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Galleria ME Vannucci
Michelangelo Consani
Attraversò il campo di patate senza farsi alcun male

 
Michelangelo ConsaniUna pura formalità 2020 gesso, legno, filo di lana, bronzo, marmo, patate. Crediti fotografici Nicola Gnesi


Michelangelo Consani
Attraversò il campo di patate senza farsi alcun male
a cura di Pier Luigi Tazzi

"Attraversò il campo di patate senza farsi alcun male" è la mostra personale di Michelangelo Consani, a cura di Pier Luigi Tazzi, visibile alla Galleria ME Vannucci di Pistoia dal 25 aprile 2021. Michelangelo Consani interviene negli spazi interni ed esterni della galleria, con una mostra in linea con le riflessioni che da sempre fanno parte della sua poetica e del suo percorso.

Tutte le opere (in parte realizzate appositamente per l'occasione) formano un’unica opera totale, che si compone di immagini, suoni, sculture, installazioni, parole.

Ogni stanza della galleria è contraddistinta da un titolo che riprende quello di un film. Le opere realizzate per ciascuna stanza – escluse alcune che invece sono state realizzate in anni precedenti – traggono il titolo dalla stanza stessa.

Michelangelo ConsaniUna pura formalità 2020, disegni su carta e cartoncino da disegno francese, bronzo, marmo, patate. Crediti fotografici Nicola Gnesi


E RESTEREMO NEL FERRO DEI BALOCCHI¹
Pier Luigi Tazzi

Antefatto

Quando feci il mio primo sopralluogo, e vidi il capannone, il piazzale, e la straordinaria Via Gorizia - nomen omen -, un luogo di confine fra territori e epoche, pensai a Roberto Carifi e, alla libreria dello Spazio di Via dell’Ospizio, presi la sua maggiore raccolta di poesie, Amorosa sempre. Pensammo allora che la sua poesia potesse esserci di viatico.
Le cose poi sono andate in altro modo. Resta, per me, quel rumore di fondo. Attraversò il campo di patate senza farsi alcun male è piena di risonanze, accoglie letteralmente suoni, ne sollecita, a suo modo, l’entrata, spesso sommessa, da un altrove.

Attraversò il campo di patate senza farsi alcun male

Due amori di altri che vollero, non so perché, sfiorarmi, in epoche diverse e tanto lontane che sembrano appartenere ad altre vite, reagiscono di seguito, uno dopo l’altra, a questo annuncio, che è un titolo, ma che ambedue prendono/sentono come affermazione di un qualcosa: “che è già opera”, mi spiega Antonio.
Pina - dalla sua inebriante, profumata, antica Sardegna profonda che si porta appresso, addosso, nonostante la lunga lontananza - mi/si chiede del senso: “In che senso?”
Pasquale - dalla sua Calabria corrusca di energia panica - afferma perentoriamente: “ti garantisco che in un campo di patate è impossibile farsi male, escluso che nel mio ché è pericoloso anche solo guardarlo /…/”.

Tranquilli: è il titolo. Un titolo di un tipo che, se non specificatamente nell’arte, dove i titoli delle opere hanno la maggior parte delle volte la funzione di una legittimazione descrittiva o reattiva o addirittura polemica, si rifà a una grande tradizione, anche se relativamente recente, nella letteratura, nel teatro e nel cinema, quella di valersi di un parallelismo variamente incidentale con l’opera: da Raymond Roussel a Eugène Ionesco, da Haruki Murakami a Béla Tarr. Ha la brevità compressa di un haiku, senza averne la rigorosa struttura. È un enunciato sgombro di conseguenze, anche se ce ne saranno, e saranno riconoscibili per lo più di traverso. Annuncia uno stato più che indicarlo, uno stato che al momento non c’è ed è molto improbabile che ci sarà, anche se a quell’annuncio corrisponderà un evento, un’opera. È segno infine, che, traendo la propria origine da una intimità inconfessabile, aggancia una sorta di esistenza parallela e, a sua volta, nella propria incongruenza tende a riscattare quella della ‘realtà’ del vivere comune. Come un funambolo che gioca con la gravità, senza rete: “ton fil cependant /…./ n’oublie pas que c’est à ses vertus que tu dois ta grâce”².

Quel che annuncia questo in questo caso si manifesta in cinque stanze, anche e soprattutto nel senso della metrica in poesia³. Spiazzandosi tuttavia dalla linea tesa e malinconica su cui si erano disposti trent’anni fa Giorgio Agamben e quindi Jan Vercruysse⁴, quel che vi si manifesta scopre lo spazio oscuro sottostante a quella medesima linea. Raso terra. Il campo di patate.

Michelangelo ConsaniCosì lontano così vicino, 2020, legno di ciliegio, cemento, gesso cm 150 x 160 cm Crediti fotografici Nicola Gnesi


STANZA 1: Una pura formalità

Uno degli effetti dell’irresistibile caduta della civiltà dell’Occidente è la perdita del centro, nel suo antico e consolidato significato e nella sua funzionalità, e, parallelamente, l’emergere dei suburbi, delle periferie, delle province, dei margini, delle terre di nessuno: AYOR, At Your Own Risk. Come dice Pasquale, che di tutto questo ne sa qualcosa.

Per cui quel che resta del centro, o della mostra, come centro effimero dove l’opera viene a manifestarsi, a venire alla luce, è una pura formalità. Lina, il discreto compositore cambogiano di Wrapped Future, mi manda in questi giorni immagini del centro vuoto di Phnom Penh e mi comunica la sua meraviglia. Ray, più avvertito, quelle delle spiagge di Pattaya e me ne offre, offre a me, proprio a me, senza parole, la bellezza. Altri prima lo avevano fatto con New York, con Venezia, svuotate dalla pandemia, e non è lo stesso: voi non sapete, non avete visto, non avete saputo voluto vedere.

Qui ora un’epitome difforme di un campo di patate, come spargimento, diffusione, sparpagliamento (dis-)ordinato oltre i limiti, su cui domina, come dominava sui morti e sui superstiti del Radeau de La Méduse il negro che agitava con il braccio alzato il drappo rosso per la salvezza, “l’’eminence’ noir au sommet d’une pyramide humaine”⁵, qui ora la scultura sul suo trespolo tinto di verde di una testa in gesso tinto di nero di un giovane. Lo stile è quello delle rappresentazioni monumentali allegoriche in forma di figure virili tipiche dell’arte dei totalitarismi del secolo scorso, che si equivalgono esteticamente che siano fascisti, sovietici o nazisti.
La scultura comprende anche un incudine e un martello, quest’ultimo rotto, il frammento spezzato riposizionato sulla testa del giovane. Un filo di lana rosso vi si avvolge e taglia il volto in un contrappunto cromatico di grande effetto, che, a me, ricorda i colori di una bandiera degli anarchici.
Sulla parete lasciata com’era quando il capannone era adibito ad uso industriale, e non ne sono state cancellate le tracce, una quadreria sghemba di disegni di coccodrilli, anch’essi, come la parete che li accoglie, residui di un altro tempo che si perpetua, pur in via di estinzione, nel nostro tempo di cartongesso e di Lacoste. Ma mi viene anche da pensare al coccodrillo di Neverland, l’Isola-che-non-c’è, dimenticata e perduta, che attende a bocca aperta Captain Hook, Capitan Uncino, inesorabilmente, il tempo scandito dal ticchettio dell’orologio che ha ingoiato insieme al suo braccio⁶.
In piena luce sulla parete opposta la proiezione, flebile, di Progetto di disperdere energia, 2008, la cicala delle estati assolate del Mediterraneo, della controra pomeridiana, di Delfi e del Fedro platonico, della mia infanzia nelle strade sassose fra i cipressi.
Una pura formalità ha una sua musica, quella della canzone di Gene Kelly che è anche titolo del film Singin’ in the Rain⁷. È la merry melody di una resilienza post traumatica e un annuncio di tempi più felici: il superamento della Grande Depressione del 1929, l’inizio della corsa al benessere negli anni 1950. La adotta sarcasticamente Stanley Kubrick nel suo A Clockwork Orange del 1971 e la utilizza come contrappunto musicale ad una delle scene di violenza più disturbanti del film, invertendone la significazione: non più annuncio di tempi migliori, ma anticipazione della catastrofe: il massacro di Settembre Nero alle Olimpiadi di Monaco del 1972 e la Crisi Energetica del 1973 sono dietro l’angolo, singing’ in the rain.
Il suono antico della cicala egea colma, flebile e persistente, gli intervalli e non è, questa volta, una pura formalità.

Michelangelo ConsaniVariazione da fermacarte, 2005 ceramica smaltata a platino su fogli di carta Crediti fotografici Nicola Gnesi


STANZA 2: La migliore offerta

Nell’ufficio un display comme il faut: campana di vetro, fermacarte che tiene copie di qualche documento, probabilmente diventato inutile, una pila di patate, due quadri.
Ma …Eh sì: la campana di vetro copre una patata di bronzo, che è più o meno simile a quelle che erano numerose in Una pura formalità; il primo titolo del fermacarte era stato, nel 2005, Anarchica morte di un occidentale⁸; sul primo foglio sotto il fermacarte si legge: “L’artista svuota ciò che l’arte ha riempito.”⁹; le patate sono di marmo; nei due quadri sono disegnate figure angeliche. La migliore offerta sicuramente, e nondimeno Et vos estote parati quia qua nescitis hora (Matteo 24,44).

STANZA 3: Così lontano così vicino

Sta naturalmente a sé.
Serena fa circolare un brevissimo video con una ripresa dal basso verso l’alto. Immediati feed-back.
Tomaso: “Macchine celibi”, a cui rispondo che questa, come altre di oggi, sembrano, ancora più di quelle storiche di Duchamp e compagni, destinate a un’impotenza, un impotenza, quelle come queste, voluta dai loro stessi costruttori, allora come ora, ma in queste, e in questa in particolare, aleggia una struggente nostalgia di potenza.
Dilo, gentile: ”mi ricorda Danh Võ.” Più giovane Dilo ne ha riconosciuto il tipo di articolazione compositiva e non ha guardato ai significati, e forse è giusto che ora sia così che si debbano guardare le cose: non i loro significati, ma come sono state articolate, montate, alla fine è tutta una questione di montaggio. E il tipo di montaggio qui impiegato ricorda Danh Võ e compare prima di lui in David Hammons, in its instoppable drive, where the constant pulse of life is not interrupted even by death and everything continues as if in perpetual bedlam¹10, che a sua volta l’aveva mutuato dalla cultura afro-americana, a cui apparteneva, dai Black Panther, da Sun Ra Arkestra.
Ora David Hammons e Danh Võ emergono da culture soggette, quella degli Afro-americani con la loro storia di schiavitù e di discriminazione razziale, per il primo, quella prodotta dalla colonizzazione europea e dalla diaspora, per il secondo, nato in Vietnam da genitori sudvietnamiti cattolici rifugiatisi in Danimarca dopo la caduta di Saigon, e trent’anni più giovane: la loro grammatica mostra delle similarità nello stesso modo che le presentano le loro pur lontanissime storie. E allora mi chiedo che cosa pone Michelangelo Consani su questa linea di adozione di un simile montaggio dell’opera. Da che cosa dipenderebbe questa sua soggezione nel caso che volessimo accostare la sua storia a quella dei due artisti precedenti? Quale sarebbe insomma la cultura soggetta da cui scaturirebbe il suo modus operandi? Questione aperta, eppure così lontana così vicina.

STANZA 4: 2046

Il cortile, e quindi Rear Window, 1954, pullulante di esistenze minori come patate colorate, Technicolor e Pier Luigi Ighina, ma anche Fellini anni 1950 e Pasolini dieci anni dopo. Nature morte. Rada disseminazione. Nascondimenti. Puntamenti di una cromia minore e parcellare. Accostamenti brevi come altrettanto brevi paesaggi. Ma siamo fuori ormai, e ci si perde, ci si perde di vista. Tuttavia una potenza non simulata per quanto ridotta: i colori con cui sono state dipinte le patate sono quelli delle macchine di Ighina che facevano piovere e sedavano i terremoti.
Comunque “/w/henever someone asked why I left 2046, I always gave them some vague answer.”

STANZA 5: VIA PIER LUIGI IGHINA MILANO 1908 - IMOLA 2004 SCIENZIATO

Siamo usciti, siamo già per strada, una strada che per noi cambia nome, VIA PIER LUIGI IGHINA / MILANO 1908 - IMOLA 2004/ SCIENZIATO, uno degli eroi di Consani. Siamo fuori, ancora più nascosti, mimetizzati, semioccultati, ed è tutt’altro che certo per quanto tempo manterremo la posizione.

Pier Luigi Tazzi
Capalle aprile 2021

Michelangelo Consani2046, 2020, patate colorate Crediti fotografici Nicola Gnesi


Michelangelo Consani (Livorno 1971)
Ha sempre rivolto la sua attenzione a quella Storia che potrebbe essere definita come ‘altra’ rispetto alla Storia ufficiale e che si manifesta soprattutto come tensione, movimento vitale, sia a livello individuale – l’individuo come unità parcellare di un insieme che lo comprende – che a livello collettivo per una sorta di induzione simpatica spontanea da individuo ad individuo o a gruppo.
Fin dalla fine degli anni Novanta si interessa di ecologia, sostenibilità e decrescita sposando le teorie di Ivan Illich, scrittore, storico, pedagogista e filosofo austriaco.
I progetti di Consani tentano di portare alla luce personalità marginali, è il caso ad esempio di Masanobu Fukuoka – inventore e appassionato divulgatore della shizen nŏhŏ, una sorta di agricoltura naturale in opposizione alla scienza agricola dell’Occidente – che dal 2010 è una presenza ricorrente nel lavoro dell’artista.

 

Michelangelo Consani
Attraversò il campo di patate senza farsi alcun male
Galleria ME Vannucci di Pistoia. 25/04 - 31/07/2021
@ 2021 Artext

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