Endgültige Form wird von der Architektin am Bau bestimmt
La forma finale è determinata dall’architetta sul cantiere
Pavilion of Swiss
Nel contributo svizzero alla 19ª Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, le curatrici si chiedono:
«E se fosse stata Lisbeth Sachs, e non Bruno Giacometti, a progettare il Padiglione Svizzero?»
Sachs (1914–2002) è stata una delle prime donne architette ufficialmente registrate in Svizzera, contemporanea di Bruno Giacometti, autore del Padiglione Svizzero ai Giardini della Biennale di Venezia. È proprio in questo padiglione che le curatrici intendono far rivivere la breve esperienza della Kunsthalle ideata da Lisbeth Sachs per la Saffa, l’Esposizione svizzera del lavoro femminile del 1958 a Zurigo: un gesto costruttivo che richiama l’assenza storica di donne architette nei Giardini e rievoca la memoria spaziale di architetture meno conosciute.
«E se fosse andata diversamente? — Affrontiamo questa domanda come una finzione produttiva. Mettere in dialogo l’opera di Sachs con quella di Giacometti significa far convivere due visioni architettoniche, invitando i visitatori a riflettere sulla necessità di inclusività nella storia dell’architettura e nella pratica contemporanea. Questo intervento non è solo fisico, ma anche temporale: collega diverse eredità architettoniche e coinvolge la percezione dei visitatori rispetto alla continuità», affermano le curatrici.
Endgültige Form wird von der Architektin am Bau bestimmt. Padiglione Svizzero alla 19. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia.
E se fosse stato altrimenti?
Riportare alla luce il padiglione delle belle arti di
Lisbeth Sachs e ricostruirlo nel presente evoca la
memoria spaziale delle meno conosciute donne architette.
Sachs (1914-2002) è stata una delle prime
architette registrate in Svizzera e contemporanea
di Bruno Giacometti, a cui si deve la progettazione
del Padiglione svizzero nei Giardini della Biennale di
Venezia. L’interpretazione frammentata di questo peculiare
padiglione promuove un dialogo strutturale e
simbolico dove il legno prende il posto del calcestruzzo
e il sistema di illuminazione centralizzato (come
da piano originario) funge da veicolo di trasmissione
acustica — tra la generazione di Sachs e la nostra, ma
anche tra i concetti di arte e architettura. Mentre la
luce si converte in suono, il padiglione passa a un’altra
dimensione, con una sorta di sintonizzazione costante.
Ha luogo una negoziazione sulla conservazione
delle due strutture sovrapposte, che non potrebbero
essere più diverse nel loro linguaggio formale.
Combinando lo sconosciuto con ciò che è noto
ci si addentra nella sfera del prodigio, dove non resta
che porsi quesiti ovvi: E se fosse stato altrimenti?
La risposta sarebbe: bisogna viverlo per crederlo.
E a volte bisogna costruirlo per sentirlo.
Endgültige Form wird von der Architektin am Bau bestimmt. Padiglione Svizzero alla 19. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia.
Il padiglione delle belle arti di Lisbeth Sachs
Il progetto originale di Lisbeth Sachs per il padiglione
delle belle arti propone un approccio peculiare alla
forma, alla struttura, al movimento e al paesaggio.
Concepito come padiglione temporaneo per l’Esposizione
nazionale svizzera del lavoro femminile (Saffa),
tenutasi a Zurigo nel 1958, fu demolito poco dopo il
termine dell’esposizione. Gli oggetti disposti sulle pareti
radiali si percepivano in armonia con il paesaggio
circostante: traslucenti tetti a membrana si protraevano
fino ad avvolgere le colonne centrali e diffondevano
la luce diurna proiettandola dall’alto. Pali, muri
e anelli coesistevano in armonia dando stabilità alla
struttura aperta, inducendo un movimento fluido che
dal parco conduceva al padiglione. Accompagnando
i sinuosi flussi delle persone e dei tendaggi, lo stesso
spazio si convertiva in una coreografia: “Wandernd,
schlendernd, auf geschwungener freier Spur.” (“Vagare
aggirandosi lungo sentieri aperti e curvilinei.”)
“Dare ascolto” come pratica di rendere pubbliche le cose
Con l’integrazione di un’installazione sonora sitespecific,
il Padiglione della Svizzera si è trasformato
in un’esperienza multisensoriale. Il processo progettuale
è stato documentato mediante registrazioni sul
campo che catturano conversazioni, luoghi e fasi costruttive
in cantiere. Evolvendo con il tempo e i movimenti,
questa composizione sonora invita all’incontro
con una “architettura che risuona”, una memoria
spaziale immersiva che prende forma quando le voci
del passato e del presente si incontrano. La natura
non lineare dell’installazione funge da nesso tra attori
diversi fornendo altresì una comprensione dell’architettura
che va oltre il suo ruolo di mera struttura
spaziale, convertendosi in un corpo risonante, dalla
sonorità viva.
L’incompiuto — o piuttosto, ciò che è imprecisato
— è il regno della poesia, il luogo dove rimangono
sospese forme convenzionali di pensiero, da cui nasce
un nuovo spazio. Uno spazio fittizio che induce a
riflessioni importanti: Come dovremmo vivere e costruire
al giorno d’oggi? Qual è il nostro rapporto con
la natura? In che modo ci posizioniamo in quanto individui
ma comunque appartenenti a una comunità?
Annexe è un gruppo di architette che valorizza
e predilige una cultura della costruzione che
parte da ciò che si ha a disposizione. Agendo
all’incrocio tra architettura e performance,
Annexe integra quanto già esiste, schiudendo
nuove possibilità in termini di spazio. Il gruppo
ricorre alla finzione quale strumento per
evocare il lavoro pionieristico delle professioniste
del design, dando vita a un confronto
con — e imparando da — chi ci ha preceduto.
L’attività di Annexe è relazionale, un connubio
tra presente e passato, tra risorse materiali
e conoscenze immateriali. Il gruppo funge
da veicolo per accogliere diverse forme di collaborazione
e pratiche edilizie femministe.
Endgültige Form wird von der Architektin am Bau bestimmt. Padiglione Svizzero alla 19. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia.
Annexe
«Endgültige Form
wird von der Architektin
am Bau bestimmt.»
Forza, sali a bordo, nonnina.
“Io?”, direbbe, appena un po’ ammiccante
È un salto nel vuoto in cui vieni trasportato. Perché
non c’è una spiegazione per questo viaggio. È come
entrare in un mondo parallelo. Superando le circostanze
più inusitate. Indossa gli occhiali 4D.
Immagina: Ursula K. Le Guin fa appello all’umanità
per riflettere su chi possa rappresentare al
meglio la propria specie agli alieni. Potrebbe essere
la persona più longeva, che vive “ai confini del mondo”
— come la nonna, con la sua grande esperienza
di vita?
“Ma non ho mai fatto niente”.
Immagina la scena: la nonna che ritorna smaterializzata
dal suo viaggio in un altro mondo, con
un messaggio enigmatico che recita : «Endgültige
Form wird von der Architektin am Bau bestimmt.»
(La forma finale è determinata dall’architetta sul
cantiere). Le architette del gruppo Annexe ricevono
questo messaggio e accettano la sfida di ricercare
una forma finale — una struttura all’interno del Padiglione
della Svizzera.
“Dovete mandare qualche scienziato, quelli sì che ci sanno parlare
con questi buffi esserini verdi.
Oppure dovrebbe andare Kissinger.
E sennò uno sciamano?”1
Nonostante la sua breve esistenza, lo spazio
espositivo di Lisbeth Sachs, allestito a Zurigo nel
1958 in occasione dell’Esposizione svizzera del lavoro
femminile (Saffa), suggerisce un audace gesto
architettonico sovrapposto all’edificio progettato da
Bruno Giacometti nel 1952. Si tratta di uno sforzo
materiale: il progetto di Sachs è speculare, invertito,
accostato al piano di Giacometti. Ed è proprio questo
effetto rovesciato a colpirci con la realtà, diretto alla
retina. La modernità ha preso vita nel rovesciamento
della stampa e della matrice.
Il progetto di Sachs invitava il parco a estendersi
nello spazio espositivo, annientando la stessa logica
della binarietà — non solo offuscandone i confini,
bensì esponendo anche la loro artificialità. Questo
gesto architettonico equivale a una rivoluzione pacifica:
là dove regnavano gli opposti (dentro/fuori, permanente/
effimero, presente/assente), rimane solo un
fluido divenire. La forma finale esiste precisamente
per mettere in discussione la sua stessa esistenza —
un’asserzione intenzionale a ribadire che l’architettura
non è mai realmente completa.
Intraprendiamo un tormentato viaggio sul suolo
instabile dei Giardini della Biennale — una terra
dove le donne non esistono. Il padiglione delle belle
arti funge così da simbolo di comunicazione fallita.
Ci soffermiamo per rivisitare un vecchio problema:
l’assenza, la discontinuità, la precarietà della vita.
Nelle crepe della realtà e della storia, la fantascienza
ci aiuta a ritrovare il cammino per addentrarci in
nuovi spazi e dimensioni. (AS)
Nota
1 “La vecchietta spaziale” (1976), Ursula K.
Le Guin, in I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismotransl. Veronica
Raimo, Edizioni SUR (2022), p. 68.
Endgültige Form wird von der Architektin am Bau bestimmt. Padiglione Svizzero alla 19. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia.
Curatori/Espositori: Elena Chiavi, Kathrin Füglister, Amy Perkins, Axelle Stiefel e Myriam Uzor