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Daniela de Lorenzo
In dialogo

 

Artext - All'origine della tua arte sta forse una questione ontologica, un'interrogazione a fondamento del segno, "il reale mentre si ritrae", "l'esserci mentre dilegua”.

Daniela De Lorenzo - All’origine c’è una coesistenza di ‘reale e virtuale’ o più precisamente di ‘reale e potenziale’, dove potenziale molto spesso diventa una ricerca ossessiva dell’invisibile, come ad esempio la registrazione di tracce di un movimento motivate da sensibilità psicologiche. La percezione si compie senza distinzione tra percepire ed essere percepiti, ma anche in quel costante intreccio con l’immaginario che ci rende presente ciò che è assente; la percezione come elaborazione teorica su cosa sia la ‘realtà’ in quanto tale, tocca pertanto il tema dell’essere. ‘Dileguarsi’ è una condizione necessaria per riflettere, attraverso il corpo, sul mistero dell’identità, in continui sfasamenti temporali che mettono in luce ambiguità inaspettate. Una messa in questione del ‘riconoscibile’, oltre che la coscienza di non poter praticare un'unica identità. In un altro tempo, in un'altra identità.

Daniela De LorenzoSogno infrangibile 2013

D. - Uno specifico metodo analitico, è base alla riflessione sul corpo in molte delle tue opere. Puoi raccontare di questa rilettura storico critica della pratica e della tua ricerca artista.

D.d.L. - Il corpo è soggetto e oggetto della mia ricerca, indagato soprattutto nel suo aspetto sensibile e non necessariamente vicino ad una figurazione. Ricerco micromovimenti, vibrazioni volontarie e involontarie che ri-disegnano la nostra percezione ed il nostro ’sentire’. Veri e propri esercizi che registrano il mio equilibrio, proiettando il baricentro a terra, in stabilità più o meno precarie o le tracce dello sguardo con cui indaghiamo un altro volto, oculografie che disegnano traiettorie invisibili. Lo sguardo si ferma su quelli che per ognuno di noi sono oggetti di attrazione, per cui denotano un aspetto psicologico importante. Analizzare la visione attraverso il punto di osservazione dimostra quanto realtà ed apparenza siano vicine; la ripetizione di un gesto esitante, la sospesa attrazione del vuoto, l’impulso ad andare, ma solo per interrompersi, il ‘frattempo’.

Daniela De LorenzoFalsetto 2010

D. - In cosa consiste per te il lavoro dell'arte - in ordine ad una tensione nelle tue opere che attraversa il processo creativo. Paradigma spazio e medium, esposti in percezione agli innumerevoli doppi del presente.

D.d.L. - Vorrei parlare del mio interesse, ricorrente in molti lavori, per un principio duplice. ‘Il doppio’ si sa, rappresenta l’inizio della moltitudine da un lato e il riflesso di sé dall’altro, permette anche però un nuovo sguardo su cose già esistenti e conosciute. I miei primi lavori fotografici erano il risultato di sovrapposizioni di due negativi invertiti o incrociati, pensati per dare una nuova possibilità di esistenza alle sculture in feltro presenti in quel periodo in studio o a oggetti d’affezione del quotidiano. Il risultato, delle ‘apparizioni’ enigmatiche estranee allo scatto singolo. Dal momento che il centro dell’indagine della mia ricerca su la scultura era già il corpo umano, ho iniziato a lavorare su i ritratti. Anche in questo caso ricercavo all’interno di un volto conosciuto qualcosa di ‘sottile’, mettendo in luce un aspetto ‘diverso’ attraverso la familiarità stessa. Vere e proprie enantiomorfosi. Nel corpo la specularità è sempre imperfetta, ricorrendo ad una sovrapposizione invertita di due negativi praticamente identici, volevo evidenziare l’impossibilità di una simmetria tra la parte destra e sinistra del volto mettendo così in luce l’assoluta mancanza di espressione. Da qui il titolo Incanto.
Di ‘doppio’ all’interno dell’uno si può parlare anche della serie di autoritratti realizzati nel 2007 dal titolo Affondo. Un accostamento improbabile di due scatti fotografici diversi nel tempo, nella distanza, nella messa a fuoco, di particolari ravvicinati del mio volto, tentando così un unità impossibile.

Daniela De LorenzoIncanto 1999

D. - Le condizioni che i tuoi lavori di scultura e site-specific impongono allo spazio che li ospita sembra provenire da attitudini differenti... "semplificando, da una parte il Minimalismo con la sua ferrea riduzione alle forme e ai fenomeni fisici essenziali, dall'altra la compassionevole assunzione di lacerti del vissuto - dal New Dada all'Arte Povera". Potresti ridefinire questo tema e questa stagione del tuo lavoro.

D.d.L. - Se ho guardato con interesse al Minimalismo all’inizio e all’Arte povera poi, mi sento lontana da movimenti come il New dada. Ricordo che nella metà degli anni ’80, la mia attenzione andava verso la trasformazione della scultura ed in qualche modo la negazione stessa, fino nell’utilizzo di materiali desueti. Minimo, ma non Minimale, lavori in cui lo spazio era un fattore determinante per la stessa esistenza della scultura tanto che avevo bisogno di una sorta di proliferazione di vari elementi che coinvolgevano completamente lo spazio che li conteneva. Una scultura che somigliava al disegno, come un'idea appena accennata. Sentivo, e non solo io, la crisi del progetto e lo pensavo come un filtro che permetteva la trasformazione, rifiutavo la geometria primaria e ricercavo equilibri precari, mi riconoscevo pienamente nella provvisorietà. L’Arte povera ai suoi esordi è nata come un gruppo compatto di artisti, anche se molto diversi tra loro, legata profondamente al momento storico, politico e sociale che caratterizzava la cultura della fine degli anni ’60. Il rapporto tra la rivolta di quegli anni e questa ricerca è innegabile. Noi abbiamo vissuto un periodo completamente diverso, le ideologie entravano in una crisi profondissima e le opere che abbiamo prodotto rispecchiano il momento culturale e storico. Oggi penso che questo ci abbia donato molta libertà e finalmente possiamo scegliere dove soffermare il nostro sguardo.


Daniela De LorenzoDistrazione 2000


D. - Come prende inizio ogni tuo singolo lavoro, da un titolo, una visione? Penso alla paziente stesura nel tempo di emozioni e sentimenti con la quale ricostruisci frammenti e corpi. Forse che i tentativi di introdurre la durata a ristabilire istantaneità, "impronta del possibile" un dispositivo storico atto alla stabilità stessa del visibile.

D.d.L. - A volte può essere una semplice riflessione da cui scaturisce la necessità di saperne di più e allora si rende necessaria una ricerca anche molto lunga, prima che il lavoro prenda forma. Per esempio alcuni anni fa volevo lavorare su la ‘dimenticanza’, fonte di grandi intuizioni nella ricerca e nell’arte. Ci sono alcune frasi che Franz Kafka ha scritto nei suoi diari su questo argomento che sono state per me illuminanti. Da qui, dopo molto letture, alcune delle più importanti sicuramente lo studio sul ‘ricordo del presente’ di Henry Bergson, o i racconti di Beckett dove la postura è un immagine esplicativa dello stato d’animo dei vari personaggi, ho realizzato una serie di lavori usando la scultura, la fotografia e il video. Queste opere mettevano in stretta relazione il movimento libero regolare ordinato con la perfetta efficienza della memoria. Ultimamente ho lavorato molto su l’interno del corpo umano, non perché abbia uno speciale interesse per l’anatomia, ma la mia attenzione voleva essere un invito a ‘guardarsi dentro’, in qualche modo per fare luce sul funzionamento del nostro corpo e su i nostri segreti. Ho avuto bisogno di osservare e leggere atlanti anatomici per realizzare delle mappature a fondamento della vita stessa, come ridisegnare con l’aiuto del ricamo la rete delle principali vene del nostro corpo o i nervi mimici, quelli che consentono l’espressione. A volte invece una ‘visione’ nata da una parola, o dalla sua etimologia, da una frase, da un immagine e perfino da un sogno. In questo caso tutto avviene più velocemente e posso dopo un disegno, a volte piccolissimo che somiglia più ad un appunto, iniziare a lavorare.


Daniela De LorenzoRitrarsi 2003


D. - La questione identitaria rileva in definitiva un senso espressivo, e sopratutto nei video assicura la sopravvivenza della figura con la creazione del suo simulacro. Puoi raccontare in che modo hai eluso ogni univoco tentativo d’identificazione con il proprio Io, cosi da concedergli un’ulteriore chance d’esistenza.

D.d.L. - L’autoritratto non ha per me nessuna valenza autoreferenziale, ho usato me stessa come se fossi stata, l’unica su cui disporre, per facilità. Centrale è sempre un micro atto performativo che sta all’origine di tutto il lavoro su l’autoritratto fotografico e negli ultimi anni, video. Immaginare (procurarsi) una ‘distrazione’ mentre sono di fronte all’obbiettivo fotografico, uno spostamento improvviso della testa al momento dello scatto in modo che l’istantanea si dilati nel tempo, facendo emergere la traccia di questo movimento e cancellando così ogni riconoscibilità. Gesti semplici ed evocativi come lasciarsi cadere, girarsi, allontanarsi. Un lavoro come Ritrarsi allude al doppio significato di ‘tirarsi indietro’ e ‘ritrarre se stessi’ una condizione necessaria per diventare oggetto del proprio sguardo. Ho usato invece un mezzo diverso come il video nel lavoro Panorama per registrare piccoli spostamenti sul volto. Qui ho un cappello di lana tirato sul viso e appoggio il mento pensandomi come una scultura. La cosa che volevo mettere in risalto è la mobilità che rappresenta un linguaggio anteriore rispetto a quello verbale, le espressioni. Il volto come condensatore di significanza, quello che da solo ci fornisce un maggior numero di informazioni, concentrandomi su l’altro, l’essere visto, non il vedere.

Daniela De Lorenzo Agile 2005, frame.

D. - Potresti parlare dei tuoi incontri formativi - le tue letture, le frequentazioni, l'esperineza di Zona a Firenze, la collaborazione con Antonio Catelani e Carlo Guaita, situazioni e contesti che attraversano la tua esperienza, segnando il processo creativo.

D.d.L. - Non vorrei ripercorrere qui la mia condivisione su come intendere la scultura con artisti come Catelani e Guaita dei primi anni, fondamentale per me, ma ne ho parlato e scritto molte volte… Per quanto riguarda la straordinaria esperienza di Zona , non l’ho vissuta , ero troppo giovane per frequentarla. Quando iniziavo ad esporre Zona era alla fine della sua esperienza. So però, che in una città difficile come Firenze grazie agli artisti che l’hanno fondata, sono passate molte delle figure che hanno segnato le esperienze artistiche di quegli anni. Le mie frequentazioni più assidue, oltre che con Catelani e Guaita, sono state con molti artisti della mia generazione, in particolare con alcuni presenti nella mostra del 1990 Una scena emergente al Museo Pecci di Prato e con i quali ho condiviso altre esperienze in Italia e in Europa. La lettura mi accompagna sempre, oltre ad alcuni autori, scrittori e filosofi che ri-leggo spesso, il Cinema dei grandi registi mi interessa molto e sempre mi aiuta a riflettere sulla formazione di un immagine e sull’enigma del tempo. La novità di quest'ultimo periodo è un avvicinamento alla scienza, in particolare le nuove ricerche neurologiche, diverse dalla psicanalisi, sul sogno e su la coscienza.

Daniela De LorenzoParipasso 2015

D. - Hai associato l'uso di un materiale, il feltro, non-tessuto e senza trama a condizioni formali e metamorfiche, ad una temporalità mimetica e in movimento a spirale del suo tempo che cresce seppur avvitandosi su se stesso e così si orienta. Si tratta forse di un dispositivo atto a trattenere fermo lo sguardo dell’osservatore verso la sua sorgente, Il soggetto delle opere, l’Io dell’artista? il nostro apparire declinato in diverse variazioni...

D.d.L. - Ho scelto come ‘materiale d’elezione’ per la scultura il feltro dai primi anni ’90 e da allora ne ho sperimentato diverse possibilità di utilizzo. Si tratta di un materiale che per sua natura ‘cade’ ed era ciò che cercavo per una scultura che deve stare in sospeso, nella soglia tra essere e non, tra pieno e vuoto. Inoltre mantiene facilmente la forma, si potrebbe dire che ‘ha memoria’. Ma forse, il maggior motivo di attrazione per me è che non si tratta di un tessuto, è semplicemente lana pressata, non ha trama, rappresenta qualcosa di molto arcaico. L’uomo l’ha usato ( forse da sempre?) come protezione non solo per il freddo, ma anche per attutire i rumori; non è un caso che le tombe dei re Sciti erano rivestite di feltro.

Daniela De Lorenzo Segret 2014



 

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