Open Menu
Fine del possibile
«Nessuno muore così povero da lasciare nulla in eredità.»
Ovvero resistere alla fine del possibile
Maurizio Guerri

 
cristina-pancini Cristina Pancini L’heure exquise, esperimento dal risultato incerto per un numero variabile di persone e una torta, 2016 tecnica mista




Fine del possibile

Il tema della Fine del possibile. Tra l’esausto e l’esaustivo proposto dalla Galleria Frittelli insieme all’associazione Quinto Alto di Firenze è stato affrontato con le opere in mostra degli artisti Massimo Barzagli, Paola Di Bello, Sophie Ko Chkheidze, Carlo Fei, Serena Fineschi, Francesco Lauretta, Franco Menicagli, Paolo Meoni, Giancarlo Norese, Cristina Pancini, Claudio Parrini, Olga Pavlenko, Takashi Yamashita e in un piccolo simposio cui ho avuto l’onore di partecipare insieme a Ubaldo Fadini, Francesco Galluzzi, Katia Rossi.
In che senso l’«esausto» e la «fine del possibile» riguardano l’arte? In uno dei suoi ultimi scritti, Gilles Deleuze pone al centro della sua riflessione proprio la parola «esausto», riconoscendovi la postura caratteristica dei personaggi di Samuel Beckett, a loro volta incarnazioni di un aspetto essenziale dell’uomo contemporaneo.
Il tema della «fine del possibile» e dell’«esausto» può essere incontrato in molteplici snodi sul terreno del presente. Un tema centrale a me sembra quello legato alle immagini come sempre più separate dall’immaginazione, come forme dell’esaurirsi dell’immaginazione. Le immagini da modi di articolazione dell’immaginazione, con l’imporsi dei nuovi media – fotografia, cinema, e ancor più con il digitale – sono divenute sempre più in modo integrale merce e spettacolo. L’immaginazione tende sempre meno a realizzarsi in immagine, piuttosto assistiamo a come nelle immagini l’immaginazione piuttosto si scarichi, fino a consumare il possibile, fino a esaurirsi. Il proliferare delle immagini che si producono 24/7 possono ora essere concepite come il nulla attraverso entro cui si logora l’immaginazione e con essa la libertà dell’uomo. L’idea stessa di rivoluzione – a qualsiasi rivoluzione o trasformazione si pensi – si depotenzia, fino a esaurirsi nelle immagini. L’essere umano globale nell’epoca della ipermedialità sembra essere destinato a un perenne presente scandito dalla alternarsi ciclico (e senza senso) di produzione e consunzione delle immagini.
Una serie televisiva divenuta molto celebre Black Mirror costruisce una fenomenologia molto ricca dei processi di assoggettamento – che riguardano ogni sfera della nostra esistenza, fino a toccare la capacità e la possibilità di decidere, di agire, di amare, di ricordare – cui siamo sottoposti una volta che l’umanità globale è consegnata agli attuali processi di mediatizzazione delle vite nel quadro del capitalismo globale contemporaneo. Le immagini cui diamo forma sono assorbite dal sistema mediatizzato fino al punto in cui ci vediamo spodestati della capacità di agire con e su di esse. In fondo, il carattere intrinsecamente imperialistico dello stile visivo in cui viviamo è leggibile fin dagli inizi quando con l’affermarsi e il diffondersi della fotografia e del cinema ogni tipo di sguardo altro rispetto a quello foto-cinematografico scivola sotto la soglia di esistenza, in ogni caso diventa «passato»; lo sguardo fotocinematografico diventa così l’unica corretta visione al punto da invalidare ogni modalità precedente di fare immagini.


I media alla conquista della «cura del sé»

In merito agli ultimi esiti del nostro rapporto con i media si pensi a come sia sempre più diffusa l’attività di log in, per poter accedere a servizi on-line così come per entrare in un social network. Fare log in significa accedere attraverso un proprio profilo a se stessi, ma chiedendo il permesso di accedere ad altri, in particolare alle Big Companies che dopo aver sottoposto l’utente a domande – che prima erano di pertinenza solo ed esclusivamente di pubblici ufficiali in situazioni ben determinate – diventano proprietarie di parole e immagini che noi condividiamo attraverso le piattaforme. Il gruppo Ippolita nel loro ultimo volume Anime elettriche. Riti e miti social hanno osservato con attenzione attraverso quali pratiche noi cediamo la nostra libertà attraverso l’utilizzo che noi facciamo dei social network. Si pensi, per esempio, a Facebook che invita a inserire parole e immagini che ci riguardano, appropriandosi di una modalità molto antica di «tecnologia del sé» che è quella del diario. La nostra pagina di Facebook si apre con la seguente domanda: «A che cosa stai pensando?» Nel diario, nella lettera o nella confessione noi condividiamo con amici, amanti, confessori, confidenti o a noi stessi i nostri pensieri. La confessione o il diario hanno come fine quello di accedere a se stessi, di confrontarsi con la propria anima, trasformarsi, crescere, appropriarsi di sé.
Di certo i social network si inseriscono in questo solco del «conosci te stesso», della pratica confessionale, (con tutte le differenze che esistono tra il mondo classico e la cultura cristiana), solo che se andiamo a osservare da vicino come si esercita questa pratica nei dispositivi che utilizziamo quotidianamente ci accorgiamo che il soggetto si trova proiettato in una dimensione diversa rispetto a quella della «cura del sé». Nei diari emerge con forza il ruolo che può svolgere la scrittura su di sé come una delle vie principali dell’epimeleisthai heautou, del «prendersi cura di se stessi» come «tecnologia del sé» – secondo l’espressione di Michel Foucault – mediante cui il singolo procede a una formazione di se stesso, interviene attivamente nella propria vita attraverso pratiche che imprimono una forma e un senso alla propria soggettività. Anche i diari, continuava Foucault, costituiscono una di quelle «tecnologie del sé» che «permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima – dai pensieri al comportamento, al modo di essere – e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi allo scopo di raggiungere uno stato di felicità, purezza, saggezza, perfezione o immortalità».
Il diario è per sua essenza fondato su uno sdoppiamento o raddoppiamento che si conclude con un ritorno in sé (la trasformazione di me che ottengo attraverso la scrittura; io esco da me, mi confronto con l’altro che sono io stesso, per ritornare in me). Questa uscita da me si rivolge a me stesso o a un confessore. Nel caso dei social network, invece, io espongo me in pubblico, annullando il segreto, ampliando (senza controllo da parte mia) illimitatamente la cerchia di coloro che entrano in contatto con il raddoppiamento di me. Questa uscita pubblica del mio doppio, non si conclude con un ritorno in me, ma con uno spossessamento di me che può essere utilizzato dalla Corporation per i suoi scopi di carattere commerciale, innanzitutto. Rendendo visibili gli aspetti della mia anima, li consegno a un dispositivo normante che non dipende da me, di cui non sono proprietario. In questo senso vengo vampirizzato, mi estraneo da me stesso.
In particolare, accedendo ai social network mi consegno a un processo di modellizzazione, di profiling: le corporation spremono senso e valore (monetario) attraverso l’analisi degli algoritmi dei comportamenti. In questo modo i social network spingono l’utente a un continuo self-branding, si è stimolati incessantemente a pubblicizzare le espressioni della mia anima secondo schemi precodificati, che letteralmente ci mettono incessantemente al lavoro (senza retribuzione) mascherando questo lavoro da gioco. Il lavoro gamificato a sua volta sfrutta l’idea di prendersi cura di sé e una serie infinita di dispositivi libidici, legati alla mia rappresentazione sociale. In sintesi quello che accade nella pratica della relazione e della comunicazione attraverso i social network è essenzialmente l’annullamento della cura del sé che avviene proprio però facendo leva sul bisogno razionale ed emotivo che spinge l’essere umano a prendersi cura di sé attraverso il dialogo con se stesso. Occorre aggiungere che lo spazio in cui rendiamo visibile la nostra anima senza ombre, assecondando il diktat della trasparenza assoluta collaboriamo volenterosamente alla trasformazione della «specie umana» in merce, esponendo noi stessi alla riduzione della nostra vita segreta in materia di consumo. Sotto certi aspetti, l’idea debordiana di Società dello spettacolo raggiunge con i social network il culmine, a partire dalla dimensione tautologica dei social network: quando facciamo log in accediamo in uno spazio formattato in cui la comunicazione si può svolgere solo all’interno di quegli schemi di formattazione che il network ha impostato. Tutto ciò che tenti di andare contro questo tipo di formattazione o non è possibile o viene escluso dal sistema stesso. In ogni caso quindi scivola sotto la soglia di esistenza, semplicemente l’altro non può esistere. Ciò che può esistere sono soltanto soggetti-machine-readable

Carlo-Fei Carlo Fei Double expsosure no. 011


Choc estetico come chance politica

Se ci pensiamo, però, all’inizio della storia della fotografia e del cinema i media sono stati visti e concepiti invece come una chance politico-estetica. Basterebbe pensare all’utilizzo di foto e cinema da parte di tutte le avanguardie o alle pratiche artistiche e teoriche da parte degli autori della Bauhaus. György Lukács nel 1913 sulla «Frankfurte Allgemeine Zeitung» in un articolo dedicato all’Estetica del cinema condensa questa idea in un’immagine: «La verità naturale del cinema non è legata alla nostra realtà. Nella stanza di un ubriaco i mobili stessi si muovono, il suo letto vola con lui oltre la città e se egli all’ultimo momento si afferra alla sponda del letto la camicia sventola intorno a lui come una bandiera». Lukács afferma esplicitamente che il «tutto è possibile» è per così dire la «Weltanschuung del cinema». E precisa: «in ogni singolo momento secondo la tecnica del cinema la realtà non è più contrapposta alla possibilità». Il cinema è quindi lo spazio in cui l’uomo si esercita con l’immaginazione, opera nella direzione di una realizzazione storica dei bisogni che si presentano alla immaginazione.
Queste riflessioni sulla dimensione derealizzante e, in prospettiva, utopica, immaginativa, emancipatoria del cinema, sono sviluppate come noto da Moholy-Nagy in Pittura fotografia film (1926) e da Benjamin una decina d’anni dopo nel celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Per Benjamin la potenza delle immagini foto-cinematografiche – con la loro forza derealizzante – consiste proprio nell’aprire uno spazio di congiunzione tra immaginazione e storia. La fotografia e il cinema «fanno a pezzi» la presunta realtà unica delle cose; questo tipo di immagini e lo sguardo connesso a tale dispositivo è strutturalmente priva di originale non si riferisce mai passivamente a una realtà, ma opera attivamente con inquadrature, tagli di prospettiva, montaggi, assemblaggi, ecc. secondo molteplici prospettive con i frammenti della «realtà passata» che vengono ricomposti in nuove figure prive di un fondamento ultimo o di un modello su cui misurarsi. Per questa via estetica quella che era «la realtà» è riconsegnata all’uomo come un ammasso di frammenti che viene ricostruito attraverso la facoltà immaginativa sui bisogni e le aspirazioni dell’uomo.
In particolare il montaggio – come elemento costitutivo dello sguardo fotocinematografico –costituisce per Benjamin una potente allegoria estetico-politica: l’elemento choccante essenziale alla fotografia e al cinema si pone come elemento distruttivo del tradizionale rapporto mimetico dell’immagine rispetto alla realtà. Ogni immagine cinematografica ci appella come segue: non esiste altra realtà rispetto a quella che si realizza attraverso l’immaginazione; oggi l’immaginazione si è dotata di protesi sensibili, dobbiamo formarci esteticamente e sviluppare la nostra facoltà sensibile-immaginativa. Viceversa chiunque oggi intenda riferirsi all’unicità, a una realtà ultima e stabile non vuole altro che il vostro incantamento, il vostro sonno.
I nuovi media consegnano all’uomo un’idea di azione e di conoscenza che si fonda sull’immaginazione: una nuova realtà a misura e a immagine dell’uomo può essere costruita. I nuovi media costituiscono la modalità di distruzione sul piano estetico di una realtà definita da Benjamin come un «carcere» in cui l’uomo vive in una condizione di asservimento. «Le nostre bettole e le vie delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano rinchiuderci irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere; cosi noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine». Il decadimento della dimensione auratica dell’arte costituisce un passaggio rivoluzionario sul piano estetico verso la liberazione dell'uomo dalla servitù del lavoro e nella direzione di un nuovo rapporto tra uomo e uomo e tra uomo e natura, secondo la visione marxiana dei Manoscritti economico-filosofici del 1844.


Simulazione al posto del reale (e dell’immaginazione)

Poco, forse troppo poco, ci è rimasto della forza interpretativa di Benjamin, capace di coniugare le modificazioni di ordine estetico con le possibilità politiche rivoluzionarie.
Di certo ci risulta più familiare la critica radicale al sistema dei media e delle immagini di Jean Baudrillard. In Baudrillard la forza utopica connessa ai nuovi media si è del tutto esaurita, al punto che si è rovesciata nel suo contrario, fino a esaurire ogni possibilità. Il montaggio non è allegoria di una chance emancipatoria sul piano politico, bensì il collasso di ogni possibile opposizione all’iper-realtà in cui siamo immersi: «il processo contraddittorio del vero e del falso, del reale e dell’immaginario, è abolito in questa logica iperreale del montaggio. Nulla è più vero, nulla è più falso. Vero? Falso? Indecidibile. Questa indicibilità è tipica di tutti i processi di simulazione». Ogni nostro pensiero, ogni nostra attività è segnato da un processo che Baudrillard chiama simulazione, ovvero la neutralizzazione di tutte le polarità e di tutte le contraddizioni dialettiche che hanno costituito la struttura stessa della storia. La simulazione è l’abolizione di ogni referenzialità, è l’invalidazione dei criteri di valore, del «giudizio morale, estetico pratico» all’interno del nostro sistema di immagini e segni, di cui per Baudrillard i nuovi media sono veicolo. Nello Scambio simbolico e la morte così Baudrillard definisce la simulazione: «Simulazione, nel senso che tutti i segni si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale. Questo è il bordello generalizzato del capitale, il bordello della sostituzione e della commutazione». Tutti gli eventi sono ridotti a segni e con ciò diventano compatibili con tutti i contesti, in quanto non rinviano più ad alcunché di reale, perdono il loro peso e la loro polarità storica. Così, tutto diviene compatibile con tutto. Ogni evento ha esaurito la propria forza di orientamento storico, e quindi è destituito dalla possibilità di avere qualsivoglia attrito nella realtà. Ciò per Baudrillard dipende dalla riduzione di tutti gli eventi storici a un insieme di segni perfettamente riutilizzabile all’interno del sistema capitalistico.
In sintesi: la simulazione rende commutabile ciò che era contraddittorio, piega al consenso ciò che esprimeva contraddizione, lavora di lima sulle forze della storia fino a trasformarle in un prodotto ornamentale compatibile con la società dello spettacolo. Con l’annullamento di ogni riferimento referenziale, ogni forma di giudizio (e ancor più di riflessione critica) diviene infondata, fino a farla apparire insensata. In modo diverso rispetto al passato le immagini simulatorie, i simulacri si confondono in un universo iper-reale che non si sovrappone e non si oppone alla realtà, ma a essa si sostituisce, pezzo per pezzo. In questo universo iper-reale tutto può diventare compatibile con tutto, perché l’unico criterio di valore e di esistenza consiste nella proliferazione dell’iper-realtà mediatica.
Questa svolta simulatoria nell’iper-reale si fa largo nello spazio tra realtà e immaginazione fino a prenderne il posto. Iper-realtà significa esaurimento della realtà in quanto consunzione dell’immaginazione o viceversa. Il richiamarsi a qualsiasi ideale – esterno alla iper-realtà mediatica – è per Baudrillard un gesto troppo debole in un universo che è ri-montabile e ri-manipolabile illimitatamente e all’interno del quale nulla può ancora avere un senso referenziale, senza che possa incidere per trasformare la storia. Non ci muoviamo più nella tragedia della storia, ma stiamo immobili nell’estasi della comunicazione.


Massimo Barzagli Massimo Barzagli Un vaso di fiori a New York 2006/2012, photograms, impressione luminosa di fiori e vasi su carta Ilfochrome cm 35,5x28 ciascuno



«Farla finita con la fine»

Dobbiamo dunque rassegnarci a sopravvivere nell’eterno presente dell’estasi della comunicazione? Certo, le analisi di Baudrillard, restituiscono una fenomenologia ricca del mondo in cui sopravviviamo e permettono di comprendere come il «medium sia passato nella vita, diventata ormai un rituale ordinario della trasparenza». Lo spazio di libertà dei singoli si esaurisce, siamo consegnati a un susseguirsi di immagini che non hanno alcun senso, se non quello di farci rimbalzare all’interno dei diversi settori della società dello spettacolo. Ma una critica, qualsiasi critica che non sia in grado di disegnare una linea tra ciò che ci opprime e ciò che si immagina come redenzione, non può definirsi tale. Adorno in Minima moralia, scriveva: «La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica»
Una teoria critica – ma più in generale qualsiasi forma di conoscenza – che non sappia immaginare una redenzione non è giustificata, perde il suo senso, non ha ragion d’essere e in ogni caso è svuotata del suo valore critico per scivolare nella sfera della mera amministrazione dell’esistente. Oggi osserviamo come le sedicenti teorie critiche si siano mutate anch’esse – più o meno consapevolmente – in modalità di esaurimento dell’immaginazione, in tecniche di sfinimento della potenzialità dei singoli, perché non sono più capaci di scegliere, di indicare una via altra, per quanto questa possa essere difficilmente immaginabile o praticabile. La conoscenza non è giustificata e ancor più non è tale se non sa scegliere, se non sa decidere.
Alain Badiou in Metafisica della felicità reale richiama il pensiero a «farla finita con la fine». E spiega: «farla finita con la fine presuppone la presa di una decisione.» È questa «critica» (etimologicamente: «scelta», «decisione») che intende «farla finita con la fine» che continua a mancare. Da un lato politica ed economia non esistono più in senso stretto, esiste una gestione amministrativa del presente che tende a esaurire ogni altra richiesta della vita presente. Ognuno di noi è consegnato a un’amministrazione dell’esistente che elimina di fatto la politica, tagliando alla radice ogni scelta o decisione attraverso la ripetizione del mantra divenuto celebre fin dai tempi di Margaret Thatcher: There is no alternative. Dall’altro, il pensiero si chiudeo in una critica che appunto non è più tale, perché priva di offrire prospettive di redenzione, incapace di scegliere, sempre più ripiegata su un atteggiamento nostalgico. Eppure proprio l’arte e la filosofia del passato ci insegnano che il soggetto ha sempre la possibilità di stare all’altezza dell’assoluto, nell’«elemento teso e paradossale della scelta», come scrive Badiou. Dalle false apparenze di cui sono schiavi i prigionieri della caverna platonica, per passare alle diverse tipologie di idoli contro cui combatteva Francesco Bacone, fino ai capovolgimenti della realtà che caratterizzano le «rappresentazioni ideologiche» su cui lavora Marx, non è forse questo il terreno su cui si muove il pensiero da sempre? Tutto ciò contro la moderazione contrattualistica che pervade ogni ambito delle nostre esistenze e che finisce per consegnarci a un cattivo eterno ritorno dell’identico, come se tutto fosse già deciso, come se non vi fosse davvero alcuna alternativa allo stato di cose in cui ci troviamo.
Sono proprio le situazioni di un passato anche recente che ci possono indicare che quella condizione di mancanza di attrito, di diffusione degli idoli – rappresentata per noi oggi dal nostro essere immersi nella simulazione – in fondo è una condizione con cui l’uomo si confronta da sempre, anche se in forme diverse. Quanto fu difficile per gli antifascisti italiani o per i resistenti di tutta Europa articolare un pensiero che si opponesse al progetto di un Reich millenario? Articolare un pensiero e farlo vivere in condizioni per noi divenute concepibili solo grazie alle testimonianze di coloro che appunto hanno saputo immaginare e costruire una realtà politica differente? Come fu possibile per il membro del Sonderkommando Alex riuscire a mettere in quattro immagini sfocate tutto il proprio coraggio di resistere, dare corpo alla propria libertà, scattando le uniche testimonianze che ci sono rimaste del campo di sterminio di Auschwitz durante l’inferno dei massacri del luglio 1944? Questi quattro fotogrammi ci mostrano come sia possibile articolare un pensiero per immagini, contro i fatti, contro ogni realismo, contro ogni pigro pessimismo contemporaneo.
Poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Ernst Jünger confrontandosi con le testimonianze di chi aveva resistito all’oppressione nazifascista, scrive: «Forse un giorno si riconoscerà che la parte più potente [stark] della nostra letteratura è proprio quella non scaturita da intenti letterari: i resoconti, gli epistolari, i diari che hanno visto la luce nelle grandi battute di caccia, negli accerchiamenti, nei mattatoi del nostro mondo. Si dovrà riconoscere che nel suo de profundis l’uomo ha toccato abissi che arrivano alle fondamenta stesse dell’essere, e incrinano la tirannia del dubbio. Qui egli perde la paura. Negli appunti di Petter Moen, rinvenuti nelle prese d’aria della sua cella, vediamo quale forma assuma quell’atteggiamento anche quando viene sconfitto. Il norvegese Moen, morto per mano dei tedeschi, può essere considerato il discendente spirituale di Kierkegaard». Petter Moen a capo della stampa resistente norvegese riuscì a tenere un diario spirituale nonostante le torture, nonostante il divieto di leggere e di scrivere, incidendo le parole con un pezzetto di ferro sulla carta igienica. Quando Jünger afferma che forse un giorno si riconoscerà che la «parte più potente» della letteratura del XX secolo è quella «non scaturita da intenti letterari» – e cioè «i resoconti, gli epistolari, i diari che hanno visto la luce nelle grandi battute di caccia, negli accerchiamenti, nei mattatoi del nostro mondo» – non intende attribuire alla testimonianza uno statuto veritativo altro rispetto alla creazione letteraria, né si appella a quel dispositivo vittimario entro cui sembrano essere ricondotte ormai tutte le testimonianze delle Shoah e della Resistenza. Piuttosto tali testimonianze sono concepite da Jünger come una delle incarnazioni della letteratura, nella misura in cui esse riescono a portare a compimento gli obiettivi propri di questa espressione artistica: trasfigurare l’esperienza nelle parole, illuminare l’opacità delle cose con la luce del verbo, comprendere e dare un senso alla vita, iscriversi del singolo nella storia, trasformare e prendersi cura di se stessi e dell’altro attraverso l’atto di scrittura. Nell’interpretazione jüngeriana, quindi, la testimonianza non è concepita come negazione della letteratura, ma anzi come sua espressione tipica, l’unica possibile nel massimo vuoto di libertà, all’interno di un processo di annientamento dell’idea di soggettività e di politica. Proprio in mezzo alle stragi e alla distruzione sistematica di milioni di esseri umani l’arte e il pensiero filosofico sotto forma di testimonianza hanno saputo arrivare alle «fondamenta dell’essere» riuscendo a incrinare la «tirannia del dubbio»; attraverso la scrittura il singolo ha potuto decidere, prendere posizione nella storia, resistere al proprio annientamento, anche nel caso in cui, come nel caso di Moen, sia risultato individualmente sconfitto.
«Nessuno muore così povero da non lasciare nulla in eredità, scriveva Walter Benjamin, riattualizzando un passo di Pascal. Come possiamo accogliere la preziosa eredità di Benjamin? Un’eredità che, come ha scritto Georges Didi-Huberman, nasceva nella consapevolezza che le «quotazioni dell’esperienza» fossero crollate, ma che pure quel «crollo è ancora esperienza, cioè contestazione, nel suo stesso movimento del crollo subito». Possiamo ereditare quel pensiero tentando di articolare una critica che non sia pigra e nostalgica e sappia riconoscere e dare forma politica quelle lacerazioni tragiche che spesso vengono troppo frettolosamente liquidate come indicibili o invisibili e che pure attraversano il pianeta sempre più asservito a un economia capitalistica predatoria e nichilistica.



Share