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Pavilion of Australia
Marco Fusinato
Desastres

 
Marco Fusinato Marco Fusinato, DESASTRES 2022. Photo by: Marco Cappelletti, Courtesy: La Biennale di Venezia



DESASTRES è un progetto noise sperimentale che sincronizza suono e immagine, e prende la forma di una performance durazionale da solista rendendola un’installazione. L’artista va in scena durante le ore di apertura della Biennale, per un totale di 200 giorni. Fusinato si esibisce dal vivo nel padiglione usando una chitarra elettrica come generatore di segnali in un amplificatore di massa per improvvisare blocchi di rumore, feedback saturato e intensità discordanti che scatenano un diluvio di immagini su una parete autoportante a LED che va dal pavimento al soffitto. Le immagini sono estratte da un flusso di parole che sono state inserite in ricerca libera su diverse piattaforme online. L’indicizzazione massiva è caotica: un pantano di immagini sconnesse e disparate generate a caso. Non c’è un vero e proprio tema, ma la fusione di suono e immagine invita il pubblico a interpretare e a dare un senso. Lo scopo è creare una specie di allucinazione, di euforia da disorientamento e di sfinimento da confusione.

Marco Fusinato dialoga con
Alexie Glass-Kantor

Alexie Glass-Kantor - Iniziamo dal tuo rapporto ancestrale con Venezia. I tuoi genitori sono nati in Veneto e sono emigrati in Australia, dove sei nato tu. C’è qualcosa di profondamente poetico nel destino che ti riporta alla tua terra di famiglia a rappresentare il paese in cui i tuoi genitori hanno cercato una nuova vita.

Marco Fusinato - I miei genitori sono originari di due paesi confinanti, separati da un fiume, che si fa strada fino alla Laguna di Venezia. Mio padre è di Arsiè, mentre mia madre viene dalla frazione di Pederoncon (comune di Fonzaso). Entrambi i paesi si trovano a neanche 100 chilometri a nord di Venezia, alle pendici delle Dolomiti. È una zona di straordinaria bellezza ma economicamente depressa. La mia famiglia ci ha vissuto per secoli e possediamo ancora la casa in via Fusinato ad Arsiè e dei campi sparpagliati che sono stati suddivisi nel tempo. Il Veneto è composto da sette province e noi siamo della più settentrionale, Belluno.

Mio padre e mia madre, nati nel 1916 e nel 1933, sono cresciuti in un territorio devastato dalla Prima Guerra Mondiale. Le persone della zona erano per la maggior parte contadini, coltivatori agricoli preindustriali o gente di campagna che non disponeva di impianti elettrici, idraulici, mezzi a motore e così via. Mio padre fu arruolato negli Alpini per tutta la Seconda Guerra Mondiale e venne inviato in Grecia, in Albania e sul fronte russo, dove venne colpito. Mentre si stava riprendendo, tutti i suoi compagni furono massacrati nel tentativo di fare un’avanzata. Alla fine, riuscì a tornare a casa a piedi dalla Iugoslavia.

Dopo la guerra e prima di mettersi insieme, i miei genitori vissero una serie di tragedie che, in retrospettiva, potrebbero aver contribuito a unirli. Ricordo di aver chiesto a uno dei miei zii per cosa fosse famosa Arsiè, e lui rispose “per fare la valigia e andarsene”. Per numerose ragioni, in particolare per i traumi delle molteplici guerre, i miei genitori e mio fratello maggiore emigrarono in Australia nel 1960.

Negli anni, ho passato molto tempo nella casa di famiglia ad Arsiè e ho mantenuto delle relazioni ininterrotte con le persone della mia generazione. C’è un profondo legame storico fatto di storie e linguaggi condivisi. I genitori dei miei genitori, così come i loro, cantavano le stesse canzoni, coltivavano gli stessi campi e percorrevano le stesse montagne.

Marco FusinatoMarco Fusinato, DESASTRES 2022. Photo by: Marco Cappelletti, Courtesy: La Biennale di Venezia

AGK - Parli un dialetto del Veneto che oggi sta scomparendo. Nel 2009 abbiamo organizzato una mostra insieme a Roma intitolata Still Vast Reserves. Mi ha colpita, viaggiando insieme, che i tassisti e i commercianti del posto, sentendoti parlare italiano, riconoscevano un dialetto di un altro tempo.

MF - Il particolare dialetto veneto che parlo sta morendo con la mia generazione. I miei genitori e i loro coetanei sono gli ultimi contadini, gli ultimi ad aver avuto quello stile di vita con le sue specifiche consuetudini. In queste, ci sono una certa purezza, una profonda umiltà, un grande rispetto per la forza della natura e i suoi cicli, e un forte legame con la terra. C’è un festoso entusiasmo per la vita, che va dal licenzioso e volgare a divagazioni profondamente filosofiche. C’è poi un particolare modo di vestire: la canottiera di pesante lana grigia portata dagli uomini, i piccoli orecchini a cerchio dorati e i grembiuli ricamati portati dalle donne (li riconosco a chilometri di distanza). C’è il dialetto ricco di sfumature: per quanto i paesi siano distanti tra loro solo pochi chilometri, alcune parole hanno una pronuncia leggermente diversa (riesco a coglierne le inflessioni). Purtroppo questo dialetto, nella sua forma più pura, senza contaminazioni dall’italiano corrente, oggi si sente soltanto nelle case di riposo.

Siamo alla fine di queste tradizioni orali vecchie di secoli, tramandate attraverso le generazioni. Non ci sono lezioni o corsi per impararli. Sono state indebolite dall’avvento della Repubblica, dalla comunicazione di massa, dalla cultura pop… dal capitalismo. Anche dopo essere emigrati in Australia e poi per decenni, i miei genitori non si sono mai integrati. Non hanno mai imparato a parlare correntemente inglese, né a leggerlo o scriverlo, hanno sempre e solo parlato bellunese. È questa la mia prima lingua, la lingua che abbiamo sempre parlato a casa. Sono cresciuto nel quartiere operaio di Noble Park (a sud-est di Melbourne), dove gli immigrati vivevano come anonimi ingranaggi per le industrie pesanti delle zone di produzione circostanti, come Dandenong, Springvale e Clayton. Anche i genitori di tutti gli altri bambini lavoravano nelle fabbriche. Nel quartiere c’erano molti meridionali (calabresi, siciliani, napoletani), ma era impossibile capire il loro dialetto, per cui ci venivamo incontro parlando italiano, che mi era sempre sembrato così finto e pretenzioso, come se stessi dicendo stronzate o parlando al Papa. Mancava di autenticità. La lingua che parlo è di un’altra epoca, chiusa in una capsula del tempo, senza evoluzioni… posso tirare fuori parole che sono scomparse mezzo secolo fa.

Marco FusinatoMarco Fusinato, DESASTRES 2022. Photo by: Marco Cappelletti, Courtesy: La Biennale di Venezia

AGK - Potresti raccontare di come la tua esperienza, crescendo, ha influenzato il tuo interesse per la musica punk, la cultura underground e gli spazi alternativi?

MF - Parte dell’esperienza dell’emigrato è essere confinato al di fuori dalla cultura dominante. In Australia, il mondo anglosassone era aggressivo all’epoca. Beh, lo è ancora. Penso che sia per questo che ho sempre simpatizzato con le comunità al di fuori del mainstream.

Quando ho scoperto il punk, ero completamente entusiasta. Trovavo molto coinvolgente il contenuto satirico dei testi, il suono crudo, gli elementi grafici, e soprattutto gli argomenti trattati nelle interviste. Invece di dilungarsi su “baby, baby, baby”, auto veloci, ragazze o abilità musicali, parlavano di fai da te, anarchia, marxismo, i situazionisti, il terrorismo e così via. Mi ci sono riconosciuto e mi ha fatto venir voglia di saperne di più. Erano antifascisti, antirazzisti e pro-comunità. Mi riferisco in particolare a gruppi che mi hanno influenzato come The Clash, Crass, Discharge, Negazione e Wretched. Questa è stata la base della mia fame di musica sperimentale.

Il fatto che disprezzassi così tanto la musica pop della mia gioventù mi ha spinto a cercare delle alternative. Questo odio totale continua a essere una fonte di ispirazione. Quando nei luoghi pubblici sento in sottofondo la musica pop di quegli anni, mi fa incazzare. Mi sembra una violenza. È una forma di tortura che si è insinuata nel mondo occidentale. Ogni suo aspetto mi fa venir voglia di creare la musica più respingente possibile.

Nei primi anni ’90 sono stato coinvolto in un collettivo artistico chiamato Store 5. Aveva sede in un vicolo sul retro, al primo piano, e al tempo era l’unico collettivo di Melbourne. Era in controtendenza rispetto a quello che succedeva allora: nessuno lì aveva anfibi spruzzati di vernice. Il suo interesse era per le pratiche post-concettuali e l’editoria indipendente. Era hardcore. In galleria si respirava un’aria tesa. Se qualcuno se ne usciva con “Foucault” o “Derrida” tutti si mettevano a fissare il pavimento in silenzio per 10 minuti per paura di dire la cosa sbagliata. Era straziante, esclusivo e velleitario. Era proprio quello a essere fantastico. Ed è stato lì che ho conosciuto molti artisti con cui avrei poi continuato a lavorare e a cui mi sarei legato.

A un certo punto a metà anni ’90 ero in un negozio di dischi indipendente e guardavo tra gli scaffali. Con mia sorpresa c’era un gruppo di dischi di musica sperimentale sconosciuta. Quando li ho portati alla cassa, il ragazzo al bancone mi ha detto: “Ehi, se vuoi comprare questi, te li posso vendere a un prezzo più basso fuori di qui”. Ci siamo accordati e mi ha spiegato che stava gestendo una vendita per corrispondenza di musica sperimentale. Poco dopo mi portò in un negozio in un vicolo sul retro, al primo piano, esattamente nello stesso spazio già occupato da Store 5. Eccomi lì, stavo andando di nuovo nel posto in cui ero stato qualche anno prima, ma questa volta per la musica. È stato lì che ho conosciuto molti musicisti con cui avrei poi continuato a lavorare e a cui mi sarei legato.

Marco Fusinato Marco Fusinato, DESASTRES 2022. Photo by: Marco Cappelletti, Courtesy: La Biennale di Venezia

AGK - Possiamo parlare del significato della musica nel tuo lavoro?

MF - Il mio lavoro è composto da una serie di progetti. Alcuni sono continuativi, altri eventi singoli. Ho capito subito che il mio interesse per la musica doveva far parte di quello che faccio.

Sono sempre stato interessato alla chitarra elettrica, non solo per il suo suono ma per il suo status culturale e per il fatto che è lo strumento che definisce la mia vita. Sono affascinato dalla sua iconografia e da come ogni modello ha una particolare associazione con un genere. La chitarra è uno strumento di intrattenimento del capitalismo, rappresenta ogni tipo di comodità e “atteggiamento”. È un potente simbolo e tutti conoscono il suo suono. È questa una delle ragioni per cui mi piace provare a farci qualcosa di spiazzante, qualcosa che possa sfidare le aspettative. Il mio approccio alla chitarra è concettuale anziché tecnico. Mi ricordo che da bambino, quando andavo nei negozi di chitarre, nel reparto libri vedevo titoli del tipo “Come suonare alla maniera di…”. Ho imparato presto che, non importa quanto ci avrei provato, non avrei mai potuto riuscirci. Non avevo l’orecchio, la pazienza o l’abilità tecnica per suonare come nessuno di quelli citati nei libri. Ho capito che non c’è un reparto nel negozio dedicato a “Come NON suonare alla maniera di…”, e che è possibile sviluppare il proprio linguaggio capendo e abbracciando i propri limiti.

Negli anni ho pubblicato molti dischi, tutti su vinile. Mi interessa l’oggetto fisico, le decisioni prese nel selezionare i materiali, la grafica, l’esperienza uditiva e visiva. Tutti i miei 33 giri da solista hanno lo stesso modello grafico: un’immagine di un’opera d’arte sulla copertina e un’immagine dei mass media sul retro, immagini al vivo in bianco e nero, senza testo sulle copertine. Tutti sono sperimentazioni noise con chitarra.

Il compositore minimalista americano La Monte Young sostiene che una delle più forti influenze è stata per lui il suono del vento che soffia tra le fessure della baita dell’Idaho in cui era nato e della particolare impressione che la tonalità di quel suono fece su di lui da bambino. Questo mi ha fatto pensare alle mie memorie infantili dei suoni. Mi svegliavo la mattina con il suono delle auto e delle ferraglie che venivano schiacciate a Simsmetal in fondo alla strada. C’è un riverbero particolare che si crea alle 7 di una mattina silenziosa. Bellissimo.

Marco FusinatoMarco Fusinato, DESASTRES 2022. Photo by: Marco Cappelletti, Courtesy: La Biennale di Venezia

AGK - Svegliarsi con il suono degli uccellini e del metallo schiacciato sembra particolarmente in sintonia con il tuo rapporto con la musica. Per me è come uno svuotamento seguito da un eccesso di suono. Passa dal nulla al troppo, un eccesso, un accumulo.

MF - Una depurazione. Una negazione. Mi interessano le tensioni attorno a forze contrastanti come il rumore contro il silenzio, l’ordine contro il disordine, l’istituzione contro l’underground, il minimalismo contro il massimalismo, la purezza contro la contaminazione. Queste opposizioni binarie coesistono, ed è questo l’attrito che voglio mantenere per non eliminarle a vicenda. Per me è come se queste tensioni stessero sempre sfregando l’una con l’altra, e la cosa interessante è come uno affronta queste agitazioni, queste contraddizioni. È questo stato di mezzo che voglio occupare. C’è un dinamismo e, come nella vita, una relazione e una costante negoziazione con il potere e il controllo.

AGK - Il tuo modo di usare il suono come una pratica materiale è viscerale e potente. Una volta mi hai detto che vuoi solo che il pubblico senta qualcosa.

MF- C’è qualcosa di particolare nella dimensione: come usarla in rapporto al corpo umano per creare un’esperienza. Solitamente la gente nelle gallerie è passiva, e spesso ci si riferisce a loro come “spettatori”. Io li considero “ascoltatori”, partecipanti attivi con tutti i loro sensi coinvolti nello scambio; lo stato emotivo e fisico in cui si trovano, il loro bagaglio di riferimenti, la loro frustrazione per il mezzo di trasporto con cui sono arrivati lì, e così via. Sono tutti fattori che influenzano il modo in cui reagiranno all’esperienza.

La mia idea per attivare gli ascoltatori è di ricordare loro che sono vivi. Che hanno un battito. Il mio lavoro inizia sempre con qualcosa che voglio sperimentare. Potrebbe entrare in connessione con qualcuno in futuro, oppure no. C’è questa aspettativa di realizzare un lavoro che “piaccia”, l’ho sempre trovata ridicola. Sono cosciente che i miei riferimenti sono abbastanza obliqui, marginali, impopolari. E non mi aspetto che quanto faccio “piacerà”, così non rimango mai deluso.

Marco FusinatoMarco Fusinato, DESASTRES 2022. Photo by: Marco Cappelletti, Courtesy: La Biennale di Venezia

AGK - Il tuo lavoro al Padiglione Australia alla Biennale di Venezia 2022, DESASTRES, è il culmine dei tuoi interessi per la musica sperimentale, la cultura underground, le immagini dei mass media e la pittura storica. Il pubblico è inoltre considerato parte centrale dell’opera.

MF - Sto sviluppando quest’opera da molti anni. È il culmine di molti interessi e un confluire di vari progetti. DESASTRES è un progetto noise sperimentale che sincronizza suono e immagine. L’opera prende la forma di una performance durazionale da solista rendendola un’installazione. Era originariamente concepita come esibizione con il batterista Max Kohane (Faceless Burial, Internal Rot, Agents of Abhorrence, ecc.) nel contesto di concerti o festival. Il presupposto iniziale era che il suono prodotto dalla batteria o dalla chitarra potesse scatenare immagini ad alta velocità. Speriamo ancora di poter realizzare questa collaborazione in futuro, ma l’opera per il Padiglione Australia sarà una performance da solista. Mi esibirò tutti i giorni alla Biennale durante le ore di apertura, 200 giorni in tutto. Uso una chitarra elettrica come generatore di segnali in un amplificatore di massa per improvvisare blocchi di rumore, feedback saturato e intensità discordanti che scatenano un diluvio di immagini su una parete autoportante a LED che va dal pavimento al soffitto.

Le immagini sono estratte da un flusso di parole che sono state inserite in ricerca libera su diverse piattaforme online. L’indicizzazione massiva è un casino: un pantano di immagini sconnesse e disparate generate a caso. Non c’è un vero e proprio tema, ma la fusione di suono e immagine invita il pubblico a interpretare e a dare un senso. Lo scopo è creare una specie di allucinazione, di euforia da disorientamento e di sfinimento da confusione.

Un po’ come Aetheric Plexus usa l’infrastruttura da palco, questo progetto usa l’attrezzatura per spettacoli da stadio.

Marco FusinatoMarco Fusinato, DESASTRES 2022. Photo by: Marco Cappelletti, Courtesy: La Biennale di Venezia

AGK - Cosa proverà il pubblico entrando nel Padiglione Australia?

MF - Ci sono due elementi materici che compongono l’installazione. La parete a LED dal pavimento al soffitto e la parete di amplificazione che è formata da sei amplificatori full-stack da 100 watt. Mi esibisco dando le spalle al pubblico. Il suono che genero passa in un’unità di controllo personalizzata che converte e sincronizza il suono con le immagini. L’unità mi permette di controllare i vari stati dell’uscita, come il panning, la velocità e la randomizzazione. Con l’impostazione più lenta potrei rimanere su un’immagine per tutto il giorno, con la più veloce sparare 60 immagini al secondo. La dimensione della parete a LED è pensata per occupare e dominare lo spazio.

La proporzione dell’immagine è 16:9, ma la parete a LED è molto più ampia, un 25:9.3; si forma così un blocco nero che fa parte dell’immagine e completa la parete. Quando l’audio è in mono, l’immagine è centrata con blocchi neri di uguale misura ai lati. Con il pan, le immagini si muovono di conseguenza. Così quando il suono è nelle casse di sinistra, l’immagine è giustificata sulla sinistra con un blocco nero a destra; quando il suono è nelle casse di destra, l’immagine è giustificata sulla destra con un blocco nero a sinistra.

Le immagini sono conservate in una grossa cartella. L’unità di controllo estrae casualmente le immagini dalla cartella, o come immagine singola o come doppia esposizione da quattro degli stati seguenti (uffa… è meglio provarlo dal vivo che leggerlo): immagine in positivo raddoppiata con positivo, negativo raddoppiato con negativo, positivo raddoppiato con negativo, negativo raddoppiato con positivo.

L’attrezzatura che ho selezionato è specifica, non solo per quello che rappresenta, ma anche per la sua presenza scultorea. La parete a LED è lo standard di settore per gli stadi. Volevo che ci fosse questo riferimento, piuttosto che usare, tipo, un proiettore video o uno schermo. Pur avendo una grande collezione di amplificatori valvolari Hiwatt Custom 100 degli anni ’70, ho pensato che fosse importante usare un’amplificazione fatta da una nuova generazione di costruttori. Anche le chitarre usano le tecnologie più recenti e sono completamente realizzate in alluminio e non in legno tradizionale, in modo da ottenere la massima risonanza.

Marco FusinatoMarco Fusinato, DESASTRES 2022. Photo by: Marco Cappelletti, Courtesy: La Biennale di Venezia

AGK - Le immagini che usi per DESASTRES fanno parte di un archivio più ampio che hai sviluppato in molti anni di lavoro. Qual è il tuo rapporto con queste immagini e come sono cambiate nel tempo?

MF - Raccolgo immagini che considero “disturbate”, qualsiasi cosa significhi. È un modo per provare a dare un senso alle cose che succedono intorno a me. Alcune di queste immagini si trasformano in progetti.

Per esempio, alla fine del ventesimo secolo e all’inizio del ventunesimo ci sono state grandi manifestazioni anticapitaliste di black bloc a Seattle e a Genova, che hanno ricevuto molta copertura mediatica. Ho notato che la stampa di tutto il mondo pubblicava immagini simili delle rivolte. Ho iniziato a raccogliere immagini dell’istante in cui uno degli attivisti teneva in mano un sasso di fronte a un fuoco. Dopo circa un decennio ne avevo raccolte molte e ho deciso di usarle per un progetto (Double Infinitives, 2009). Ho ingrandito le immagini alle dimensioni di un dipinto storico usando le tecnologie di stampa più recenti. Ogni immagine che avevo selezionato proveniva da una parte diversa del mondo, ma viste insieme sembravano tutte uguali: un corpo in movimento con la faccia coperta, vestito con una felpa e un paio di jeans. Più avanti, mentre il mondo continuava a essere scosso da avvenimenti come la Crisi finanziaria e la Primavera araba, queste immagini si ripetevano e ho deciso di aggiungerne altre alla serie. Questa volta mi sono concentrato su alcuni attivisti nell’atto di lanciare una pietra (The Infinitives, 2015 e 2019).

Come dicevo prima, ho attinto all’archivio per fare copertine degli LP, per trovare due immagini che, quando accostate, potessero creare una sorta di strano “eh?”. Ho voluto approfondire a partire da quest’idea. La serie EXPERIMENTAL HELL presenta una registrazione LP con le due immagini scelte per la copertina artistica usate come base per una serie di grandi serigrafie sperimentali su alluminio. Sono “sperimentali” nel senso che il risultato non può essere previsto in anticipo per via del volontario uso improprio delle tecniche di stampa. Le immagini che raccolgo non si suddividono per gruppi o temi, sono casuali. È solo dopo che identifico un filo conduttore. Nel mondo digitale tendo a dimenticarmi delle cartelle che sono seppellite nei sottomenù, specialmente perché i dischi rigidi e le piattaforme di archiviazione vanno e vengono. Mi va bene così, immagino sia un modo di lavorare per idee, e se qualcosa è fondamentale mi assicuro di non smarrirlo.

Marco FusinatoMarco Fusinato, DESASTRES 2022, Photo by: Marco Cappelletti, Courtesy: La Biennale di Venezia

AGK - Perciò costruire l’archivio è una pratica viva e tu sei il disco rigido dell’opera. Inizialmente, hai pensato di poter acquisire esternamente la raccolta di immagini, ma non ha mai funzionato perché l’occhio dell’artista era troppo importante. Puoi parlare del processo di selezione delle immagini?

MF - Speravo di poter acquisire completamente dall’esterno la raccolta di immagini: mi farebbe risparmiare molto tempo e mi fornirebbe milioni di immagini. In effetti era del tutto possibile e abbiamo sviluppato un sistema di intelligenza artificiale che procurava le immagini, ma il risultato è stato… pff… deludente. C’è così tanta merda là fuori. Merda con la quale non voglio nessuna associazione. Sì, avrei potuto fare “alla Cage” e tentare la sorte, ma non volevo favorire gli algoritmi del male. Invece sono stato “selettivo”, dando un’occhiata allo schermo, sfogliando le immagini e decidendo velocemente “sì, sì, sì, no, no, no, no, no, no, sì, sì, no, no, no, sì, no, sì, sì, no, no, no, no, sì, forse, sì, no, no”. Ci sono molti più “no” che “sì”.

La mia selezione è istintiva e proviene dai riferimenti a cui sono interessato da molto tempo. Tendo a reagire alle immagini che mi confondono e che, quando accostate, creano una certa ambiguità, una contraddizione e una tensione. Voglio che le immagini siano abbastanza aperte da far sì che una persona possa vederci qualcosa di completamente diverso dalla persona accanto.

A un certo punto mi sono spazientito con il processo di raccolta delle immagini: il suo lato tecnico… aspettare che le immagini venissero scaricate, le cartelle che non si aprivano, i computer che si bloccavano, ecc. Ho pensato, fanculo, voglio velocizzarlo, così ho iniziato a usare la fotocamera del mio telefono per scattare istantanee dello schermo. Le foto sono completamente moiré, fuori fuoco, terribili. Sono perfette. Formano una parte importante del repertorio di immagini.

AGK - La tua manipolazione delle immagini (usando il formato monocromo, alternando positive e negative, e così via) le ha erose dalla fonte originaria? Cosa succede con lo svuotamento e l’accumulo delle immagini?

MF - Le immagini da cui sono attratto hanno un’estetica particolare. Molte di queste sono moiré e oblique. Infette. Resistenti alla rappresentazione. Provengono dalle estetiche dei sottogeneri underground come il noise/doom/death/black/crust/grind/industrial. Dilettantismo. Le doppie esposizioni provocano complessità e confusione.

Il suono è improvvisato e le immagini sono randomizzate. L’unità di controllo fornisce milioni di variazioni, così la performance non si ripeterà mai. Ogni volta che il pubblico assiste all’opera, sarà diverso.

Marco FusinatoMarco Fusinato, DESASTRES 2022. Photo by: Marco Cappelletti, Courtesy: La Biennale di Venezia

AGK - Puoi parlarci di come vivere a Melbourne durante il lockdown più lungo del mondo ha portato allo sviluppo di Score (‘Partitura’)?

MF - Ero bloccato in una camera da letto, lontano dal mio studio. Dovevo fare qualcosa o sarei impazzito. Creare una partitura era un modo di rendere tangibile l’idea di immagine come suono; la partitura come asserzione. Partitura è una selezione di immagini stampate al vivo su carta pentagrammata. Lavorando così a lungo sulla serie Mass Black Implosion avevo familiarizzato con le partiture dei compositori e la carta che usavano. La carta dell’edizione Peters è uno standard.

Un’iniezione di procaina nella tempia sinistra, anfetamina nella destra. L’output richiede sempre un input.

AGK - Sembra che il grado di intensità delle condizioni in cui questo progetto si è evoluto abbia permesso all’opera di essere essa stessa la totale incarnazione del completo disastro.

MF - DESASTRES è nato dal fatto di vivere questo momento. Una delle prime parole che ho usato per cercare le immagini è stata “disastro”. È anche un riferimento al contesto in cui Goya realizzò la sua serie Los Desastres de la Guerra (1810–20): reso sordo dalla malattia, confinato in una fattoria, a realizzare la serie con la sua immaginazione. Eccomi lì, intrappolato in una camera da letto a fare un’opera destinata all’altra parte del mondo, a fissare un portale. A immaginare.

La produzione del gruppo doom metal giapponese Corrupted è stata un’altra delle influenze per DESASTRES. Anche se sono originari di Osaka, tutti i titoli delle loro canzoni, i testi e la grafica sono in spagnolo.

AGK - La Partitura funziona come un test di Rorschach. Sembra esserci una tensione insolubile tra una soggettività dichiaratoria e il libertarismo della tua etica.

MF - C’è un’aspettativa di intrattenere, o più precisamente che il pubblico venga intrattenuto. Ma se la mia idea di ciò che significa intrattenimento non corrispondesse alla vostra? Le strategie, i focus group, i finanziamenti non possono imporre un abbraccio collettivo. Incontri, incontri, amministrazione e amministrazione non aiutano.

Sono come un corvo sui fili della corrente, a osservare. Uno scarafaggio sotto il telo del barbecue, a frugare.

Marco FusinatoAlexie Glass-Kantor and Marco Fusinato. Photo courtesy Zan Wimberley

AGK - Stai per imbarcarti nel progetto durazionale più lungo della tua carriera: 200 giorni di negoziati con l’archivio, il suono, l’immagine. E riguardo alla portata di quello che stai per intraprendere che cosa ti aspetti?

MF - Laburismo contro Never Work e la politica di entrambi. Per me l’attrattiva dell’essere un artista o un musicista è sempre stata che si tratta dell’ambito con meno regole e regolamenti. Potevi dire “NO” e il rifiuto poteva rafforzarti; potevi inventare i tuoi propri sistemi e il tuo linguaggio. E tramite l’autodeterminazione potevi creare mondi inimmaginabili.

La musica d’improvvisazione è spontanea, per me non c’è alcuna differenza tra fare il soundcheck e suonare il repertorio. Circa un decennio fa ho iniziato una serie di performance intitolata Spectral Arrows. È scaturita dalla frustrazione dell’andare in tour: volare per 24 ore dall’Australia per andare dall’altra parte del mondo a esibirmi per 30 minuti, scendere dal palco e pensare “aspetta… c’è di più”. Ho deciso che la prossima volta che avrei volato da qualche parte per esibirmi sarei rimasto tutto il giorno. Spectral Arrows è una serie continuativa di performance a lunga durata per chitarra e amplificatore di massa. Mi sistemo e mi esibisco per tutto l’orario di apertura giornaliera. Assumo il ruolo del lavoratore. Mi esibisco dando la schiena al pubblico per evitare distrazioni, per negare forme di intrattenimento convenzionali. Lo scopo è creare qualcosa di scultoreo, riempiendo la galleria non con il bronzo o il marmo, ma con vibrazioni che viaggiano nell’aria.

DESASTRES porta avanti questa idea.

AGK - Tuo padre Angelo nacque nel 1916. Ed eccoci qui, più di 100 anni dopo. È un altro circolo di retroazione?

MF - Tornerò esattamente nello stesso luogo da cui sono emigrati i miei genitori per rappresentare il paese in cui sono emigrati. C’è un ripiegamento del tempo. I miei genitori sono nati prima che l’Italia diventasse una Repubblica, i miei bisnonni nacquero prima che Garibaldi unificasse l’Italia nel 1861.

L’Australia, come l’Italia, è una costruzione recente.

Sono nato su terre rubate, mascherate da una specie di avamposto europeo. Sono al capolinea dell’antica cultura dei miei antenati e allo stesso tempo sono un parassita su terre espropriate.

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Marco Fusinato
DESASTRES
Curatore: Alexie Glass-Kantor
Padiglione dell'Australia alla 59. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia
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