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Michele Di Stefano
Scrittura Coreografica

 
Michele Di StefanoMichele Di Stefano ©



Michele Di Stefano – Domande per una conversazione
a cura di Caterina Di Rienzo

L’estetica contemporanea definisce il piano di un discorso sulla danza.
Parto da alcune categorie dell’opera di Mario Perniola, ma vado anche oltre: il conflitto, il sentire differente, il corpo senza soggetto…

temi di un’estetica che non si riconosce nella tradizione estetologica armonizzatrice e conciliatrice degli opposti, ma piuttosto ha di mira la lotta, la tensione e la sfida posti alla base della vita intellettuale e della società contemporanea, in relazione a un valore non contemplativo bensì strategico del bello. E ciò vuol dire trovare nella bellezza una “acutezza” concettuale ed etica che produce effetti sociali.

E così la sensibilità esce dalle forme Sette-Ottocentesche, ma anche da quelle della prima metà del Novecento perché non riguarda più il sentimento dell’io, né la sensazione di un corpo come sostanza stabile e unitaria. Piuttosto un sentire differente, un sentire la differenza che pone in questione l’esperienza sensibile che ha al proprio centro il soggetto, quel sentire cioè che ha strutture di soggetto (soggetto pensante, soggetto senziente).

Détournement del sentire dalla sfera del sentimento e dell’emozione, quindi dall’alloggiamento nella soggettività, che inevitabilmente conduce a una idea di corpo affatto dissimile dalla tradizione (corpo meccanico, organico, vitalistico). Si tratta infatti di un corpo in uno stato e in uno stadio particolare della sua ontologia, poiché divenuto, potremmo dire, corpo senza soggetto, senza la centralità di un ego. Rompere il circuito della identità stabile e unitaria lo estende oltre il limite del proprio e ne attesta una presenza più complessa di quella del ‘corpo di qualcuno’.

In quanto arte contemporanea, che esplode dai confini e dai generi identificabili, la danza richiede di essere discussa in un’ottica che supera quella angusta del settore. Essa è un microcosmo del mondo, spazio privilegiato per osservare gli spostamenti e le tensioni del contemporaneo in cui la posta in gioco è un diverso sentire che come una “postura politica” (MDS) ridisegna la mappa del corpo nella società del capitale e nell’epoca delle relazioni mediate dai meccanismi della rete.

Ne nasce un singolare campo di analisi da esplorare con il lavoro di Michele Di Stefano.

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Caterina Di Rienzo - La danza definisce un sistema dell’incontro e della relazione, ma stabilisce anche un “sistema del conflitto e della tensione”. Un’idea in grado di portare conflitto e tensione sulla pura acutezza del movimento

Michele Di Stefano - Non necessariamente il movimento è acuto, selettivo. Facendo riferimento a Barthes, l’ottusità può essere vista come un ampliamento dello spazio di intervento: in termini fisici ad esempio una sfocatura dello sguardo permette alla visione periferica di coprire una superficie più vasta e contemplare più dettagli.
Anche la proiezione di sé nell’andatura, migliora se il luogo dove focalizziamo l’attenzione è più distante dal sé, in teoria il più distante possibile, in teoria la linea dell’orizzonte eccetera. Quel che cerco di dire è che non si tratta in effetti di conflitto nella relazione, quanto di balistica; la relazione cioè comincia quando riusciamo ad identificare nell’altro “ciò che l’altro sta per diventare”, quando collochiamo l’altro in un territorio imminente che non si è ancora manifestato, territorio esterno, esternità sua alla quale posso sovrapporre la mia, il mio “stare per”. Suona un po’ astruso, ma di fatto molto concretamente sposta il piano dell’azione in un terzo luogo che non è né il mio né il tuo.

La mia teoria è che quando questo luogo non è frontale, non genera un “faccia a faccia”, c’è un consistente aumento di dinamica, un potenziale enorme di collusione che ha poco a che fare con me e con te, e certo ogni sviluppo che non abbia a che fare con un modello assolutamente prevedibile è sempre teso, vibratile, ma conflittuale non so, non è una parola che uso forse perché sottende da qualche parte l’annullamento, come se il conflitto non si nutrisse in effetti dello sbilanciamento ma proprio del suo contrario, perché mi sembra partire sempre da una centratura, e invece siamo qui ogni volta per scartare di lato, perché no?

CDR - Turbolenza e strategia sono ulteriori parole chiave in questo sistema di azioni e reazioni velocissime

MDS - Si, turbolenza in quanto generazione prodotta da quantità molto differenti tra loro, non determinabili al di fuori di una intuitiva discriminazione del caos; è tutta qui la strategia, contenere nell’azione la traccia della diversione, stiamo parlando di danza quindi quella dimensione tutta particolare in cui è l’instabilità a tenere salda la carne, in cui si vede la carne pensare nel momento in cui uno spostamento contiene la possibilità della direzione opposta, in pratica tutta l’enfasi sulla sospensione e il grado zero della dinamica propria alla danza contemporanea sembrano dirci proprio questo, resta distratto nell’azione, pensa a quel che sta per accadere o a quel che è accaduto secondi fa, lascia perdere l’affermazione del tempo presente, sei già da un’altra parte, strategizza nell’economia dei tuoi gesti il fatto che potrebbero non andare a compimento, abbandonare il locale.

“Areare il locale prima di soggiornarvi” potrebbe voler dire intuirne il potenziale dinamico prima di attraversarlo e lasciare che la tua azione non sovrasti mai quel potenziale. C’è dunque una posizione di visione, una percettività che infine può informare il corpo, perché il modo per non distruggere il potenziale dinamico di un ambiente è probabilmente contenere tutte le sue linee di fuga (per questo mi riferisco allo spazio in senso atmosferico e mi diletto a sproloquiare di meteorologia) e per farlo bisogna assumere una densità fisica molto precisa, che si può costruire ogni giorno con l’allenamento.

La danza è questo meraviglioso paradosso: mentre si inscrive nel vuoto segnando irrimediabilmente il tempo, contemporaneamente cancella quella stessa iscrizione perché la sua efficacia dipende dal movimento opposto, in realtà stai sparendo da lì, la tua densità diventa tale che potresti benissimo non essere lì e tutto questo mi sembra abbastanza per concederci il lusso di sognare connessioni cosmiche più misteriose, brividi quantistici e altre irragionevoli strategie di metodo. Sono cose che si apprendono, a volte basta la parola giusta per cominciare a lavorarci: a me lo ha insegnato Lucia Latour molti anni fa, lei si riferiva a questa qualità come “prensilità”, e lo considero un grande regalo.

Quella prensilità è diventata poi politica (la uso tutt’oggi sull’autobus all’ora di punta), musicale (mi permette di considerare il suono nella sua qualità fisica come propulsore di deragliamento controllato), relazionale (non esiste prossemica che non si possa inondare, perché lo spazio interno è infinitamente disponibile alla mobilità, è la sua organicità) ma il senso è sempre lo stesso: mentre vado per il mondo potrei improvvisamente scartare di lato, pensa al gibbone che scorrazza allegramente da una liana all’altra e avrai l’immagine precisa di questa condizione della carne.

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CDR - La danza, in quanto spazio dell’aperto, è apertura al rischio, cioè al mondo come ciò che ci mette sempre di fronte “a qualcosa che non si conosce”

MDS - L’aperto, il fuori, la radura, il vuoto. Quel che veramente non conosciamo è la prossima manifestazione di quello spazio, conseguentemente il corpo si predispone all’attraversamento nell’allerta. Questa allerta è produttiva solo se frutto di una estrema decontrazione, che garantisca la massima mobilità (per questo ogni tanto ho voglia di riguardare Set and Reset, perché la danza sembra incredibilmente intuitiva, sempre pensata per l’occasione del momento).
È certo un cedimento strutturale, un’anatomia del possibile; avere un’aria incognita – stare nell’incognito – mi sembra estremamente elegante, al punto che il risultato mi appare come molto naturale, la naturalezza è esaltata dalla imprevedibilità, insomma più che una ricerca dell’ignoto non siamo piuttosto in una accettazione dell’ignoto?

E che altro potremmo fare? Ogni volta che all’orizzonte umano si profila la ricerca dell’ignoto, mi viene alla mente la figura del turista, archetipo della reversibilità controllata. Per questo penso che un danzatore non cerchi un bel niente, ma che si assuma in pieno la responsabilità di andare dove gli pare; questa disponibilità apre nuovi spazi, che sono tutti vicinissimi e così la geografia si sovrappone al corpo: un arcipelago nel cervello, una foce nella mia mano, sto divagando.

CDR - Potremmo parlare di un decentramento strategico in cui la danza cerca di toccare l’esterno, l’esternalità del corpo rispetto al soggetto, il suo “fuori da sé” che lo “insidia” e lo lascia fuori dalla “fortezza” della sua identità stabile

MDS - Fare resistenza impedisce di accettare la diversità, che genera la dinamica. Questo è ovvio.
Bisogna capire cosa sia l’identità, se si configuri per difetto come resistenza all’alterità o si definisca in maniera molto più problematica, per eccesso diciamo. Comunque, per spirito tranchant, mi sembra che senza un principio di inadeguatezza, un “improprio” contenuto nel suo stesso essere, l’identità non valga la pena di essere considerata.

Siamo tutti inadeguati a sostenere la sua essenza; l’identità dovrebbe essere soprattutto una faccenda momentanea di rapporti, senza speculazioni sull’origine che sottendano un pregiudizio sulla destinazione. Ci dovrebbe bastare il fatto che tutti veniamo al mondo, considerare solo il dato della nascita come informazione, con il suo bell’ “ovunque” e “chiunque” come corollari, e poi mettere insieme tutte le combinazioni possibili dei nostri rapporti con tutti per cercare di rilevare l’algoritmo definitivo che ci definisca, possibilmente strumento di nessuna speculazione di mercato; oggi l’identità è soprattutto un target, ed in quanto coreografo ne approfitterei per sbarazzarmene.
Pensavo ad una nozione appresa in un testo di Francois Jullien, che “cosa” in cinese si dice “est/ovest”, è cioè il prodotto di un rapporto.

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CDR - Operare in uno “stato senza ego” è disorganizzare il corpo attraverso un piano in cui c’è un proliferare del movimento senza centro, una sorta di rizoma, senza unità dell’ego, “inventando strumenti per staccarsi da sé”, per fuggire “dal centro” attraverso “strategie” di movimento non connesse all’espressione e alla rappresentazione soggettivistica

MDS - Si, senza dubbio. Si può fare anche l’opposto e stare al centro del centro, che è ugualmente vuoto.
Ma in genere il movimento, lo spostamento ramificato, funge anche da antidoto alle paure che ci assalgono quando ci sparpagliamo in giro. Questa calma così ottenuta ci permette la pazienza necessaria ad attendere nel modo giusto un manifestarsi incidentale che abbia le caratteristiche della bellezza.
Per incidentale intendo qualcosa che è comprensivo sempre anche di altro, qualcosa non necessariamente nel quadro particolare, sicuramente nel quadro generale. Per questo un danzatore non può essere isolato dalla sua straordinaria alfabetizzazione e non può che dichiararsi un tramite di qualcosa che il linguaggio contribuisce semplicemente a non definire (meteorologia).

CDR - Il sentire differente è una amplificazione percettiva che produce nuova sensibilità, e come un punto, al contempo, di rottura e di nuovo equilibrio sensoriale

MDS - Io penso, sempre a proposito di rapporti, che sia tempo di sfruttare al massimo l’occasione traumatica generata dal nostro operare in quanto specie e, anziché accettarci come un’epidemia irreversibile, potremmo generare la cultura necessaria a togliere la condanna nei confronti di ciò che ci definisce – sempre come specie.
Potremmo togliere la condanna che pesa sull’animale e ripartire da lì. Non può esserci nuovo equilibrio sensoriale senza questa immensa rivoluzione.

W H A T W E A L L W A N T
note per SFERA di mk

La pratica è coreograficamente difficile ma non impossibile. Si tratta di considerare la danza come quella cosa che sta per produrre una informazione ambientale che ancora non c’è, considerare ogni azione come un fare spazio, a diversi livelli di profondità, spazio atmosferico spazio reale, proiezione, balistica eccetera. Si tratta di mettere i corpi - uno accanto all’altro - in condizione di prefigurare questa informazione negli altri corpi e agire di conseguenza, mentre contemporaneamente si continua a produrre lo stesso segnale di potenzialità col proprio corpo. Potenzialità di uno spazio che viene, non darlo per scontato, deve essere un fatto che si realizza molto più che un gesto estetico. Da un lato vuol dire allenare le regole di un ovvio ‘sesto senso’ spazio-temporale per costruire, dall’altro vuol dire anche prendere sempre in considerazione un’altra possibilità di movimento, come se ci fosse sempre una ‘legge della seconda scelta’ a determinare l’azione. Uno scopo meno chiaro, che non ha niente a che fare col dubbio. Il corpo dunque mentre agisce si offre al cambiamento di intenzione. E’ una condizione della carne tutta, scheletro compreso, la materia vivente si presta a questa rarefazione di intenti che contemporaneamente afferma e smentisce la propria intenzione ambientale.
Sarebbe questa la SFERA che ognuno produce, una condizione talmente intima da poter essere generata solo facendola coincidere con l’esterno più generoso. Un esterno non dato, che ‘sta per essere. Mi sembra vicino al mondo che vogliamo generare ed esperire, foresta.

Allora sulla ‘seconda scelta’: per sentire il corpo in questo spazio ipotetico tra l’una e l’altra scelta, ho pensato di trasmettere una ulteriore informazione in cuffia, in modalità discorso. Dico questo e questo e quello poi soffio poi dico un’altra cosa e un’altra. Elenchi, considerazioni cruciali, frammenti di discorsi alla notte degli Oscar, singole frasi incastonate nella loro necessaria solitudine e cascate di fatti, conversazioni origliate, schiocchi.
Ti chiedo di enunciare quello che senti, trovare la concentrazione per liberare la reazione ed inventarne il ritmo, lo spazio, il tempo, mantenere una distanza tra ciò che ascolto e ciò che dico. E lo dico solo per creare quello spazio nuovo dove poter trascorrere il corpo mentre lo dico. Pura emissione. Chissà poi se lo dico in inglese o in coreano, altri spazi altre esitazioni….

Torno ad essere fantasma, la mia visibilità è dovuta esclusivamente alla mia intensissima intenzione di dire. Mi manifesto come enunciazione; basterebbe il volto, probabilmente, una galleria di volti appiccicati l’uno all’altro, a compenetrare il desiderio di enunciazione nella maniera più giusta, ma quel che dà il movimento al pensiero in termini di esplorazione è impagabile e quindi non solo il fantasma ma anche il performer. Resta però questa attrazione per il volto puro come superficie, attaccato ad un altro volto. Il bacio di Giuda.

Michele Di Stefanodettaglio dell’affresco “Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta d’Oro”, Giotto

Il suono proviene da un luogo chiuso, è giusto così.
Lì dentro non si sa qual è il piano. In cuffia c’è sempre qualcos’altro.

Mi piace fotografare la gente che dorme sul traghetto, i vassoi di metallo, le porte azzurre, i tappeti all’aperto, i pavimenti in pietra, il Galata morente ai Musei Capitolini, le cosce e i peli sotto le ascelle. Il profumo del patchouli, sandalo, menta, timo selvatico. Mi piacciono i gufi e tutti i rapaci notturni, i caimani a pelo d’acqua e i nomi delle malattie tropicali. I nomi di alcuni the, come Lapsang souchong, le gelatine di frutta e i dolci alle mandorle siciliani. Mi piace dare titoli ai disegni, il gesto di chi guarda da un’altra parte mentre sta facendo qualcosa, viaggiare sul fiume, le colazioni continentali, le camere d’albergo senza quadri, i portieri di notte, l’arrivo di un autobus dalla Romania.Il suono di due pietre che battono, l’idea che qualcuno danzi con un piccolo sasso in bocca, le catenine d’oro.
Perché farsi martellare dal discorso in questo contesto non mi è chiaro, ma mi fido di questa sovrapproduzione ingiustificata, quasi un invito alla cautela che forse è interessante, una sorta di apoteosi della significanza spacciata per significato, o lanciare l’allarme per una disfatta imminente allo scopo di far trapelare un orizzonte più sobrio o semplicemente una strategia per rendere visibile un’atmosfera altrimenti inafferrabile?
Non lo so, al fondo ci deve essere una risoluzione molto semplice, che è quella di rendere visibile la capacità del corpo di offrirsi come generatore di atmosfera. Praticamente ho fatto il giro largo per tornare alla danza della pioggia.

"Hello. My name is Sascheen Littlefeather, I'm Apache, and I'm president of the National Native American Affirmative Image Committee. I'm representing Marlon Brando this evening, and he has asked me to tell you in a very long speech which I cannot share with you presently because of time, but I will be glad to share with the press afterwards, that he very regretfully cannot accept this very generous award. And the reasons for this being are the treatment of American Indians today by the film industry...excuse me...and on television, in movie re-runs, and also with recent happenings at Wounded Knee. I beg at this time that I have not intruded upon this evening, and that we will, in the future, our hearts and our understandings will meet with love and generosity. Thank you on behalf of Marlon Brando."(1)

La prima volta che ho visto il kecak a Bali mi ha travolto di felicità, mi sono immaginato qualcosa di analogo senza mitologia e narrazione, come capitare in un mercato chiassoso e caotico messo su come pura imitazione confusa della vita, dove tutti ma proprio tutti producono suono e rumore al solo scopo di portarti via, di catapultarti in una zone siderale dell’esperienza dove quel che pulsa ha un luogo e nessun luogo contemporaneamente e risuona dappertutto e naturalmente a pulsare è ogni infinitesima cosa. E poi quella risonanza è fatta di sfere.

Mi piace il Pantanal, la frase: quando crediamo di deridere l'ideologia dominante stiamo semplicemente rafforzando la sua presa su di noi, i discorsi sul linguaggio, l’argomento “turismo”, la meteorologia, la filatelia, saper distinguere le pietre preziose, imparare i nomi degli alberi, il motto di Tayllerand: la maggior parte delle cose si fanno non facendole.
Più stai accanto meno necessaria è la lingua. Ecco un’altra teoria estemporanea da mettere in pratica. Valutare il parlottio indistinto nella prossimità. Valutare anche una specie di azione taumaturgica dove afferrare e scuotere qualcuno può essere fatto solo attraverso l’evocazione di brand esclusivi al momento giusto. Ti prendo per il polso e ti scuoto e aaaaaaaaaahhhhhh oooooooohhh Chanel!

L’atmosfera è “un’articolazione sensibilmente e affettivamente avvertibile, e quindi esistenzialmente significativa, di possibilità vitali realizzate o non realizzate. (S)

Poi i contenitori, come una rotondità solo sfiorata, impossibile da portarsi armoniosamente addosso. Un trolley pesante, uno zaino militare, la tinozza dove vomitare la propria reazione all’ayahuasca, le buste dei negozi, la caramella da scartare: la caramella, un’altra rotondità che promette la dolcezza, l’arrotondamento, la sfera, bisogna sputare tutto, l’ambiente sono anche i propri rifiuti.
Una ragazza a Seoul aspetta il taxi alle due di notte al bordo della strada; è nuvoloso, intenso grigio monsone e umido, tutto sta per piovere, nell’unica vetrina illuminata di viola ci sono acquari di granceole e aragoste vive con le chele bloccate da fili di plastica. Aspettano l’inevitabile. L’acqua è satura di bollicine. Il taxi non arriva, la ragazza dai tacchi vertiginosi si accuccia su se stessa. Lo schermo gigante del suo cellulare la rende a malapena visibile a pochi passi dall’atrio buio di un grattacielo immenso dal quale sembrano diramare tutti i segnali elettrici del mondo circostante, semafori, fari di automobili, l’insegna di una banca lontana, il suo viso. C’è odore di alghe ed asfalto.

I nomi di posti con la O:
Ostenda- Okawango – Oklahoma – Odessa – Omaha – Osaka – Oran.
Il buco del Pantheon.

Una combinazione di gruppo tutta scritta, tutta in dinamiche alternative, dettagli non ergonomici, scarti, micro sinc, ripetizioni, catene, pause. Scomporre e ricomporre l’anatomia sociale. Con una illusione di totale improvvisazione. Isolare le danze singole. Poi ripetere. Mescolarsi nell’illusione di un disegno.
What we all want.

Nota
1 - Discorso di Sascheen Littlefeather agli Academy Awards del 1972, in occasione della premiazione di Marlon Brando per Il Padrino. Cfr. il database ufficiale dei discorsi degli Oscar.

Michele Di StefanoMichele Di Stefano ©

Michele Di Stefano
Coreografo musicista, performer, direttore artistico MK, ideatore di Grandi pianure – rassegna della danza contemporanea del Teatro di Roma –, Leone d’Argento per la Danza alla Biennale di Venezia 2014, artista impegnato sul terreno di lotta delle istituzioni, Di Stefano è tra gli autori più interessanti della trasformazione della coreografia nella svolta del contemporaneo, che fa della danza un transito velocissimo da un sistema all’altro, come in una “fuga” dalla scena verso il mondo (al contempo in una assoluta continuità dall’uno all’altro) nella sua libera vastità, togliendo il corpo e la danza da un centro identitario.

 

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