, tra espressionismo astratto, Nouveau Réalisme, e un principio di minimalismo, le due opere non presentano caratteristiche comuni, né tantomeno era intenzione esplicita dei due artisti rappresentare il mare o il moto ondoso. Ciò che avviene, secondo i principi del montaggio, è invece la creazione di un senso comune, un motivo che lega elementi eterogenei nell’espressione di un mare destrutturato nelle singole opere, e ricomposto nel loro montaggio.
Allo stesso modo l’opera di Castellani instaura un dialogo, in quella tattilità della visione professata da Riegl e Wölfflin, con le spine di Penone, in quest’ultimo l’aggressione perforante degli spunzoni fuoriesce dal quadro, mentre è invece attutita, silenziata, sotto a quel velo che è la tela di Castellani, una pressione che crea tensioni regolari: è pulsante ma contenuta.
Accanto a Castellani troviamo l’opera di Mondrian, che riporta il motivo a griglia, già individuato nei 32 mq di mare circa e nel lucernaio della sala. Si tratta di una griglia che adesso è la ricerca dell’equilibrio compositivo perfetto, di componenti eidetiche, cromatiche e infine topologiche, e che quindi sembra richiamare da vicino l’equilibrio quasi sospensivo della sala, quello ellittico attorno ai due fuochi centrali.
Lo stesso equilibrio è mantenuto anche nel corso del tempo in cui la sala ha visto dei cambiamenti e delle aggiunte, come una tavola di Warburg, essa non è mai statica, ma sempre suscettibile al cambiamento, al rimontaggio che permette nuove configurazioni di senso possibili. L’istallazione del feltro Untitled di Robert Morris è una di queste. L’opera introduce la stessa categoria della sospensione che è messa in atto attraverso l’idea di galleggiamento del riflesso dalle acque di Pascali. La morbidezza del feltro crea forme curve che sono “naturalmente” autogenerate, avvicinandosi alla creazione di castellani. Inoltre, come sottolinea Saretto Cincinelli, il feltro si deforma in una configurazione triangolare, comune anche all’Ercole e Lica.

Galleria NazionalePino Pascali, 32 mq di mare circa, 1967; Piet Mondrian, Grande composizione A con nero, rosso, giallo e blu, 1919-1920; Arturo Martini, Le stelle (o Le sorelle), 1932 circa.

Le relazioni però non si fermano nello spazio della sala. Attraverso le “visuali prospettiche” progettate da Bazzani, il ritmo di tensione e sospensione verticale creato dal mare e dal lucernaio è sottolineato da un’opera di collegamento: Le stelle (o Le sorelle) di Martini, visibile centralmente attraverso l’apertura sulla sala adiacente. Il mare si unisce al cielo in un montaggio di opere e componenti architettoniche.
Se queste sono connessioni formali, che possono apparire come velleitarie e arbitrarie tra opere capaci di disconnettere il tempo, esiste una connessione molto più profonda nella sala, una connessione che pertiene alla sopravvivenza della cultura, in definitiva mitologica.
Il mito di Ercole e Lica, raccontato ne Le Metamorfosi di Ovidio comincia con una lotta, quella di Ercole con il fiume Calidonio per la mano della giovane e bella fanciulla Deianira. La vittoria di Ercole segna l’inizio della sua fine: mentre faceva ritorno con Deianira verso la sua patria si trova a dover attraversare il fiume Evèno, “cresciuto per le piogge del freddo inverno” (1) , qui incontra il centauro Nesso, che si pone in aiuto della fanciulla per il passaggio da una sponda all’altra. Una volta attraversato il fiume a nuoto, Ercole sente l’urlo della malcapitata Deianira, che il centauro sta cercando di rapire e portare con sé. L’eroe scaglia allora una lancia contro il centauro colpendolo dritto nella schiena, uccidendolo. In punto di morte Nesso intima “Non morirò invendicato!” (2) , e con la promessa di pozione d’amore, (3) “quale stimolo magico all’amore” , dona a Deianira la sua veste intrisa del sangue ancora caldo.
Molto tempo dopo, Deianira viene a conoscenza di voci e menzogne che parlano dei tradimenti di Ercole nei suoi confronti. Disperata, la sposa riflette sulle possibili soluzioni:

La sua mente
vacilla fra pensieri contrastanti,
ma fra le tante soluzioni sceglie
quella d’inviare ad Ercole la veste
con il sangue di Nesso, che dia forza
all’amore languente, inconsapevole
della rovina sua. (4)

Intanto, Ercole aveva mandato Lica a prendere la camicia e il mantello per le grandi occasioni, in quanto l’eroe si stava preparando per un grande sacrificio di ringraziamento a Zeus (5). Deianira affida quindi a Lica la camicia intrisa del sangue del centauro. Lica era già partito a tutta velocità sul suo cocchio quando Deianira, guardando il panno di lana che aveva gettato nel cortile, lo vide ardere come paglia mentre una schiuma rossastra ribolliva tra i ciottoli. Resasi conto che Nesso l’aveva ingannata, mandò un messaggero a spron battuto per avvertire Lica. […] Il messaggero giunse troppo tardi […]. Eracle aveva già indossato la camicia e sacrificato dodici tori (6). Il sangue di Nesso era intriso di veleno. Ben presto Ercole, tentando di trattenere il lamento, esplode dall’intollerabilità del dolore e “riempì delle sue urla tutti i boschi del monte Eta” (7). Da questo momento la lettura di Ovidio diventa molto dettagliata e ci porta a comprendere quel sottile velo che Canova ha scolpito sul corpo di Ercole, insieme al dolore dell’eroe:

Cerca allora di togliersi di dosso
quella veste mortale, ma nei punti
in cui la tira, tira anche la pelle
e - cosa orrenda a dirsi - o gli rimane
attaccata alle membra, nonostante
gli sforzi ch’egli fa per distaccarla,
o gli strappa le carni e mette a nudo
le ossa enormi. E intanto il sangue stride
come una lama incandescente immersa
in una vasca piena d’acqua gelida,
e poi si secca al fuoco del veleno.
Non c’è scampo: le fiamme gli divorano
avidamente il petto, un sudor livido
scorre sul capo, i tendini, bruciati, stridono.(8)

Galleria NazionaleAntonio Canova, Ercole e Lica, 1795-1815; Giuseppe Penone, Spoglia d’oro su spine d’acacia, 2002.

Ercole, compresa la sua imminente fine, non può che rivolgere la sua ira agli dèi e a suo padre Giove. Trascinandosi su per il monte Eta, mentre abbatte alberi grida “Su queste spalle ho sostenuto il cielo!” (9). In una roccia sul monte l’eroe trova Lica, il quale si nasconde, sconvolto da ciò che ha causato:

Con la rabbia
accumulata dal dolore: «Lica»,
gli grida, «devo a te questo regalo
pestifero? Sei tu che m’hai ucciso?».
Quello, atterrito, pallido e tremante,
timidamente cerca di scusarsi,
e come parla e abbraccia le ginocchia
al nipote di Alcèo, questi l’afferra
e per tre, quattro volte roteandolo
lo scaglia nelle acque dell’Eubea
con più violenza d’una fionda
. Lica,
sospeso nello spazio, si congela:
come ai gelidi venti - così dicono -
la pioggia solidifica mutandosi
in bianca neve, e i fiocchi si condensano
turbinando nell’aria e agglomerandosi
in una fitta grandine, così,
scagliato in aria dalle forti braccia
dell’Alcìde, gelato dal terrore,
prosciugatisi ormai tutti gli umori,
Lica si muta in dura roccia. Questo
racconta la leggenda. E ancora oggi
nel mare dell’Eubea sporge uno scoglio
sopra i gorghi profondi,
dalla sagoma di un corpo umano (10) .

La parte in corsivo riportata nella citazione è l’esatto momento presentato da Canova. Ercole afferra il povero Lica, malcapitato corriere della veste intrisa di veleno, e lo fa roteare per tre, quattro volte prima di scagliarlo in mare. Nel volo, Lica subisce la metamorfosi trasformandosi in roccia.
È allora così che la composizione, l’allestimento museale, acquista un senso cinematografico. L’elemento della roccia è senz’altro chiaro, il marmo della statua sembra quasi indicare una narrazione prodromica, mostrando il futuro dello sventurato Lica. Ma è soprattutto l’elemento del mare che illumina il senso, e la possibilità di dialogo, del montaggio delle opere di Canova e Pascali. La scena presentata da Canova si riflette nel mare, mare in cui Lica viene scagliato con forza da Ercole in quell’esatto momento, e in cui si erge per sempre come scoglio, incagliato nel suo stesso riflesso. La bocca che punge alle spalle dell’Ercole è stata ricollegata alla bocca di Deianira nella lettura di Cecilia Ribaldi:

di fronte a noi si svolge l’ultimo atto della vita dell’eroe greco che, con i muscoli tesi al limite dello sforzo, in preda alla furia e in lotta contro il suo destino di more, inflittogli da una donna, la cui bocca echeggia nell’opera di Penone, getta Lica nel mare di Pascali (11) . Mentre le spine vengono connesse alla sensazione di estremo dolore descritta da Ovidio, causata dal bruciore della veste sul corpo di Ercole, nella descrizione di Saretto Cincinelli. In riferimento all’opera di Penone:

Un’opera che si ricollega dunque – per l’utilizzo di materie primarie – a Pascali e alla grammatica “poverista” ma anche, per riferimento alle spine e alla pelle, all’Ercole canoviano, infuriato per il bruciore causatogli dal contatto della propria epidermide con la tunica intrisa del sangue avvelenato del centauro Nesso (12). La sala sembra quindi creare relazioni attraverso il montaggio delle opere su più livelli: se le dinamiche dialettiche che si instaurano tra il mare di Pascali e le opere che in esso si riflettono si basano su relazioni e rime tra le varie caratteristiche topologiche, eidetiche e cromatiche affini, quindi prettamente sul piano dell’espressione; si sviluppa anche un discorso sul piano del contenuto che vede protagoniste tre opere distanti nel tempo, ma che collaborano nella narrazione di un mito che introduce ancora un altro tempo, quello specifico mitologico, un tempo perenne ma anche estremamente capace di essere dimenticato e di rinascere e sopravvivere in un altro tempo, sorprendentemente, nelle sale di un museo di arte fin dalla sua origine dedicato al contemporaneo.
Si tratta quindi di un tempo che è sì out of joint ma anche un tempo lunghissimo e lontanissimo, quello della memoria culturale che connette il mare e il cielo in uno sguardo condiviso verso le stelle.

Ninfee

Il titolo ninfee non può che rimandare al padre dell’Impressionismo, Claude Monet. Monet è presente in Time Is Out of Joint con l’opera Ninfee rosa dipinta tra il 1897 e il 1899.
L’opera è posizionata in una piccola stanza di passaggio nel primo piano rialzato dell’edificio. La sala presenta aperture su tutti e quattro i lati posizionandosi quindi all’incrocio di più stanze, questo è già un aspetto molto significativo per i legami che si instaurano tra Monet e le opere visibili dalle aperture prospettiche.
Nella parete di fronte all’opera sono esposte due video installazioni di Luca Rento, Ninfee 17 Luglio 2004 14.06.30, e Ninfee 17 Luglio 2004 14.06.45, (2004).

Galleria NazionaleMedardo Rosso, Bambino alle cucine economiche, 1892-1893; Stefano Arienti, Ninfee (dettaglio n.7), 1991; Giuseppe De Nittis, Le corse al Bois de Boulogne, 1881; Claude Monet, Ninfee rosa, 1897-1899.

Galleria NazionaleLuca Rento, Ninfee 17 Luglio 2004 14.06.30; Ninfee 17 Luglio 2004 14.06.45, 2004.

L’opera di Monet è un’istantanea delle ninfee nel giardino della sua casa a Giverny, in cui si trasferì nel 1883. Il tema delle ninfee è ricorrente nell’opera del pittore dalla fine degli anni Novanta dell’Ottocento fino ai primi del Novecento. L’opera rappresenta i fiori con pennellate ampie e sommarie, questi galleggiano su un’acqua violacea che va dai toni del viola, al verde al marrone, il cui lento movimento è portato da pennellate curve dinamiche. I tre fiori spiccano nella parte superiore della tela mentre il resto è occupato dalle fluttuanti foglie dipinte rapidamente. L’opera è stata definita istantanea perché il taglio dell’inquadratura ha molto a che vedere con il taglio dell’inquadratura fotografica.
L’opera di Rento è senza dubbio un omaggio al pittore impressionista. Gli schermi video dell’artista sono posizionati dietro a due spessi passe-partout che inquadrano l’immagine e nascondono i bordi degli schermi stessi. Questa soluzione di messa in discorso conferisce al video dei tratti pittorici: la fruizione delle installazioni video è di solito elemento significativo del piano dell’espressione, schermi o proiettori diventano il medium specifico per il débrayage e al pari della cornice, circoscrivono lo spazio dell’opera indicando i punti in cui l’opera inizia e finisce. Attraverso gli ampi passe-partout, le coperture fanno sparire lo schermo retrostante e ciò che il visitatore percepisce risulta al pari di un quadro in movimento, proprio perché quelle coordinate che garantiscono il riconoscimento del medium video sono celate alla vista.
Questo genere di messa in discorso sembra funzionare molto bene in questo caso, dove la camera fissa relega il moto a quello naturale del galleggiare delle ninfee, un moto lento e pulito. Nell’opera, le ninfee procedono nel tempo, in un tempo ben circoscritto, come è evidenziato dal titolo, è quindi un tempo che si trasforma nel tempo della durata, ma che è anche ciclico, il video è in un loop continuo.
L’incontro tra Monet e Rento, il dialogo che spazialmente avviene nell’opposizione, le opere sono disposte l’una di fronte all’altra sembra allora un dialogo sul tempo. In questo caso sarà necessario riportare le parole di Renato Barilli a proposito del tempo impressionista:

In formula, l’intero complesso sinergico delle pennellate impressioniste si può esprimere nel nodo colore + luce + forma. Bisogna però aggiungere a tutto ciò una particolare indicazione temporale: la sinergia, cioè, si esplica in un tempo zero, vale a dire, tende a bloccare il rapporto reciproco colore-luce-forma come esso si dà in un singolo istante; appena un attimo dopo, le condizioni di luce, le disposizioni delle forme, e quindi anche il colore dei corpi, saranno mutati, e quindi il buon pittore impressionista dovrà cercare di fissare a volo un altro rapporto sinergico, riannodare in altro modo le tre componenti (13) .

Il tempo impressionista è quindi quello dell’istante, il t0, il tempo della fotografia, dell’unione delle componenti del linguaggio pittorico nel momento, nell’adesso. Questo da una parte ci costringe a guardare alla nozione di Jetztzeit di Benjamin, un adesso che è crogiuolo, che si dà come uniforme ma che è unione di tempi multipli, tempi di immagini passate nel presente; dall’altra ci permette di impostare un dialogo contrastivo con le videoinstallazioni di Rento.
Il nodo centrale dell’intervento di Rento non sembra tanto essere di natura di formale, quanto piuttosto mediale. Si tratta di una traduzione da un medium all’altro dello stesso tema. Proprio questa traduzione comporta però un cambiamento nella struttura profonda dell’opera, il tempo impressionista si estende, si allunga nel tempo del video che è il tempo della durata, prolungato, ma è anche un tempo ciclico, infinito, il t∞.
Si tratta allora di uno spostamento del discorso sul tempo sconnesso da esterno all’opera, quello della cronologia e delle date, a un tempo interno all’opera, quello introdotto dalle caratteristiche specifiche di questa.
Lo scardinamento temporale imposto da Time Is Out of Joint avviene allora su un altro piano, pur mantenendosi anche sul piano cronologico: la sala consente l’intravisione di opere riconducibili al clima impressionista e post-impressionista: Le corse al Bois de Boulogne, di Giuseppe de Nittis (1881); la Villa borghese – Parco dei daini di Giacomo Balla (1910); La caduta degli angeli di Gaetano Previati (1913) circa; e infine l’Ercole saettante di Émile Antoine Bourdelle e la citazione manetiana di Alain Jaquet Le déjeuner sur l’herbe (1964).
Il montaggio delle due Ninfee trova attinenze con l’Atlante della Memoria di Aby Warburg e la sua nozione del Nachleben, ma anche con il concetto di semiosfera di Jurji Lotman, in cui il senso, la conoscenza, avviene attraverso le continue traduzioni che avvengono al suo interno, in questo caso di medium.
Ad aggiungersi temporaneamente a questo dialogo compositivo è un’altra declinazione dello stesso tema: Ninfee (dettaglio n.7) di Stefano Arienti (1991). L’opera interroga un’altra temporalità, quella del gesto. L’informalità di Arienti si evolve assieme a una materia posta grezza direttamente sulla tela.
Il quadro di Arienti esposto per poco tempo nella sala in cui il dialogo tra i due tempi di Monet e Rento è stringente sembra inserirsi, con un occhio storico, in una dimensione evolutiva artistica del tema, dall’iniziale impressionismo di Monet, attraverso forme che richiamano il clima dell’informale italiano anni Cinquanta riconducibile alla linea dell’Ultimo Naturalismo di Arienti, per svilupparsi nell’immaterialità della video arte di Rento.
Questo a dimostrazione che un tempo out of joint non significa una rinuncia alle possibilità di sviluppo nel tempo di un tema attraverso nuove forme, ma anzi può significare sottolineare che è proprio attraverso questi salti temporali, questi anacronismi e queste sopravvivenze che l’arte si manifesta in quanto fenomeno e vive.

Naturale/artificiale

Il percorso museale in Time Is Out of Joint è una scelta del visitatore, che libero al pari di un flanêur contemporaneo, può passeggiare tra le sale in quella spazialità caratterizzata da una continuità frammentata.
La scelta di prendere in esame la prossima sala deriva non tanto dall’importanza che essa assume all’interno del percorso globale, si tratta di una piccola stanza all’angolo dell’ala destra dell’edificio originario; deriva piuttosto dalla descrizione di un fenomeno che avviene proprio per la posizione interstiziale della sala nello spazio generale dell’edificio. Ideata come sala di minori dimensioni per ospitare stampe, disegni o piccola scultura nel progetto di Cesare Bazzani del 1911, diventa luogo di passaggio nel progetto di ampliamento, creando un apertura con delle scale che portano al primo piano realizzato nel 1938.
È allora l’aspetto che oggi assume quella piccola stanza di 4,5 metri per 4,5 metri che è interessante, l’aspetto di crocevia tra più spazi che nell’esposizione sembra essere fondamentale.
La particolarità di questa stanza sta nell’articolare un senso interno in un movimento tra artificiale e naturale, ma anche dei significati diversi a seconda della soglia da cui vi si fa ingresso, quindi a seconda delle opere che contestualizzano l’entrata nella sala.

Galleria NazionaleJohn Chamberlain, Senza titolo, 1965; Pino Pascali, 1 mc di terra 2 mc di terra, 1967.

Lo spazio è organizzato attorno a una scultura di John Chamberlain, artista legato al clima del Black Mountain College negli anni Cinquanta e al gallerista Leo Castelli negli anni Sessanta. L’opera, Senza titolo (1965), è un assemblaggio, un montaggio, di pezzi di recupero di automobili che compongono nell’insieme una configurazione informale, un’ammasso di carrozzerie dalla policromia metalizzata e lucente.
È proprio la componente metallica e lucente che la pone in stretta connessione con l’opera appesa alle sue spalle: Superficie a testura vibratile 2 (Opera programmata 3161) di Getullio Alviani (1965). Il quadro composto da lamelle metalliche inclinate posizionate regolarmente muta al movimento dell’osservatore sulla base di come il fascio di luce proveniente dai faretti collocati sul lucernaio colpisce la superficie.
Alzando lo sguardo alle pareti della sala, è installata 1 mc di terra 2 mc di terra, opera di Pino Pascali (1967). Dislocata su due lati adiacenti l’opera è composta da due parallelepipedi regolari in legno ricoperti di terra per uno spessore di 3-4 cm. L’opera, come i 32 mq di mare circa, fa parte della serie “Elementi naturali”, in cui l’artista procede in una standardizzazione della natura. In questo caso l’elemento naturale della terra, come lo era il mare, è sottoposto al processo di antropologizzazione per eccellenza: la misurazione.
Misurare è per l’uomo il tentativo di tenere sotto controllo e organizzare il caos naturale, dare un numero al mondo per poterlo fare proprio, per poterlo studiare e analizzare, per poterlo trasformare e per costruire.
Alla luce di questo la sala sembra avanzare un discorso a proposito del binomio categoriale di artificiale e naturale, di cultura e natura.
Da una parte abbiamo i rottami di Chamberlain, scarti di macchine, pezzi di ricambio. La loro manifestazione si pone in contrasto con ciò a cui è associata quotidianamente l’automobile: design, misura, regolarità delle forme, liscezza. In questo caso alle forme regolari si oppone un assemblaggio deformante, ed è attraverso questo montaggio che avviene la traduzione dal quotidiano all’artistico. L’informe irrompe nel mondo di ciò che è forma, avanzando delle domande su vari aspetti: a livello storico-artistico sembra segnare una connessione con il readymade duchampiano e gli objet trouvè di Man Ray, ma si pone anche come un collegamento transatlantico contemporaneo con le ricerche del Nouveau Réalisme di Arman e Cesar. A livello tematico può insistere sul tema dello scarto, del rifiuto nell’epoca del capitalismo, ma anche richiamare un tema più tragico simile ai Car Crash di Andy Warhol.
Dall’altra abbiamo il mondo naturale, la terra, che a sua volta si manifesta in contrasto alle sue forme quotidiane: irregolarità, caos, naturalità, ruvidezza. Qui alle forme irregolari della natura si oppone un tentativo di presa di controllo su di esse, un standardizzazione e sistemazione, in definita un ordine. Si tratta di una manifestazione ricollegabile al clima dell’Arte Povera, cui Pascali prenderà parte negli anni Sessanta. Si delinea allora una dinamica concettuale oppositiva, se l’elemento naturale è di norma irregolare, e l’elemento artificiale è di norma regolare, qui i due termini vengono scambiati, rilanciandosi in una creazione di senso per contrasti:

da:
naturale : artificiale :: irregolare : regolare
a:
naturale : artificiale :: regolare : irregolare

Il senso della sala sembra quindi venire espresso attraverso questa opposizione, scambiando due termini categoriali.
Non è tutto. Le opere nella sala costruiscono collegamenti anche con le opere presenti nelle sale adiacenti attraverso il meccanismo di visuali prospettiche strutturato dall’architettura di Bazzani. La sala diventa un crocevia non solo in termini spaziali, ma anche di senso.

Galleria NazionaleBerlinde De Bruyckere, We are all flesh, 2012; John Chamberlain, Senza titolo, 1965.


Il primo caso è quello di una visita che avviene idealmente passando dalla sala che vede esposta la scioccante opera di De Bruyckere. Due carcasse animali acefale sono appese al soffitto della sala, come nella macelleria del padre che l’artista da bambina soleva frequentare. È un iperrealismo inquietante che affascina e richiede al visitatore di avvicinarsi, di girare attorno a quei corpi sospesi. L’opera è una delle poche a essere mediata da un piccolo testo a lato, data la rarità, è qui riportato:

Nelle opere qui esposte, l’artista indaga il dolore e intende dimostrare come la sofferenza e l’orrore della violenza accomunino sia umani che animali. Nessun animale è stato ucciso per la realizzazione di questi lavori.

La visuale aperta sulla sala di Chamberlain, porta inevitabilmente a considerare delle possibili connessioni con le opere dell’artista belga. Ambedue le opere rappresentano una fine, quella naturale e quella della macchina. Si tratta del contrasto sul tema naturale e artificiale, veicolato attraverso il motivo del corpo morto e della materia assemblata. Un contrasto che è evidenziato anche cromaticamente: il grigio-violaceo delle sculture animali e i colori accesi e brillanti dei pezzi di macchina. In definitiva, le carrozzerie dell’artista americano sono carcasse di macchine allo stesso modo in cui quelle di De Bruyckere sono carcasse animali.
Il secondo caso l’arrivo alla sala dalla sala loggia laterale, che nel progetto doveva essere dedicata alla scultura, data l’illuminazione naturale difficilmente controllabile. La sala si presenta basata su un contrasto cromatico netto tra il bianco delle sculture di LeWitt e le opere scure tendenti al nero che sono installate alle pareti. In particolare è possibile notare come le forme spigolose e bianche dell’artista dialoghino per contrasto con le forme scure che pulsano dalle pareti nelle opere di Francesco Lo Savio. Le quali a loro volta entrano in un contatto diretto, per somiglianza, con quei copertoni che rendono precaria la colonna di eternit di Zorio.
Dall’angolazione presentata è possibile notare come le due sculture di piccole dimensioni, quella di LeWitt e quella di Chamberlain appaiono simili per configurazione, per struttura. L’evidente differenza di rifinitura e la differenza tra policromo e acromo rendono interessante un dialogo che è puramente formale. Chamberlain è distante dal clima minimalista e strutturalista di LeWitt, e le opere sono distanti una generazione l’una dall’altra. Ciò non toglie che, nuovamente, attraverso un montaggio ad hoc le due opere possano riconoscersi l’una nell’altra, stabilire un contatto morfologico.
Il dialogo con il nostro crocevia avviene anche attraverso corrispondenze di scuola, cronologiche: sulla soglia è presente, oltre alla già citata colona di Zorio, anche l’opera di Boetti Per un uomo alienato. Entrambe rimandano a quel clima poverista degli anni Sessanta, che è presentato nella sala dalle terre di Pascali.

Galleria NazionaleGiuseppe Palizzi, Bosco di Fontainebleau, 1874; John Chamberlain, Untitled, 1965; Ana Mendieta, Untitled (Burial Pyramid), 1974.


L’ultimo caso è, per concludere, la via che porta fuori dalla sala, una scalinata ascendente che conduce al primo piano. Uno stretto pianerottolo accoglie Bosco di Fontainebleau di Giuseppe Palizzi che occupa nei suoi 3,20 per 2,32 metri l’intera parete laterale. Lo stretto spazio, la dimensione e la prospettiva dell’opera consentono un’immersione completa nel bosco dipinto dall’artista di origini abruzzesi ma di formazione della scuola Barbizon. L’effetto globale è quello di luogo di passaggio, una soglia, proprio come nell’architettura della Galleria quel pianerottolo è la soglia che si apre al primo piano rialzato.
In contrasto sulla parete opposta sono montate delle fotografie dall’opera di Ana Mendieta Untitled (Burial Pyramid). L’opera, che si compone oltre alle cinque fotografie presenti in mostra, di un progetto video, mostra il processo di sepoltura dell’artista, la quale viene ricoperta dall’elemento naturale.
Le opere montate l’una di fronte all’altra, sembrano comunicare entrambe la stessa sensazione di immersione: la prima quello dello spettatore che in uno spazio di appena nove metri quadrati scopre la grande opera di Palizzi posizionata perfettamente all’altezza del proprio sguardo; la seconda in un’immersione rappresentata, quella del corpo dell’artista che viene inglobato dalla natura. In questo senso è significativo, in termini espressivi, il medium. Se lo spazio pittorico è evocativo e lascia che il visitatore perda il proprio senso dell’orientamento all’interno del bosco di Fontainebleau, la fotografia, in quanto attestato di realtà, presenta un’immagine che è verità, traccia evidente di una natura che, nel tempo, sopravvive all’uomo.
La categoria naturale è comunque presa in questione in un’ottica opposta rispetto a quella di Pascali, nel caso di Mendieta non è l’uomo a misurare coi suoi strumenti conoscitivi l’elemento naturale; quanto la natura stessa a inglobare col suo tempo l’uomo.
In conclusione, è chiaro come il montaggio delle opere per relazioni formali e tematiche, e a volte, cronologiche dia vita a quello che è stato definito “il gioco illimitato” . Le connessioni che si alternano e si susseguono nelle stanze sembrano avere un ruolo fondamentale nella costruzione della continuità frammentata che isotopicamente si presenta in Time Is Out of Joint, dall’architettura alle singole opere. Allo stesso modo è necessario rendere conto del fatto che il senso che si crea deve molto alle strategie di montaggio e rimontaggio di volta in volta introdotte negli spazi.
Infine, ciò che conta è che la visita può prescindere dalla vittoria di una delle due parti all’interno del “gioco”, il flâneur continuerà a passeggiare, le opere continueranno a rimontare il proprio senso, e solo così il “gioco” potrà continuare.

Note
1) Ovidio 8 d.C., libro IX.
2, 3, 4) Ib.
5) Graves 1963, p. 519.
6) Graves 1963, p. 520.
7) Ovidio 8 d. C., libro IX.
8, 9, 10) Ib.
11) Ribaldi 2020, p. 486.
12) Cincinelli 2020b. p. 442.
13) Barilli 1984, pp. 46-47.
14) Montezemolo, Elhaik, 2020, p. 531.

Bibliografia:
Barilli R., L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2018 (prima ed. 1984).
Cincinelli S., “Il tempo inter-detto”, in C. Collu, (a cura di), Time is Out of Joint. Il progetto espositivo, Silvana Editoriale, Roma, 2020.
Graves R., I miti greci, Longanesi, Milano, 2015. Prima ed. 1963.
Montezemolo F., Elhaik T., “Il gioco illimitato”, in C. Collu, (a cura di), Time is Out of Joint. Il progetto espositivo, Silvana Editoriale, Roma, 2020.
Ovidio P. N., Le Metamorfosi, 8 a.C., Scaffidi Abbate M. (a cura di), Newton Compton Editori, 2011.
Ribaldi C., “C’era una volta la storia”, in in C. Collu, (a cura di), Time is Out of Joint. Il progetto espositivo, Silvana Editoriale, Roma, 2020.

Questo saggio è un estratto dalla tesi di laurea magistrale in Semiotica del Visibile Out of Joint discussa presso la facoltà di Arti Visive dell’Università di Bologna nel Luglio 2021. Relatrice Prof.ssa Lucia Corrain, Correlatrice Prof.ssa Silvia Grandi.

 

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Attraversare La Galleria Nazionale
Mirco Marino
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