Quella ospitata alla Querini è la più ampia mostra mai realizzata a Venezia
sull’artista, ed è incentrata su un momento cruciale, alla fine degli anni Sessanta,
quando la fotografia divenne il fulcro della sua pratica concettuale.
Baldessari è stato un precursore, un anticipatore.
La sua opera riflette costantemente sulla grammatica dello spazio: uno spazio
da decostruire, ricomporre, interrogare. Qui ogni opera parla un linguaggio
al tempo stesso rigoroso e ludico, rivelando un’intelligenza spaziale che pulsa nel
ritmo delle immagini e nell’interazione tra corpi, oggetti e superfici.
I soggetti delle fotografie di Baldessari sono sempre stati semplici: oggetti
che trovava intorno a sé a Los Angeles, spesso nel suo studio, a casa o mentre
insegnava. Quel che riusciva a fare con quegli oggetti, però, era molto più
complesso. Nella celebre serie Commissioned Paintings (1969), fotografò un dito
puntato su oggetti banali in luoghi altrettanto banali o indefiniti; poi incaricò un
pittore iperrealista di riprodurre l’immagine e un pittore di insegne di aggiungere
una didascalia con il nome del pittore, per esempio: “A Painting by Patrick X.
Nidorf, O.S.A.”. In questo modo, Baldessari non solo complicava l’autorialità
e la definizione di un quadro, ma rifletteva anche sulla capacità di quest’ultimo
di incanalare l’attenzione e determinare che cosa meriti di essere guardato:
concetti spesso dati per scontati, o trascurati.
Dopo Cremation Project (1970), in cui diede cerimonialmente alle fiamme molte
delle tele realizzate prima della svolta concettuale (progetto documentato quasi
esclusivamente attraverso fotografie), Baldessari diede vita, negli anni Settanta
e primi Ottanta, a un’ampia produzione di serie fotografiche con cui sperimentò
diverse modalità di utilizzo del mezzo fotografico. Per il progetto Police Drawing
(1971), esplorò la fotografia come prova indiziaria: incontrò un gruppo di studenti
che non lo avevano mai visto e filmò l'incontro, poi fece entrare un poliziotto
esperto di identikit e gli fece disegnare un ritratto dell'artista basato sulle loro
descrizioni.
Altre opere dei primi anni Settanta in mostra includono video come I will not make
any more boring art (1971) e Teaching a Plant the Alphabet (1972), che presentano
situazioni assurde e documentano performance banali e buffe; e serie fotografiche
in cui le immagini, disposte in griglie o altri schemi visivi, diventano indagini sul
movimento, il linguaggio e, di conseguenza, sul rapporto tra fotografia e cinema.
Molte di queste opere nascono dagli esercizi che Baldessari assegnava ai suoi
studenti al California Institute of the Arts (CalArts), per esempio “Come possono
essere usate le piante nell’arte”, “Gettate oggetti fuori dalla finestra. Fotografateli
a mezz’aria”, o “Descrivete il visivo verbalmente e il verbale visivamente”.
Questi scritti e la sua attività didattica furono fondamentali non solo per la
formazione degli studenti, ma anche per la sua pratica artistica.
John Baldessari. No Stone Unturned – Conceptual Photography Photo credits: Adriano Mura Courtesy: Fondazione Querini Stampalia, Venezia
Tra le opere della metà degli anni Settanta presenti in No Stone Unturned
troviamo alcuni esempi tratti dalla Kissing Series, in cui il profilo di una persona si
avvicina fino a toccare un altro oggetto, facendo “baciare” le due superfici
a sottolineare l’importanza degli spazi tra le cose. Nella Embed Series, Baldessari
inserisce parole e immagini dentro ogni foto, esplorando il concetto di immagine
subliminale. L’idea della fotografia come codice, o come strumento di decodifica,
appare anche nella Binary Code Series, che presenta sequenze di azioni –
per esempio fumare una sigaretta - che sembrano veicolare un messaggio, reale
o immaginato. Ciascuna di queste serie, basate su accostamenti e confronti tra
oggetti, immagini e parole, ha posto le basi per molti dei celebri lavori a parete
e dipinti degli anni Novanta e Duemila.
La mostra include anche una significativa presentazione di Blasted Allegories,
una serie ampia e affascinante realizzata alla fine degli anni Settanta, e composta
da fotografie scattate a uno schermo televisivo a cui vengono sovrapposte parole,
in colori e composizioni di ogni sorta. Scattate con un timer, per rimuovere la
“mano” dell’artista, ogni immagine televisiva veniva colorata e associata a una
parola scelta da Baldessari o da suoi amici, sulla base del contenuto dell’immagine
stessa. Usando frecce e altri simboli, Baldessari combinava le immagini in
sequenze complesse che non miravano a determinare un significato univoco,
ma piuttosto a mettere a nudo il nostro profondo bisogno di trovare un significato in
tutto ciò che vediamo. L’artista ha descritto questa serie come “pezzetti di
significato che fluttuano nell’aria e la cui effimera sintassi genera nuove idee”.
In tutta No Stone Unturned, il desiderio di Baldessari di offrirci generosamente
e apertamente delle nuove idee, soprattutto per mezzo della fotografia, emerge
con forza e coerenza.
John Baldessari. No Stone Unturned – Conceptual Photography Photo credits: Adriano Mura Courtesy: Fondazione Querini Stampalia, Venezia
John Baldessari
The Interview Collection
Baldessarri il provocatore di Gian Maria Annovi
… Nel 1970, due anni dopo la pubblicazione del saggio di Roland Barthes sulla
morte dell’autore, lei ha realizzato Cremation Project, dove, in un parallelo tra
corpo dell’artista e corpo dell’opera, ha incenerito – con tanto di annuncio funebre
– tutti i suoi dipinti realizzati prima di quella data. Una casualità?
Ovviamente conoscevo gli scritti di Barthes e l’idea della morte dell’autore era nell’aria
in quel periodo, era un po’ quello di cui tutti gli artisti parlavano. Ma Barthes non è all’origine
di Cremation Project, che mi ha creato peraltro non poche seccature.
C’è chi mi accusa di aver persino affermato che la pittura è morta, ma non ho mai detto
una cosa del genere. Quello che ho detto è che esiste arte letale ed esiste pittura.
Lei ha raccontato che una delle esperienze più scioccanti della sua vita è stata
vedere, da bambino, alcune foto dell’Olocausto. È possibile leggere una rielaborazione
di questo trauma nelle immagini di corpi accatastati di opere come Inventory
(1972) e Horizontal Men (1984)?
Vedere quelle immagini da bambino mi ha molto turbato e mi ha fatto capire che ciò che
chiamiamo civiltà non esiste: quello che è accaduto allora, potrebbe accadere di nuovo,
anche domani. E questa consapevolezza mi ha sempre provocato una notevole ansia. Ma nel caso di
Horizontal Men si trattava davvero di detronizzare la figura maschile rappresentandola in maniera
orizzontale, rispetto alla consueta rappresentazione eretta e fallica.
Allo stesso tempo il risultato è anche quello di un cumulo di corpi esanimi…
Sì, è uno dei risultati, ma quello che cercavo di fare io, era togliere eroicità alla figura umana.
L’ironia è una delle caratteristiche principali del suo linguaggio artistico. Ce ne può spiegare la ragione?
All’inizio della mia carriera sono stato associato a un gruppo di artisti che venivano indicati con l’etichetta di
«concettuali». Erano artisti alquanto diversi tra loro, uniti principalmente da un certo uso del linguaggio,
a cui io volevo ribellarmi. Così ho cercato altri modi di impiegare la parola, modi meno rigidi, meno
accademici. Volevo aprirmi al dialogo, alla discussione, ed è in questo modo che ho sviluppato il mio approccio
da provocateur.
Insomma, ha usato l’ironia come arma contro un’etichetta?
Esatto. Se si conoscono degli artisti, se si ha con loro una relazione personale, si conoscono anche le cose
che potrebbero irritarli. E diciamo che sapevo bene quali cose avrebbero fatto irritare le persone che volevo irritare…
…
Qual è la sua opinione dell’arte concettuale in questo momento?
Dopo un certo tempo tutte le etichette – concettualismo, espressionismo, astrattismo – perdono significato, ma c’è ancora
una certa virulenza concettuale ed è persino stato coniato il termine «neo-concettualismo ». Gli artisti hanno bisogno di
definizioni ma a me importano poco.
Fonti: https://www.academia.edu/20717342/Interview_with_John_Baldessari_Baldessari_il_provocatore_Il_manifesto_Dec_10_2010_11
John Baldessari. No Stone Unturned – Conceptual Photography Photo credits: Adriano Mura Courtesy: Fondazione Querini Stampalia, Venezia
John Baldessari. BEFORE DAY FALLS by Gea Politi
… Gea Politi: C'è una ragione particolare per cui dopo un po' di tempo è passato dalla pittura alla fotografia, come se sentisse che la pittura fosse antiquata o obsoleta o fuori dal tempo?
JOHN BALDESSARI: Beh, un po' di tutto questo, ma c'erano ragioni specifiche. L'ambiente con cui lavoravo, i miei coetanei, erano fondamentalmente eredi dell'Espressionismo astratto (ma forse di quarta o quinta generazione). Sembrava che mancasse una sorta di energia. La cosa che si sente sempre dire sull'arte astratta da parte del pubblico è “Non lo capisco” o “Mio figlio potrebbe farlo”. Così ho pensato: “Cosa succederebbe se rendessi le cose perfettamente comprensibili? Funzionerebbe meglio?”. Ovviamente la risposta è no. Allora ho deciso: “Userò il testo e la fotografia, perché probabilmente le persone leggono riviste e giornali e guardano la TV. Sembra essere un linguaggio molto democratico”. Così ho deciso di dare alla gente quello che voleva e vedere se sarebbe stato meglio. Ma ovviamente non è andata meglio [ride]. Nemmeno quella era arte.
GP: A quali fonti di immagini si affida per i suoi fotocollage?
JB: Ho grandi file di immagini trovate, tratte da giornali, film o cose che ho scattato, e in qualche modo riesco a conservarne molte nella mia testa. Ho sempre pensato che sarebbe stato meraviglioso averle tutte su un computer e dire: “Datemi una qualsiasi fotografia in cui ci sia una tazza da tè” e me la mostrerà. Ora è possibile farlo. È possibile ottenere immagini di tazze da tè. Ma sono immagini di tazze da tè in un ambiente? Di solito sono più interessato all'ambiente che un oggetto occupa. Certi tipi di immagini mi rimangono in mente. Per esempio, ho visto una grande mostra di Chardin al Met, e ho notato che aveva sempre qualcosa in equilibrio su un tavolo e che veniva dritto verso di te, come un coltello o un cucchiaio, dove sembra che stia per rovesciarsi. Così ho voluto esplorare questo aspetto dal punto di vista fotografico, dove si vuole effettivamente mettere il dito nell'immagine e ruotarla o spingerla indietro, per creare un certo grado di disagio. Si tratta di qualcosa di cui non si trovano immagini. Dovrete farlo da soli. Quindi credo che ci siano cose che fotografo da solo perché non sono riuscito a trovare quelle immagini. Ci sono alcune immagini che ho in giro e che sono solo nella mia mente. Ad esempio, c'è un'immagine che non sono riuscito a utilizzare (ma lo farò uno di questi giorni) di un ragazzo che si arrampica su un albero. Ora, potrei uscire e chiedere a qualcuno di arrampicarsi su un albero e potrei fotografarlo. Ma il motivo sarebbe che mi ricordo di quella fotografia. Certo, potrei ripeterla, ma sarebbe come scoprire la ruota dopo che è stata inventata. Penso che se un'immagine esiste già, perché replicarla? È una questione complicata. Perché credo anche di essere un vero formalista in qualche modo, e molte volte si tratta solo di come si distribuiscono gli scuri e le luci, per esempio, in una fotografia in bianco e nero. Mi piace per un motivo puramente astratto.
GP: Pensa che alcuni dei suoi lavori siano nati per caso o per fortuna?
JB: Non credo che nulla sia per caso. Lei lo pensa? Io non lo penso. Mi piacerebbe che sembrasse così, ma credo che sia tutto molto calcolato. In realtà, l'altra sera ho sentito un discorso di Frank O. Gehry, che ha lo stesso problema. La gente pensa che le sue prime case abbiano un aspetto molto casuale perché ha usato compensato e recinzioni di rete, e lui ha detto: “No, questo è molto estetico. Sono un architetto di formazione classica e presto attenzione a ogni dettaglio. Quindi se sembra accidentale è perché l'ho progettato in modo che sembri accidentale”.
….
GP: Lei ha attraversato quattro generazioni di artisti. Come direbbe che il mondo dell'arte è cambiato da allora?
JB: Beh, certamente penso che ci sia più pluralismo. Quando è stata l'ultima volta che due artisti hanno litigato per le loro differenze estetiche? Non ci si può nemmeno pensare, ma una volta succedeva!
Fonti:
https://flash---art.com/article/john-baldessari-before-day-falls/
John Baldessari. No Stone Unturned – Conceptual Photography Photo credits: Adriano Mura Courtesy: Fondazione Querini Stampalia, Venezia
John Baldessari By DAVID SALLE
DAVID SALLE: ... volevo iniziare con una cosa che lei ha detto una volta: Tra cento anni lei sarà probabilmente ricordato come l'uomo che ha messo i puntini sulle facce.
JOHN BALDESSARI: Sì.
SALLE: Le persone tendono a ricordare e a classificare mentalmente il lavoro in base al suo aspetto, a volte ignorando l'intento di fondo. Questo la preoccupa mai?
BALDESSARI: Sì, è così. È il desiderio umano di essere compresi. E abbiamo sempre la sensazione di non essere capiti. Quando leggo cose su di me, è come se leggessi di un altro artista: “Oh, questo tizio sembra interessante o meno”, ma non penso mai che si tratti di me. Quindi è così. Ma sì, quei lavori con i puntini davanti ai volti li ho fatti per due o tre anni, e poi è diventato una specie di marchio, come Warhol o Lichtenstein.
SALLE: Negli anni '60 e nei primi anni '70, quando lei, insieme a poche altre persone, stava inventando l'arte concettuale, cosa pensava di fare? Quale pensava sarebbe stato il suo futuro?
…
BALDESSARI: Credo che il termine arte concettuale sia arrivato dopo. È un termine utile per gli scrittori, un cestino in cui mettere le persone, come la Pop Art o l'Impressionismo o altro. No, all'epoca avevo abbandonato la pittura perché pensavo che ci fosse qualcos'altro là fuori. Non era un'idea che riguardava solo me. Molti artisti nel mondo sentivano il malessere che l'Espressionismo astratto stava esaurendo. Io pensavo che ci fosse qualcos'altro. Sono sempre stato interessato al linguaggio. Ho pensato: perché no? Se un quadro, secondo la normale definizione del termine, è pittura su tela, perché non possono essere dipinte parole su tela? E poi avevo anche un interesse parallelo per la fotografia. Andavo in biblioteca e leggevo libri sulla fotografia. Non riuscivo a capire perché la fotografia e l'arte avessero storie separate. Così ho deciso di esplorare entrambe. Potrebbe essere visto come un passo successivo per me, allontanandomi dalla pittura. Poteva essere fruttuoso. Più tardi, questa è stata chiamata arte concettuale.
Fonti:
https://www.interviewmagazine.com/art/john-baldessari
John Baldessari. No Stone Unturned – Conceptual Photography Photo credits: Adriano Mura Courtesy: Fondazione Querini Stampalia, Venezia
Sidra Stich Conceptual Alchemy A Conversation with John Baldessari
I fotogrammi cinematografici sono stati l'immagine principale del suo lavoro e probabilmente l'aspetto per cui è più conosciuto. Quando si è avvicinato per la prima volta ai fotogrammi e perché?
Probabilmente i fotogrammi sono stati utilizzati per la prima volta quando ho fatto una mostra con James Corcoran a Los Angeles nel 1976. All'epoca, però, non importava che la fonte fossero fotogrammi. Non era questo il punto per me. Il punto era che si trattava di immagini trovate: le usavo spesso dalla fine degli anni Sessanta. Ho provato tutti i modi per trovare le cose. Strappavo cose da riviste o giornali, immagini che pensavo potessero piacermi. O anche se trovavo un'istantanea abbandonata per strada, la raccoglievo. Qualsiasi cosa potesse essere utile. Per un po' di tempo ho fatto il “dumpster diving” presso i centri di elaborazione fotografica.
Cosa ha ispirato il suo interesse per le immagini trovate?
È nato dai lavori con testi e immagini che ho realizzato quando ho lasciato la pittura a metà degli anni Sessanta. Quello che cercavo di ottenere allora era una sorta di arte non estetica. Vivevo a National City, che non è un posto da giardino, e dicevo: “Questo è il posto in cui vivo, con tutti i suoi difetti”. Cercando di non fare belle composizioni di National City, scattavo a caso dal finestrino dell'auto. Non potevo - non volevo - comporre; questo era il mio punto di partenza, il mio impulso. Lo vedevo come un progetto che cercava di fare arte senza arte, senza arte nel senso di bellezza tradizionale.
Questa sensibilità prevale anche nei suoi dipinti testuali della fine degli anni Sessanta, come Everything Is Purged (fig. 2). L'ironia o l'umorismo facevano parte del suo approccio anche in queste opere?
Non so se lo definirei umorismo, ma certamente è un modo diverso di avvicinarsi al mondo, o di capire il mondo. L'arte può essere definita come una bugia credibile: è un'idea che mi è sempre piaciuta. Si cerca di convincere qualcuno di qualcosa. Anche se si tratta del miglior dipinto del mondo, se non ci si crede, allora è solo vernice, tela e telaio X per quadri. In tutti questi primi lavori, in pratica, stavo vedendo cosa potevo fare e ho pensato che, finché si trattava di tela e telai, cos'altro poteva essere se non arte?
Non era il virtuosismo tecnico, non era la composizione. Non era il contenuto, non erano le idee.
In quel periodo, se si metteva qualcosa su tela e telaio, era arte. Avevi vinto la partita ancora prima di iniziare. Era arte prima di fare qualsiasi cosa.
È arte se lo dico io?
Sì, è arte se lo dico io. O come mi disse un istruttore di pittura: “Il tuo unico compito è far sembrare la tela migliore di quanto non sia già”. E sicuramente Robert Ryman o Ad Reinhardt lo avrebbero X portato a quel livello, quindi c'era quello. E poi ho pensato che non era necessario che fossi io a dipingere. Anche se in realtà ho insegnato lettere alle superiori e avrei potuto farlo, ho voluto allontanarmi da questa attività. Ho assunto un pittore di insegne professionista e gli ho detto: “Non cercare di farlo sembrare arte. Fai solo 'Vendesi', 'Vietato l'ingresso' o qualsiasi altra cosa. Voglio solo che sembri un'informazione”.
…
E come sempre, lei non fornisce risposte, ma ci provoca a riflettere. La questione della scelta o, più specificamente, l'allontanamento dal processo decisionale nella creazione delle immagini, è stata una parte fondamentale dei suoi primi lavori.
Ho provato tutti i tipi di piani, ad esempio alla fine degli anni '60 avevo una videocamera all'esterno del mio studio e il monitor all'interno, e montavo una macchina fotografica su un treppiede con una cosa chiamata intervallometro, che scattava automaticamente un'immagine ogni cinque o dieci minuti. Cercavo di ottenere immagini che non avrei selezionato. Senza dire “questo è un ottimo scatto”, facevo fare delle stampe e cercavo di usare il materiale. Poi qualcuno mi ha parlato di un centro commerciale a Burbank che aveva molte librerie e librerie di film, dove si potevano acquistare fotogrammi. All'inizio la cosa non mi interessava perché si trattava di oggetti da cinque o dieci dollari. Ma trovai un posto dove c'erano cose che secondo loro non avevano alcun valore commerciale - film che andavano e venivano - e potevo averli per dieci centesimi l'uno. Non mi importava che i film non fossero molto conosciuti. In realtà, se conoscevo il film da cui erano tratte le fotogrammi, non le avrei usate; doveva essere qualcosa che non avevo mai visto prima.
Fonti
https://www.jstor.org/stable/10.1086/429975
John Baldessari. No Stone Unturned – Conceptual Photography Photo credits: Adriano Mura Courtesy: Fondazione Querini Stampalia, Venezia
Ce qui est effacé. John Baldessari et Christian Boltanski
Christian Boltanski: Una foto è sempre qualcosa che parla della morte e della perdita della memoria. Nell’istante in cui si scatta una foto, non si ha voglia di pensare che essa sia legata alla morte. E poi è finita. Non rimane che il ricordo. Ogni volta che si cerca di conservare un frammento del tempo, lo si uccide.
John Baldessari: In questo momento, utilizzo fotografie già esistenti, provenienti dal cinema. Quando cerco delle foto, vedo qualcosa che fa scattare qualcosa nella mia testa. Quella cosa deve risvegliare un ricordo, certamente, ma non vado troppo a fondo da quel lato quando cerco le immagini. Tutte queste interferenze rischierebbero di spezzare la magia. Poi, comincio a notare che certe porzioni di queste foto hanno fatto scattare qualcosa. Quindi, per me si tratta piuttosto di frammenti d’immagini che di immagini intere. Prendo questi pezzi e cerco di ricomporre qualche vago ricordo scomparso. In fondo, tutto sta nella ripetizione. Si fa un’opera dopo l’altra senza mai riuscire davvero a raggiungere quel ricordo che è sepolto, rimosso o altrove.
CB: Credo che sia molto diverso, ciò che fai con queste foto. I fotogrammi hanno uno strano rapporto con la realtà. Quando si vede una foto, si pensa sempre che sia vera, mentre in realtà non lo è mai. Il fotogramma è molto ambiguo, perché la sua forma materiale ci dice che dobbiamo crederci, e allo stesso tempo sappiamo che non è vero, perché è cinema. È questo che mi interessa nel lavoro di Jeff Wall.
Lui utilizza la foto come fosse un teatro. Si sa bene che ha scelto i partecipanti e che la foto ci mente, che tutto è messo in scena. Ma quanto somiglia alla realtà! Nel mio lavoro, uso sempre la foto come prova della verità. Se una foto ci tocca, è anche perché contiene una promessa di realtà. Per me, una foto è un po’ come un cadavere o degli abiti vecchi. Uso molti vestiti usati nel mio lavoro. Una giacca conserva a volte l’odore della persona che un tempo la indossava. C’era qualcuno che ora non c’è più. C’era un soggetto, e ora abbiamo un oggetto.
Anche la foto è un oggetto che ha una sorta di rapporto vivo con il soggetto, l’uomo nella foto. Si può usare una foto come oggetto. Ci si può camminare sopra o strapparla. Ma si agisce sempre in rapporto al suo soggetto. Mi sembra che nella foto ci sia costantemente questa ambiguità dell’oggetto che non è dissociato dal suo soggetto.
JB: Penso che davanti a un dipinto ci si dica che si ha a che fare con una versione del mondo reale proposta da qualcun altro. Davanti a una fotografia, non si prende il distacco. È supposta rimandare concretamente al mondo reale. Questo è uno dei vantaggi della foto. Le persone ci credono a priori.
Ho un debole per le foto di agenti immobiliari e di periti assicurativi, insomma, tutte quelle foto che non hanno alcuna pretesa artistica, ma mirano semplicemente a raccogliere informazioni. Questa idea mi piace molto: l’arte come informazione. A forza di passare la vita a pensare a ciò che è bello, si finisce per diventare diffidenti. Si arriva a quel punto privilegiato in cui non si vuole più la bellezza. La bellezza non è più bella! Dopo un po’, si conoscono a memoria i mezzi per abbellire le cose e tutto diventa sospetto. Si guarda l’arte come un giocatore professionista guarda una partita di carte: in agguato, cercando il trucco.
John Baldessari. No Stone Unturned – Conceptual Photography Photo credits: Adriano Mura Courtesy: Fondazione Querini Stampalia, Venezia
John Baldessari
(1931–2020) ha vissuto e lavorato a Venice, California.
Tra le sue principali mostre personali ricordiamo: Museo de Arte Contemporáneo
Atchugarry, Maldonado, Uruguay (2025); Fundación Malba–Museo de Arte
Latinoamericano de Buenos Aires (2024); Moderna Museet, Stoccolma (2020);
Laguna Art Museum, Laguna Beach (2019); Museo Jumex, Città del Messico (2017);
Städel Museum, Francoforte (2015); Garage Center for Contemporary Culture,
Mosca (2013); Fondazione Prada, Milano (2010); Stedelijk Museum, Amsterdam
(2011); e Tate Modern, Londra (2009), che ha viaggiato anche al Museu d’Art
Contemporani de Barcelona (2010), al Los Angeles County Museum of Art (2010)
e al Metropolitan Museum of Art di New York (2010–2011). Tra le mostre collettive:
la 53. Biennale di Venezia (2009), dove ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera;
la Whitney Biennial (2009, 1983); Documenta VII (1982), Documenta V (1972) e la
Carnegie International (1985–86).
John Baldessari
No Stone Unturned – Conceptual Photography
@ 2025 Artext