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Chiara Bettazzi
Testi

 
Chiara BettazziChiara Bettazzi, Still life, 2021, a cura di Davide Sarchioni, BBS-pro/Accaventiquattro, Prato. Foto di Margherita Nuti


In dialogo
Chiara Bettazzi
Saretto Cincinelli

Saretto Cincinelli - In questo periodo ho avuto modo di visitare, a distanza di pochi giorni l’una dall’altra due tue mostre personali: una alla BBs di Prato in cui proponevi un ciclo di 13 grandi fotografie: una sorta di indagine molto personale e, simultaneamente, di infinita variazione sul tema della natura morta, con foto che richiamavano quelle esposte nel contesto della mostra collettiva On Flower Power, curata da Martí Guixé, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma e, qualche giorno dopo, una mostra più articolata a Villa Romana a Firenze che invece ruotava su una grande installazione, ma che proponeva anche foto, opere video e che infine rimetteva in gioco, sia pur all’interno di un diverso contesto, un’opera di qualche anno fa realizzata intorno al dispositivo della ‘camera ottica’: due mostre che -nella loro autonomia- si integravano perfettamente, restituendo una complessa e stratificata immagine della tua recente ricerca. Puoi dirmi se le due mostre sono state pensate o progettate come il recto e il verso di un’unica operazione?

Chiara Bettazzi - Le due mostre sono state pensate in momenti diversi: la mostra a Villa Romana doveva essere realizzata un anno fa ma… a causa della situazione pandemica le due mostre hanno finito quasi per coincidere. Detto questo, ho accettato comunque di buon grado la loro prossimità, accentuando gli elementi caratteristici di ciascuna. Devo comunque dirti che Still life, curata da Davide Sarchioni, è stata pensata fin dall’inizio come una mostra orientata prevalentemente a presentare la mia ricerca fotografica, anche se l’allestimento implica un calibrato intervento sullo spazio… In precedenza, le fotografie erano state proposte solo occasionalmente e tramite pochi esemplari, anche se in contesti espositivi importanti, come quella che tu, giustamente, citavi… Avvertivo, dunque, la necessità di presentare un ciclo fotografico nella sua integrità, o comunque di mostrare come la serialità fosse una componente essenziale di quel tipo di lavoro. È quanto ho cercato di mostrare tramite un allestimento pensato esplicitamente per quello spazio, un allestimento che -per la sua studiata impaginazione seriale- rimanda a un gesto installativo. Dall’ingresso, infatti, prima di entrare nella grande sala, è visibile una sola foto (la prima della serie) isolata sulla parete… ed è solo nel percorso di avvicinamento a quell’opera che inaspettatamente appare, in una parete ad angolo sulla sinistra una serie cadenzata di 12 fotografie, sei in una parete e sei nell’altra, a distanza piuttosto ravvicinata… Quando mi è stata proposto di realizzare una mostra in quello spazio ho accettato subito, non solo perché, come ho detto, mi offriva la possibilità di mostrare una serie nella sua integrità ma anche perché la cubatura e la luminosità dello spazio, essendo la BBs un ex edificio industriale, presentava caratteristiche molto simili al mio studio, dunque, condizioni simili a quelle in cui tutte le foto del ciclo erano state realizzate. La luce e le altezze apparivano perfette per accogliere quel ciclo di opere realizzato con variazioni di luci naturali. Da lì deriva anche la scelta di utilizzare unicamente luce naturale anche per illuminare le opere.

Chiara BettazziChiara Bettazzi, Still life, 2021, a cura di Davide Sarchioni, BBS-pro/Accaventiquattro, Prato. Foto di Margherita Nuti


Mentre il lavoro realizzato a Villa Romana mi ha spinto a fare un’operazione più articolata, proprio per la natura stessa del luogo. Una villa neoclassica, oggi residenza per artisti tedeschi, in cui ho potuto vivere una quotidianità che mi ha portato all’utilizzo di molte cose che ho trovato sul posto, cercando in cantine, scantinati e nel grande parco in cui è inserito l’edificio. Ho prelevato oggetti d’uso quotidiano, ceramiche, statue, vetri ecc. che ho potuto usare e combinare insieme a tutte le cose che mi sono portata dallo studio, in una sorta di grande trasloco. Il parco inoltre ha facilitato molto l’uso delle materie vegetali che ho inserito nel lavoro e che ho legato attraverso garze e fasciature alle strutture. Tutta la mostra ha ruotato intorno alla grande istallazione del salone principale in cui ho lavorato attraverso la registrazione dei cambiamenti di posizione delle cose all’interno della stanza stessa. Cambiamenti progressivi ossessivamente documentati attraverso la fotografia e il video: un materiale che in minima parte è stato poi istallato, tramite proiezione, all’interno della stessa installazione. L’operazione si è prolungata in un'altra sala più piccola in cui ho riattualizzato un lavoro del 2012 sulle ‘camere ottiche’ realizzato insieme ad Emma Grosbois, con la quale costruimmo alcune camere ottiche all’interno di oggetti presenti nel mio studio. Le stanze sono risultate così una la continuazione dell’altra. A queste due stanze, diciamo a carattere installativo, sono state aggiunte nelle stanze di fianco una serie di fotografie appartenenti a due cicli realizzati temporalmente in momenti diversi: un dittico fotografico del 2019, in cui il medesimo piano su cui appaiono regolarmente i miei classici ‘still life’, stavolta presenta un punto di vista più lontano, inglobando così nello scatto stesso l’intero tavolo, una composizione in cui forse risulta maggiormente l’idea temporale che avviene dallo spostamento delle materie… Nelle foto speculari di formato più piccolo presenti all’ingresso risulta ancora più evidente la volontà di portare davanti un dietro le quinte, quasi smascherando la costruzione di un set che stavolta ha come sfondo un panneggio nero, su cui si stagliano le mie braccia che compongono un vaso di fiori.

Chiara BettazziChiara Bettazzi, A tutti gli effetti, a cura di Alessandro Sarri, Villa Romana Firenze. Foto OKNO STUDIO


Credo che il risultato della mostra sia stato estremamente organico e che in tutti i lavori sia emerso fortemente un gesto e una modalità di lavoro che forse precedentemente si intuiva ma che qui viene messo in primo piano, a partire dal video che ho istallato all’ultimo piano e che si intitola Diary, in cui sfoglio le pagine di un diario realizzato nel 2014, alle quali aggiungo oggetti all’interno di pagine bianche che in questo caso riempio e svuoto continuamente. Un’ultima opera che voglio citare, presente sul ballatoio per accedere al secondo piano, è un lavoro composto ancora una volta da due elementi, una foto in bianco e nero, trovata in un mercatino dell’usato, e un video realizzato qualche anno prima, ad una casa abbandonata nella pineta di Roccamare. La casa (un’architettura ‘modernista’ degli anni ‘70) che ho filmato attraverso le grandi pareti di vetro mostrava un interno costituito da mobili e oggetti di design ben disposti e che -a prima vista- non lasciavano intravedere l’abbandono dell’immobile che ho scoperto successivamente. Il lavoro gioca molto sull’ambiguità della visione: nello spettatore permane infatti il dubbio se la foto e il video ritraggano la stessa struttura architettonica.

Chiara BettazziChiara Bettazzi, A tutti gli effetti, a cura di Alessandro Sarri, Villa Romana Firenze. Foto OKNO STUDIO


SC - Puoi spiegarmi come, nel corso del tempo, il medium fotografico -che pur ha sempre svolto un ruolo importante nel tuo lavoro (penso ad esempio ai diari, ma non solo) abbia assunto un ruolo centrale nella ‘messa in forma’ della tua ricerca, al punto da configurarsi -come nella mostra alla BBs- il ‘risultato’, sia pur plurale, e sottoposto a continue variazioni di una stazione della tua ricerca? un esito non completamente scontato o prevedibile solo qualche anno fa.

CB - Come hai appena detto, la fotografia ha sempre fatto parte del mio percorso. Il mio primo lavoro, realizzato nel 2008, che si intitola Polaroid, è composto da una serie di 12 fotografie scattate ad oggetti di uso quotidiano che immergevo nel gesso e depositavo all’interno di spazi industriali abbandonati nella Corte di via Genova. La fotografia è stata sempre usata da me in forma di registrazione e di passaggio che poi portava a studi preparatori per successive istallazioni. Anche nella fotografia è possibile cogliere l’elemento dell’accumulo, non scatto mai una sola fotografia ma una serie, che in passato ho raccolto in diari composti da immagini che si ripetevano, errori di inquadrature, fotografie sfocate e schizzi. Still life è il titolo della mostra alla BBs, visitabile fino al 26 settembre. In realtà anche questo è un lavoro che ritorna dal passato e che fu realizzato per una mostra Arrêt sur image curata proprio da te a Casa Masaccio nel 2014.

Chiara BettazziChiara Bettazzi, A tutti gli effetti, a cura di Alessandro Sarri, Villa Romana Firenze. Foto OKNO STUDIO


SC - Ricordo perfettamente quella mostra e l’opera a cui ti riferisci, ma vorrei farti notare che in quella occasione non si trattava esplicitamente di una fotografia, intesa nella sua materialità oggettuale ma, più propriamente, di una diapositiva, che proprio per la sua immaterialità permetteva un gioco più interstiziale, tra la composizione installativa degli oggetti reali e la loro immagine, un gioco di cui parte essenziale era la stessa ombra portata degli oggetti. In quel contesto si trattava, a tutti gli effetti, di una diapositiva inserita nel contesto di un’installazione; l’opera si configurava, infatti, come double face: una sorta di dittico temporale più che spaziale, tant’è che una variazione della stessa immagine ma dovremmo forse dire del set che aveva dato origine allo scatto fotografico era riproposta nelle stesse dimensioni sul verso della stessa parete di sfondo dell’installazione (per evitare di continuare a parlare di quell’opera fuori contesto mi permetto di rimandare a un link: http://rivista.senzacornice.org/#!/pagina-artista/26 che contiene le immagini e un’accurata descrizione). In quel caso l’operazione, con tutte le necessarie variazioni e distinzioni del caso, era maggiormente avvicinabile alla proiezione video che tu hai proposto efficacemente ad angolo, nel contesto dell’attuale installazione a Villa Romana, anche in questo caso, infatti, gli elementi vegetali e oggettuali che antecedono la parete, ‘presi’ nella proiezione, finiscono per inscrivere la loro ombra statica all’interno dell’immagine video in movimento.

CB - Si, concordo con te, nel caso di Casa Masaccio, infatti l’operazione consisteva appunto nel fotografare una natura morta composta da un teschio e da vasi chimici appoggiati su un tavolo di marmo e successivamente riproiettata sulla stessa composizione formata dagli stessi elementi ridisposti in maniera reale nella mostra. Ma quella è stata anche l’occasione che mi ha consentito, per la prima volta, di pensare alla fotografia, come potenziale medium autonomo di un’opera… Un medium che mi poteva permettere di inscrivere al suo interno una stratificazione temporale, una considerazione che mi ha concesso di pensare alla fotografia non più solo come ad un’immagine ma come -per citare il titolo di un libro di Philippe Doubois- come ad un atto (fotografico)… Un’intuizione quest’ultima su cui sto lavorando proprio in questo periodo in vista di una futura mostra… Ma per tornare alla tua domanda, la fotografia acquista un ruolo determinante, a partire dal 2019, diventando progressivamente protagonista, appunto di una sorta di Arrêt sur image e inizia ad esistere autonomamente, come pausa autonoma in un flusso combinatorio di oggetti. Proprio come quando in un film un’immagine si immobilizza mentre il film prosegue al suo ritmo. È per questo che tengo particolarmente a mostrare una serie o parte cospicua di una serie: è solo dopo aver superato le tre stampe fotografiche che -a mio parere- queste iniziano a denunciare un’origine seriale.

Chiara BettazziChiara Bettazzi, A tutti gli effetti, a cura di Alessandro Sarri, Villa Romana Firenze. Foto OKNO STUDIO


SC - Perché tieni tanto all’idea di serie? E In che misura possiamo considerare la serialità come componente essenziale del tuo lavoro?

CB - La serialità è una componente che fa parte da sempre del mio modo di lavorare. Questa non riguarda solamente lo scatto fotografico ma anche il materiale oggettuale che uso nelle mie istallazioni. Nei miei lavori da sempre gli oggetti si riattualizzano e ritornano in forme sempre diverse e sempre mutanti in ogni nuova operazione. Io ovviamente faccio sopralluoghi nello spazio che accoglierà una nuova mostra ma non ipotizzo mai in anticipo una disposizione. Nel mio agire non c’è spazio per il progetto. Tutto nasce sul posto. Dall’istallazione Wonder objects del 2014 presso lo spazio di Moo a Prato, fino all’istallazione fatta per la mostra Il mondo in fine alla Galleria Nazionale nel 2018 e successivamente a Cabinet al Castello di Ama nel 2019, ma anche all’istallazione presso il Museo di Santa Maria della Scala, si può vedere la trasformazione continua delle cose che utilizzo, e che si ricombinano sempre diversamente, portando con se una traccia passata. Così è stato anche per l’istallazione a Villa Romana. Spesso gli equilibri provvisori e precari a cui sono sottoposti gli oggetti, di volta in volta assemblati in architetture effimere, provoca delle cadute, accade dunque che alcuni oggetti si infrangano, vadano in pezzi… qualcosa di simile può avvenire anche durante il trasporto dallo studio allo spazio espositivo. Ogni mia installazione implica infatti un parziale trasloco e un parziale svuotamento del mio studio. Non si tratta però, come succede comunemente per una mostra di un trasporto di opere concluse, ma nel mio caso di materiali da reinventare. Continuamente, ad ogni nuova mostra, l’opera torna a trasformarsi in materiale. Continuamente i traslochi e gli spostamenti delle materie provocano un nuovo studio dello spazio che stimola un nuovo modo di mettere insieme le cose che uso. Come se ridisegnassi costantemente lo spazio vuoto attraverso gli oggetti.

Chiara BettazziChiara Bettazzi, A tutti gli effetti, a cura di Alessandro Sarri, Villa Romana Firenze. Foto OKNO STUDIO


SC - Forse allora è proprio da questa attitudine che è sorta la necessità della foto

CB - In questo caso devo contraddirti io distinguo esplicitamente una foto documentaria da un’opera fotografica: le opere fotografiche proposte alla BBs o a Villa Romana non sono affatto dettagli di un’istallazione, anche se qualcuno potrebbe forse pensarlo. Queste esistono unicamente come uno scatto pensato e di grande formato (con grande non intendo un formato sovradimensionato ma semplicemente il formato 1:1, il formato in cui gli oggetti ripresi mantengono le loro proporzioni reali). Si tratta di scatti che realizzo allestendo oggetti organici e inorganici su un tavolo di posa che si trova sempre nel lato destro del mio studio, dove la luce batte in maniera diversa a seconda delle ore del giorno restituendomi una visione scultorea delle mie composizioni. Composizioni che si dimostrano modulazioni progressive delle stesse materie che ritornano costantemente in forma diversa pur essendo sempre costituite dagli stessi elementi. In questo caso non si tratta di uno studio per un’installazione ma di una ricombinazione continua. Gli scatti sono pensati come tali: allestisco, guardo e decido di fermarmi e scattare solo quando la composizione mi pare raggiunga autonomamente il suo necessario equilibrio. La fotografia mi ha fatto entrare ancor più in contatto con il concetto proustiano di ‘memoria ‘involontaria’ che ritorna spesso nel mio lavoro: attraverso lo scatto fotografico riesco a mettere a fuoco alcuni ricordi che riemergono improvvisamente e che fino a quel momento si trovano in forma di pura sensazione e che attraverso la fotografia riesco a recuperare e a rintracciare tramite una sorta di mappature della memoria.

Chiara BettazziChiara Bettazzi, work in progress, A tutti gli effetti, 2021, Villa Romana Firenze Foto Chiara Bettazzi


SC - La mostra a Villa Romana dal titolo A tutti gli effetti è curata da Alessandro Sarri e si presenta come una mostra tematica-curatoriale che ruota attorno al complesso ‘concetto’ di pareidolia. Un tema che in un certo senso, almeno sulla carta, sembrerebbe più facilmente declinabile tramite una mostra collettiva…

CB - Questo è un discoro che dovresti affrontare direttamente con Alessandro… Si tratta infatti di una mostra a cui sono stata invitata… ed a cui ho aderito immediatamente con entusiasmo, perché stimo il lavoro di Alessandro, non mi sono preoccupata molto del tema, che comunque mi pareva attraversasse la mia ricerca da varie prospettive. Ho dunque reagito con una proposta, un’ipotesi di mostra su cui poi evidentemente abbiamo lavorato anche assieme, mi pare con esiti particolarmente soddisfacenti per entrambi. Il fatto che si trattasse di una personale invece che di una collettiva mi ha stimolato a declinare varie dimensioni della mia ricerca, aprendola per così dire a ‘ventaglio’, senza alcuna forzatura, trattandosi appunto di una ricerca plurale e sottoposta a continui ritorni e continue variazioni interne.

Chiara BettazziChiara Bettazzi, work in progress, A tutti gli effetti, 2021, Villa Romana Firenze. Foto Tommaso Ciaranfi


SC - La mia domanda non era affatto tendenziosa -come sai- nel corso del tempo, ho lavorato ripetutamente, con Alessandro e del resto basterebbe questo passaggio del catalogo a rendere giustizia della sua scelta per giustificare l’opzione della ‘personale’: “Se dunque la forma, come afferma Bergson, ‘non è altro che un’istantanea presa su una transizione’, la foto, l’installazione, il video, in Bettazzi, configurano, mediante isomorfismi estroflessi e introflessi, non tanto un ma il processo unico, sempre a monte di se stesso […] , di un evento singolarmente anonimo, […] che mostra mentre si mostra, che si modifica fino a pervenire ad un certo stato per poi recuperarsi a cominciare da lì, ritornando sempre di nuovo, a tutti gli effetti, a sé a partire da quell’esteriorità intestina innominabile e indimostrabile. Ciò che in questo lavorio inesausto si fa conatus di materia pareidolica non è dunque tanto l’oggetto (ritrovato in quanto perduto in un rinvio infinitamente malinconico) della forma; la pareidolia tocca e non è toccata dai limiti della forma, attraversandoli tutti rimanendone, in pari tempo, inscrutabile e inverificabile” Immagino, appunto conoscendolo, che in più di un’occasione -durante il montaggio o la fase preparatoria- abbia precisato, “non si fa la pareidolia con la pareidolia” o qualcosa di simile… ma è evidente, a cose fatte, che cooptare più di un’artista intorno a questo ‘tema’ -proprio perché trattato in maniera concettuale e non come un semplice ‘giochino’ di società- avrebbe creato una minor unitarietà nell’approccio critico e nella restituzione espositiva…

CB - Con Alessandro c’è stata una frequentazione assidua del mio studio che ha portato ad un lavoro in progress e a continue interrogazioni sulla ricerca che stavo facendo. Un’ esperienza che mi ha permesso di riflettere continuamente sulla mia pratica. Inoltre, Angelika Stepken, la direttrice e tutto lo staff di Villa Romana, hanno accolto con entusiasmo il lavoro e questo ha rafforzato molto la mia libertà d’espressione per tutto il periodo che sono stata li. Questa mostra ha permesso l’apertura a nuove intuizioni. Un’ esperienza unica di crescita in cui l’allestimento della mostra stessa ha portato a nuovi processi lavorativi da rigiocare in forme nuove. Dai primi giorni in cui sono arrivata alla Villa l’intuizione è stata appunto quella di documentare e registrare tutte le fasi del lavoro attraverso due punti di vista continui dati da una macchina fotografica che ripetutamente scattava e da una videocamera che riprendeva simultaneamente tutto ciò che accadeva, questo è stato un lavoro realizzato in collaborazione con Tommaso Ciaranfi che mi ha seguita in tutte le fasi del processo e con il quale è nato immediatamente, un lavoro per così dire automatico; alle immagini visive si sono aggiunte le registrazioni audio di suoni naturali, e di suoni artificiali che abbiamo prelevato mentre lavoravamo. Questo materiale è stato condiviso con un musicista Plastique01 ( Giulio Da Rin ) che successivamente li ha rielaborati, realizzando una performance all’interno dell’istallazione stessa durante il finissage della mostra. Adesso l’obiettivo è appunto costruire un nuovo lavoro partendo da qui.

Chiara BettazziChiara Bettazzi, A tutti gli effetti, 2021, Villa Romana Firenze. Perfomance di Plastique per il finissage della mostra. Foto di Tommaso Ciaranfi


ICNOLOGIA DEL DEFORME
di Luca Sposato

«The force that through the green fuse drives the flower
Drives my green age; that blasts the roots of trees
Is my destroyer.»
Dylan Thomas

Cogliere la maturità di un artista è evento eccezionale, pari alla mela caduca e urtante una testa pensante. La forza reale degli eventi naturali converte il suo carattere epistemologico in un “urto” rizomatico segnante una spaccatura lirica, insanabile e inconvertibile. Chiara Bettazzi replica questa “forza” in una rappresentazione rodata da elementi fisici che consolidano il dialogo con il pubblico (quindi l’affezione) e adeguata da elementi metempirici che affiorano fenomenologicamente allo stato attuativo dell’opera. Tra questi ultimi si osservano il Tempo, l’Impronta e il De-Forme: nella fluidità delle forme [1] avviene una sorta di Costruttivismo Patetico in quanto il valore gnoseologico del rappresentato si innesca unicamente nell’ostentazione eventistica, pur trascendendo da un IO individuale (cui effettivamente riveste il ruolo di primo fruitore, benché spesso inconsapevole) [2].
Sul piano empirico, il percorso della Bettazzi parte fondamentalmente da un’esasperazione anatomica traslata verso apparati spaziali “scelti” o “apparenti”; le cornici fatiscenti delle archeologie industriali, così come il circondarsi di trouvaille ad orologeria [3], variano la loro qualità semantica (nonché funzionale, in quanto non-finiti) sul principio di induzione svolto non già dalla ratio artificis, ma dal motus artificis. Sincreticamente, la triplice relazione Corpo-spazio-evento è ben posta nella recente mostra A tutti gli effetti, curata da Alessandro Sarri presso i locali di Villa Romana in Firenze, relazione mai indefessa nella ricerca della Bettazzi e qui assunta a parabola ontologica pedissequamente ribadita (persino vichiana) e annichilita attraverso il video per scovare nelle “forature” di questo corpo crivellato il limite del significante.

Chiara BettazziChiara Bettazzi, A tutti gli effetti, a cura di Alessandro Sarri, Villa Romana Firenze. Foto OKNO STUDIO


CONTROCAMPO ALLARGATO: ALLA RICERCA DEL TEMPO COSCIENTE [PROUST, IL CINEMA & DELEUZE]

Focalizzando il primo degli aspetti sovrasensibili suddetti nel lavoro della Bettazzi, per un’analisi metodologica e accrescitiva del di lei percorso, si nota come il Tempo assurge un doppio ruolo soggettivo-oggettivo poiché legante tra il trascorso dell’artista e la proprietà degli oggetti salienti alla composizione dell’opera. La memoria dell’autrice, tuttavia, non è causa dominante nella ricognizione e selezione delle parti fisiche dell’installazione: la memoria, come corpo liquido, si adatta al contenitore temporale della ricerca, fino a definirsi in una sorta di immagine-tempo [4]. Senz’altro questa oscillazione tra corpo-individuale e corpo-esterno (l’alterità) ha una natura organica che si fonde sulle relazioni di “istanti qualsiasi” e “istanti privilegiati”, creando, nel movimento o meglio nel montaggio, un’illusione scultorea efficace perché expanded [5] sia nello spazio reale sia nello spazio fittizio del video.
Tornando alla personale di Villa Romana in Firenze, le proiezioni video si declinano in una co-incidenza di percorso artistico, alludendo al valore strumentale del medium così come all’accezione metaforica descrittiva della scarnificazione del concetto fino a giungere alla pura scrittura. Si osservi, in particolare, le proiezioni luminose “rivoltate” degli oggetti nella “camera oscura” della prima sala, per poi passare alla “giungla” documentaristica asserente il processo, fino a giungere, attraverso il déjà-vu dell’architettura filmata e allestita su un piccolo schermo sulla scalinata, alla proposta finale del video-diario, magnifica sintesi di un percorso non-finito, dichiaratamente plastico.
Dunque il Tempo diviene un moto fuoricampo, materia metafisica da levare allo scopo di far riaffiorare un’immagine netta ma potenzialmente cangiante: l’archetipo della spirale coglie opportunamente sia la narrazione della mostra (istante privilegiato) sia la ricerca della Bettazzi (istante qualsiasi), il cui contrasto crea una differenza analogica [6].

Chiara BettazziChiara Bettazzi, A tutti gli effetti, a cura di Alessandro Sarri, Villa Romana Firenze. Foto OKNO STUDIO


LA DONNA CHE CAMMINA SUI PEZZI DI VETRO: ALLA RICERCA DELL’IMPRONTA TRASPARENTE [DUCHAMP, L’INCISIONE & DIDI-HUBERMAN]

La coscienza temporale del proprio operato ha certamente raffinato la ricerca della Bettazzi. Dai primissimi espedienti fotografici si confuta lucidamente il ruolo ambivalente di documento-opera, cognizione fautrice degli esperimenti di Doppelgänger successivi; da questa base metodologica di reperimento-archiviazione-riproduzione (espletante il processo di rappresentazione) dell’oggetto, si giunge alla sublimazione del lavoro in imago vestigi. La questione dialettica, invero delicata, sulla distinzione fra traccia e impronta, lungi dall’essere ivi affrontata, è nondimeno materia pertinente dell’indagine della Bettazzi: nel caso specifico si può parlare di impronta dinamica, poiché la permanenza del segno avviene nella trasmigrazione contestuale e mediale dell’opera. Questo “ectoplasma” linguistico ha ragione euristica nella calcografia.
L’incisione artistica, medium tra i più complessi e affascinanti, coniuga le accezioni fisiche e qualitative dell’impronta in una gamma di possibilità tutt’oggi inesplorate, eppure accolte nel XX secolo da personalità di indubbio spessore, tra le quali spicca Marcel Duchamp; riflettendo, in proposito, sul ready-made, è luogo comune considerare l’operato dell’artista francese in qualità di oggetti statici, “scultorei”, mentre è giusto ribadire il loro valore dinamico [7]. Con le opportune proporzioni, lo stesso va considerato nel lavoro della Bettazzi, precisando quanto il costante creare e distruggere dell’artista attui un’evoluzione, anzi rivoluzione, costruttivista incessante e valevole proprio nella sua reiterata rappresentazione, un’allitterazione semantica.

Chiara BettazziChiara Bettazzi, A tutti gli effetti, a cura di Alessandro Sarri, Villa Romana Firenze. Foto OKNO STUDIO


L’OCCHIO ESORBITO: ALLA RICERCA DELLA FORMA PERDENTE [BATAILLE, LA SCULTURA & DERRIDA]

Attingendo, in ultima istanza, ancora dalla mostra A tutti gli effetti, si evince, per quanto sottile, un elemento di novità rispetto ai precedenti della Bettazzi, particolare o “punctum” insito proprio sugli apparati fotografici. A differenza del passato, gli Still Life esposti a metà percorso manifestano la presenza eloquente del braccio dell’artista “posato” nell’ambiguità di funzione demolente/plasmante. La sintesi portata da questo esempio si rivolge a tutta la parafrasi testé affrontata sull’arte di Chiara Bettazzi, cui la considerazione sul Tempo ha portato al compimento di un’immagine dinamica, quindi a produrre una de-formazione. La questione concerne la forma è fondamentale: per quanto sia veritiero il processo in divenire delle installazioni e opere proposte dall’artista, virtù notata da diverse voci critiche [8], la condicio sine qua non del lavoro della Bettazzi è il togliere sostanza per dare corpo all’effetto, un de-formare la percezione individuale per costruire l’evento. L’atteggiamento scultoreo dell’artista, dunque, non si riversa tanto sulla natura fisica dell’oggetto (pur accogliendo volentieri fattori accidentali) quanto sulla sua de-contestualizzazione analogica, sul passaggio studio/spazio espositivo indispensabile a rendere l’oggetto un’immagine significante, un corpo vivo e pulsante nonostante il “rigetto” dal suo organismo di appartenenza [9]. Ritorna, quindi, esplicita l’esasperazione anatomica citata inizialmente; il gesto reiterato di “strappare” organi senza offenderli, sublima proprio nell’apparato oculare la considerazione più intrigante, perché «richiama l’irriducibile oscillazione del significante presente nel concetto di alterazione» [10].
Il coinvolgimento del pubblico fruitore, come detto necessario per adempiere l’evento, non è, dunque, emotivo o eucaristico (basti notare come gli oggetti non vengano mai affrontati come feticci) bensì oftalmico, ovvero legato in maniera carnale (fruizione-logos-memoria) alla percezione condivisa. Da ciò si esaurisce la questione formale in un ob-sceno (metonimia del de-forme) contingente, proprio di quel costruttivismo patetico succitato, finalizzante nel sintagma della scrittura: l’ultima opera visibile in mostra, il Diario filmato, racchiude tutti gli elementi sinergici dell’arte di Chiara Bettazzi, diluendoli in un significato altro e medesimo, oltre (ed in-oltre) a posizionarsi specularmente alla “forza” con cui inizia questa disamina, a dimostrazione della piena coscienza dell’artista di quanto la metafisica sia un evento (Heidegger).
Concludendo in citazione: «La scrittura è l’esito come discesa fuori di sé in sé del senso: … metafora come metafisica dove l’essere deve nascondersi se si vuole che l’altro si manifesti. … Momento della profondità anche come caduta. Istanza ed insistenza del grave» [11].
Luca Sposato

Chiara Bettazzi , Diary 2012/2020 video color sound. Durata 13’ 33’’


Note
[1] Il riferimento, assolutamente voluto, è verso il saggio del 1946, scritto dal cineasta Sergej M. Ėjzenštejn, Piranesi o la fluidità delle forme. Chi scrive ha già avuto occasione di citare il medesimo testo in riguardo dell’artista Emanuele Becheri, i cui scambi e confronti professionali con Chiara Bettazzi sono stati frequenti e prolifici negli anni; in generale, il linguaggio cinematografico è spesso fonte ontologica ed estetica di molte sensibilità artistiche, ma notevole è la sintesi offerta dal regista russo sul segno tracciato, lo spazio e il movimento, elevando il montaggio a linguaggio sincretico. Cfr. M. TAFURI, «Storicità dell’avanguardia: Piranesi e Ejzenstejn», in La sfera e il labirinto, Einaudi Editore, Torino 1980, pp. 77-110.
[2] Pur intravedendo già nell’archiviazione una sorta di “prima” esposizione, questa, comunque, avviene principalmente per fruizione esterna, quando i visitatori accedono allo studio, poiché non esiste un godimento diretto della Bettazzi all’accumulo di oggetti, se non nel momento della condivisione intellegibile, in una sorta di Fort/da freudiano. Esiste una recente e crescente bibliografia sullo scopo e definizione dell’Archivio nell’arte attuale, purtroppo, per ragioni logistiche, non tirata in causa sugli argomenti ivi trattati. Basti citare C. BALDACCI, Archivi impossibili. Un’ossessione dell’arte contemporanea, Johan&Levi editore, Monza, 2016.
[3] Il termine trouvaille, desunto dal catalogo della mostra Arrêts sur images (2014) a cura di Saretto Cincinelli presso Casa Masaccio in San Giovanni Valdarno, cui partecipò la stessa Bettazzi, ha matrice ottocentesca per indicare una casualità ricercata. Nel contesto, si vuole rafforzare con “orologeria” per criptarne un meccanismo, un innesco di significato. Cfr. M. GRELLA, «Focus sugli artisti. Chiara Bettazzi», in Arrêts sur images, catalogo della mostra presso Casa Masaccio in San Giovanni Valdarno, Arezzo, 2014, pg. 53.
[4] Si evince la presenza copiosa di Gilles Deleuze nelle letture della Bettazzi. Fondamentali per l’argomento, cfr. G. DELEUZE, L’immagine-movimento. Cinema 1, trad. Jean-Paul Manganaro, Einaudi Editore, Torino, 2016 e chiaramente cfr. G. DELEUZE, L’immagine-tempo. Cinema 2, trad. Liliana Rampello, Einaudi Editore, Torino, 2017.
[5] La ben nota definizione di “campo allargato” (expanded field) è felice coniatura di Rosalind Krauss per delineare la Scultura contemporanea circoscritta nella doppia negazione di non-architettura e non-paesaggio. Le questioni temporali e spaziali, così come l’idiosincrasia formale ed esperienziale, sono risolte impeccabilmente nel concetto di simultaneità: «la fenomenologia e la linguistica strutturale, che fanno entrambe dipendere la significazione dal fatto che una forma contiene l’esperienza latente del suo opposto: la simultaneità contiene sempre un’esperienza implicita della successione.» Cfr. R. KRAUSS, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art, trad. Elio Grazioli, Bruno Mondadori, Milano, 1998, pg. 12.
[6] «Ciò non significa, come comunemente si interpreta, che la storia si ripeta. Significa, piuttosto, che l'uomo è sempre uguale a sé stesso, pur nel cambiamento delle situazioni e dei comportamenti storici. Ciò che si presenta di nuovo nella storia è solo paragonabile per analogia a ciò che si è già manifestato.» Diego Fusaro a proposito di Giovanbattista Vico, www.filosofico.net. Discostandosi da intenti assolutisti, resta interessante un’ermeneutica vichiana per una miglior lettura della contemporaneità, anche riprendendo Benedetto Croce: Vico è, per Croce, il primo filosofo ad aver pensato l’autonomia dell’arte (la poiesis) e il primo nell’averla pensata come il luogo del cominciamento della storia e della conoscenza storica.
[7] Puntuali le parole della Krauss su Duchamp: «Facendo ritorno su sé stesso, il narrativo è messo in causa: la strategia di un’impresa autocritica si sostituisce alla produzione di uno scioglimento. La forma circolare che Duchamp conferì all’esperienza dell’arte assume il suo aspetto più letterale in una serie di giochi e inversioni di parole: montate su veri e propri dischi ruotanti, le frasi omofone sembrano non giungere mai a chiudersi. Vi si vede la trasmutazione infinitamente elisa del suono. Nell’esempio: «L’aspirant habite Javel et moi j’avais l’habite en spirale», l’espressione «en spirale» è una trasposizione sillabica di «l’aspirant»; essa dà la sensazione che la fine della frase si confonda con il suo inizio.» Cfr. R. KRAUSS, Op. cit., pg. 87.
[8] Saretto Cincinelli enuncia una “messa in forma” puntualizzando sulla base fotografica del lavoro della Bettazzi, mentre Mariagrazia Grella nota proprio la poiesis accennando, però, alla sottrazione dall’unità formale. Alessandro Sarri parla di “formateria incoativa”, né propriamente forma, né propriamente informe.
[9] Il Sarri appunta, sul lavoro della Bettazzi, di un processo «più oncologico che ontologico».
[10] Parole di Andrea D’Ammando in riflessione sul magnifico saggio-omaggio di Roland Barthes su Histoire de l'œil di Georges Bataille. Barthes coglie la simultaneità della metafora dell’occhio e di quanto il significante sia dinamico. Cfr. A. D’AMMANDO, M. SPADONI, Letture dell'informe: Rosalind Krauss e Georges Didi-Huberman, Roma, Lithos, 2014 e R. BARTHES, «La metafora dell’occhio», in G. Bataille, Storia dell’occhio (1928), Milano, SE Editore, 2008, pp. 155-164.
[11] J. DERRIDA, «Forza e significazione», in La scrittura e la differenza, trad. Gianni Pozzi, Einaudi, Torino, 2002, pp. 37-38.

 

Chiara Bettazzi
Still life, a cura di Davide Sarchioni, BBS-pro, Prato
A tutti gli effetti, a cura di Alessandro Sarri, Villa Romana Firenze
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