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Gianni Caravaggio
Iniziare un tempo II
Testi

 
Gianni CaravaggioGianni Caravaggio, Iniziare un tempo II, Firenze Museo Novecento. Photo Serge Domingie.


Firenze Museo Novecento
Gianni Caravaggio Iniziare un tempo II
a cura di Gaspare Luigi Marcone

*In questa occasione l’artista Gianni Caravaggio “preleva” e “riattualizza” la Base magica di Manzoni (1961) grazie alla quale qualunque persona, o oggetto, può essere trasformata in opera d’arte. In realtà il confronto poetico-concettuale tra Caravaggio e Manzoni ha origini lontane. Nel 2008, per esempio, nel suo testo intitolato L’opera d’arte come dispositivo per atti demiurgici, Caravaggio scrive: “[…] il dispositivo predispone all’atto demiurgico ma è anche il suo unico detentore permanente paragonabile alla capacità della Base magica di Piero Manzoni di definire lo spettatore come un’opera d’arte vivente. L’atto artistico in quanto atto demiurgico si rigenera nel suo dispositivo, se non accade l’atto artistico resta in potenza. Ricreare l’atto artistico è scoprire l’enigma del dispositivo. L’opera d’arte come dispositivo è la creazione che predispone alla creazione”.

Il lavoro “interattivo” manzoniano dialoga con l’opera di Caravaggio Giocami e giocami di nuovo (1996) dove lo spettatore può “giocare” –sedendosi su quattro strati di tessuto dalla forma orbitale tinti di un azzurro diverso – una sorta di partita a dadi, dove con un bicchiere di base ovoidale lancia piccole sculture in bronzo che rimandano ai cinque continenti, forme plasmate direttamente dalla mano dell’artista-demiurgo.

In una sala è protagonista una nuova versione del lavoro L’orizzonte si posa su una nuvola mentre il sole la attraversa (2015-2018) grande ammasso di nylon che in parte potrebbe rievocare anche alcuni Achromes di Piero Manzoni nonché le Linee del grande artista milanese. In quest’opera di Caravaggio un filo azzurro di cotone è adagiato su un groviglio di fili da pesca, assumendone i contorni frastagliati, mentre un altro filo di cotone giallo attraversa la nuvola, mantenendo il suo percorso invariato.

In una delle sale più grandi dedicate al progetto l’artista costruisce uno “scenario” con alcuni suoi lavori già noti e altri inediti. Tra questi Il mistero nascosto da una nuvola (2013-2018), composto da marmo e zucchero a velo, così descritto dall’artista: “L’essere velato ha sempre contraddistinto il mistero, ovvero qualcosa che vive nella parte abissale della nostra immaginazione, così da non essere mai completamente compresa. La visione del mistero si manifesta incomprensibilmente aperta e, per questo, continuamente vitale. Dal’altro canto è proprio nell’atto di velarsi, come si vela una torta al cioccolato con lo zucchero a velo, che il mistero s’incarna e si manifesta. Si manifesta sempre concretamente, come un paesaggio in cui la punta di una montagna affonda in una nuvola, o in un viso nascosto da un velo. La natura ama nascondersi – ri-velarsi appunto – ed è proprio nel nascondersi che si manifesta come immagine – un paradosso logico, ma in questo manifestarsi ho la sensazione che la natura ci chieda non comprensione ma accoglienza, una rilassatezza in cui ci lasciamo iniziare da ciò che appare come mistero”.

La mostra si presenta quasi come un’antologica “delineata” da alcune opere-simbolo cariche di denominatori comuni tra l’arte di Caravaggio e la ricerca di Manzoni, entrambi esploratori di “mondi nuovi”, entrambi sperimentatori di materiali eterogenei tra classicità, quotidianità e contemporaneità.


L’opera d’arte come dispositivo per atti demiurgici

Cosa ne è dell’osservatore, dell’osservatore di un’opera d’arte?
Intendo quell’elemento della triade – con l’artista e l’opera d’arte – che chiamiamo anonimamente ‘pubblico’.
Lo possiamo definire come quel fattore numerico che in molti musei negli ultimi anni decide se una mostra è stata un successo o no o se bisognerebbe farla o no?
O definiamo pubblico quello che, un po’ secondo Duchamp, decide la sorte di un’opera d’arte dopo che gli è stata consegnata dall’artista?
Sono forse quelle persone talmente interessate all’arte che per fruire e capire un’opera sono pronte a informarsi prima su vari episodi biografici dell’artista oppure sui vari contesti socio- e geo-politici per potere così giustificare la visione dell’opera, aggiungendo magari anche l’inclinazione sessuale dell’artista?
Sono dunque quelli che per informarsi sull’attuale situazione nel mondo non aspettano altro che una virtuosa illustrazione dell’artista?
Sono semplicemente quelli che si interessano a comprendere le intenzioni dell’artista?
O sono quelle persone che subiscono il mito e le leggende dell’artista per poi venerare l’opera come una sua traccia o forse una sua reliquia?
Oppure, per finire, sono quelle che cercano l’intrattenimento?
Da qualche tempo ho riflettuto su queste varie possibilità di definire il pubblico ma non posso condividerne alcuna.
Amo riflettere le cose per un loro ruolo sostanziale e non circostanziale.
Quindi attribuisco all’osservatore un ruolo di sostanza.
Questo significa che esso fa sostanzialmente parte dell’opera d’arte.
Come?
La risposta sta nella trasmissione, ovvero nel compimento dell’atto artistico.
Mi sono sempre chiesto perché dopo che l’artista compie l’atto artistico per realizzare e materializzare l’opera poi nell’opera stessa si presenta come il ricordo nostalgico di quell’atto compiuto e l’osservatore ne deve essere lo spettatore esterno (gli resta il compiacimento formale e concettuale).
Ho pensato che egli potesse compiere l’atto artistico ex novo ogni qual volta si relazioni con l’opera. E pensando a lui in verità ho pensato a me stesso. In questo senso l’artista, dopo che l’opera è compiuta tecnicamente, assume la stessa prospettiva dell’osservatore o l’osservatore la stessa dell’artista.
In questo senso l’opera d’arte si costituisce come dispositivo per atti artistici.
Ma come posso definire un atto artistico che non sia semplicemente a livello di decidere il colore della tela lasciata bianca o di una composizione di immagini digitali oppure la partecipazione a una camminata con l’artista, esempi questi tratti da alcuni lavori dell’arte relazionale degli anni ’90?
Penso che l’atto artistico in verità sia un atto demiurgico.
“L’attività secondo l’intelletto sarà divina in confronto con la vita materiale. Pertanto non bisogna dare retta a coloro che consigliano all’umano, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare cose umane e mortali; anzi al contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi”. Questo era Aristotele nella Etica Nicomachea (X7, 1177b 30-34).
Per i Greci l’intelletto (nous) non è solo l’attività razionale ma è la sostanziale verità dell’uomo. Invece il demiurgo è un’artefice divino, l’intelligenza che progetta il mondo, avendo le idee a modello e la materia come strumento.
In questo senso l’atto artistico in quanto atto demiurgico è esplicitamente riservato per definire quegli atti che non solo creano qualcosa ma creano un mondo, un universo nuovo con tutte le dinamiche immaginative (poetiche, scientifiche, e metafisiche) della creazione. Atti e artifici che evocano una vicinanza alle stesse leggi che costituiscono i grandi sistemi, drammaticamente governati dal caso oppure se si vuole dalla provvidenza, e che hanno reso possibile la nostra stessa esistenza.
L’opera d’arte come dispositivo per atti demiurgici dà la possibilità di ripercorrere se stessi nella storia dell’universo ma nello stesso tempo offre la possibilità di poterne uscire fuori e porsi in uno spazio demiurgico al di fuori della storia dell’universo e quindi dalla nostra storia con la possibilità sgravante di iniziare un altro mondo e metterlo in concorrenza a quello esistente.
Quindi opera e spettatore sono gli agenti di un gioco iniziatico cosmico che l’artista ha predisposto ma che non governa completamente.
Dall’altro canto il dispositivo predispone all’atto demiurgico ma è anche il suo unico detentore permanente paragonabile alla capacità della Base Magica di Piero Manzoni di definire lo spettatore come un’opera d’arte vivente.
L’atto artistico in quanto atto demiurgico si rigenera sul suo dispositivo, se non accade l’atto artistico resta in potenza.
Ricreare l’atto artistico è scoprire l’enigma del dispositivo.
L’opera d’arte come dispositivo è la creazione che predispone alla creazione.

Gianni Caravaggio, 2008


Gianni CaravaggioGianni Caravaggio, Iniziare un tempo II, Firenze Museo Novecento. Photo Serge Domingie.

Iniziare un tempo

Vorrei che lo spettatore, osservando la qualità visiva e fisica delle opere, con l’aiuto del titolo intraprendesse un viaggio nella sua immaginazione; mi piacerebbe che lei/lui “inizi un tempo”. Chiaramente, se per qualche svista questo senso di immaginazione dovesse a loro sfuggire, tutto ciò che rimarrebbe sarebbe una riduzione a due oggetti sconnessi: uno materiale e l’altro linguistico. Vorrei tuttavia sottolineare che lo spazio dell’immagine sia già radicato in noi (al quale reagiamo con una familiarità inaspettata). Questa misteriosa familiarità dissolve la sensazione di alienazione dal mondo che preoccupava le menti lucide del tardo XIX secolo. Sto insistendo sullo spazio della pura immaginazione in cui l’oggetto, se non è una proposta evocativa, non è nulla, evitando così il suo destino da feticcio divertente. Penso che solo la relazione poetica possa risolvere l’alienazione umana. Siamo una specie di paradosso; noi siamo la contemplazione di qualcosa più grande di noi. In Monaco in riva al mare di C. D. Friedrich, la natura è molto più potente, dominante e quasi ostile, eppure il monaco ne sente un’umile familiarità. Mi piace pensare che le cose abbiano una memoria intima che punta segretamente verso la nostra sensibilità. Vorrei isolare e concentrare quella sensibilità in una forma in cui i gesti del mio fare diventano i gesti demiurgici della fruizione. Ciascuno dei miei lavori è stato realizzato per trasmettere un atto creativo allo spettatore. Credo che questo atto appartenga già allo spettatore. Come se nel momento in cui fosse dato, lo spettatore lo ricordasse inconsciamente. L’osservatore in questo caso non consuma l’opera d'arte, ma nell’iniziarla compie un “atto demiurgico”. “L’immagine è ciò che si lascia iniziare, tutto il resto è perso per la nostra immaginazione”, ha affermato Jean Baudrillard in una delle sue ultime conferenze, superando la sua visione apocalittica del mondo mediatico postmoderno. Sul pavimento delle prime due sale, come in un oceano di possibilità o come una tela bianca in attesa di essere dipinta, sta per accadere uno scenario paesaggistico…

Gianni Caravaggio, 2018


*Il testo introduttivo ed i testi critici di Gianni Caravaggio sono tratti dal foglio critico realizzato dal Museo Novecento in occasione della mostra di Gianni Caravaggio, Iniziare un tempo II, a cura di Gaspare Luigi Marcone. Firenze Museo Novecento.


Gianni CaravaggioGianni Caravaggio, Iniziare un tempo II, Firenze Museo Novecento. Photo Serge Domingie.

 

Gianni Caravaggio. Iniziare un tempo II
a cura di Gaspare Luigi Marcone
Firenze, Museo Novecento, novembre 2018 - febbraio 2019.
@ 2019 Artext

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