Open Menu
Firenze Museo Novecento
Francesco Carone
Ciclope

 
Francesco CaroneCiclope, 2018 verde Guatemala, ottone lucidato, ferro courtesy l'artista (ph. Serge Domingie)



*Francesco Carone - Ciclope
in dialogo con Rubina Romanelli

RR - Il tuo modo di “fare arte” mi pare, per così dire, una “scrittura artistica”. La mostra al Museo Novecento, che si sviluppa su due piani del museo, sembra tenuta insieme da fili invisibili che ricongiungono il sopra col sotto, in un gioco di rimandi infiniti. Le tue opere si allacciano l’una all’altra, con punti di sospensione, virgole e punti interrogativi. Esse si collocano all’interno di un intreccio narrativo che si sviluppa attorno a delle tematiche centrali. Tu stesso sei un grande lettore e bibliofilo, puoi dirmi quali testi incrociano la tua produzione artistica e quali hanno un’influenza nel tuo percorso, con particolare riferimento a questa mostra?

FC - Molti sono i titoli da cui ho attinto per questa mostra, come mio solito. Alcuni semplici da intuire, altri meno. Molti altri, forse i più, oscuri a me per primo.
Ho avuto più volte modo di scrivere a proposito della mia idea per cui leggere sia solo uno dei modi possibili di comprensione di un libro. Sono convinto che esista anche una parte più animale, istintiva e primordiale di assimilazione; non tanto, dei contenuti specifici sintattici e grammaticali, ma certamente dello spirito profondo di cui è pervaso quel volume. L’olfatto, il tatto, ma anche l’impersonarsi con l’immagine che ci siamo fatti dei personaggi al di fuori delle pagine; sforzarsi di pensare come loro, fino al punto di ritrovarsi a pensare involontariamente come loro senza sforzo. Ritrovarsi, facendo altro, a ripetere dentro se stessi il titolo di un libro; farlo migliaia di volte, come un’ossessione o un mantra. Leggere una pagina aperta a caso, anche solo una frase o una parola ignorando tutto il resto. Tenere quel libro per anni chiuso accanto al letto, respirandolo senza mai leggere neppure quell’unica parola... Sono tutti espedienti di comprensione altra, non meno illuminanti della canonica lettura di tutte le pagine nella loro consequenzialità. Questa metodologia, che per molti indubbiamente risulterà obiettabile (il fatto di non riuscire in qualcosa, non significa che non possa esser vero), aumenta moltissimo la potenzialità della letteratura e dei libri, tanto da risultarmi spesso difficile ricondurre le mie fonti ad un solo titolo perché difficile mi è ricordare quanti libri abbia respirato.

RR - Cosa vuoi raccontare attraverso l’installazione al primo piano del ciclope che, come folgorato, è trafitto da un tubo di ottone scintillante che partendo dal suo occhio penetra una parete, per offrirci una visione finale, forse epifanica e letteralmente metafisica? Si può dire che c’è una sorta di personificazione o similitudine tra l’artista e l’eroe omerico, Ulisse?

FC - La figura di Ulisse è una delle più facili da amare per chiunque conosca il senso delle passioni, ed in questo non faccio la differenza. L’artista, come lui (o meglio, come Omero), trasforma in universali le pulsioni, le curiosità ed i difetti personali. Ma pensandoci, nell’opera in mostra, mi interesso e rivaluto la figura di Polifemo più che quella di Ulisse. Privando il ciclope del suo unico occhio, gli ho voluto donare una visione che, seppur ristretta, riesca a travalicare gli ostacoli fisici, mettendo in relazione fatti avvenuti in tempi e luoghi diversi.
Analogamente alla risposta precedente nei confronti dei libri, anche in questo caso credo che la vista non sia solamente legata alle abilità oculari ed alle diottrie ma a qualcosa di più profondo; è una capacità di cogliere, un’attitudine di pochi.
Mi interessano la visionarietà e l’istinto più delle doti fisiche.

Francesco Caroneveduta d'insieme (ph. Serge Domingie): Profeta#1, 2008 legno laccato, acciaio courtesy galleria SpazioA, Pistoia
Ciclope (particolare), 2018 verde Guatemala, ottone lucidato, ferro courtesy l'artista



RR - Il tema del naufragio, già affrontato in opere come Horror Vacui esposto a EX3 di Firenze nel 2010, in qualche modo emerge anche nella installazione al primo piano del museo. Il naufragio ti interessa come possibilità di scoperta dell’ignoto, di territori inesplorati? Non è forse anche questo il lavoro dell’artista, ossia di guidarci in una visione e in una direzione per offrirci uno sguardo diverso sulla realtà e oltre la realtà?

FC - Più dei naufragi, amo le tempeste. Sarà che mi trovo a condurre una vita per me sempre troppo tranquilla e forse le vivo come una forma di riscatto, un’alternativa eroica che mi eccita, affilando gli istinti e acuendo le reazioni; forse solo perché rappresentano bene le molte contraddizioni che mi muovono - figlie di una fruttuosa insicurezza costante - e la conseguente abilità che mi contraddistingue nel trovare sempre il rovescio a qualsiasi tipo di medaglia {la quale, girata una seconda volta avrà ancora un diverso rovescio [il rovescio del rovescio (perdendo così per sempre il recto)] e ancora uno per quante volte decida di girarla}.
La tempesta è un evento naturale, sublime nel suo furioso spettacolo. Il naufragio è invece la probabile condizione umana in seguito ad una tempesta e questo non ha nulla di spettacolare; non produce rivoluzioni estetiche e non ha senso stare a contemplarlo senza tuffarsi ad aiutare i dispersi. L’unica cosa che mi interessa riguardo al naufragio è la perdita dei punti cospicui.

Francesco CaroneTempesta, 2013/... Eugenia Vanni, Luca Bertolo, Paolo Parisi, Luca Pancrazzi, Marco Neri, Maria Morganti, Alessandro Sarra,
Riccardo Guarneri su tela courtesy Collezione AGI, Verona (ph. Serge Domingie)



RR - La tela Tempesta, che fa sempre parte dell’installazione al primo piano, è un lavoro “a più mani”, un’opera aperta, che hai delegato a colleghi pittori di interpretare in una successione di strati potenzialmente infinita. Ogni stesura è come l’onda che sovrascrive quella precedente, in un eterno vitalismo, che annulla per poi ricostruire, in una ripetizione eterna ma sempre diversa. Penso anche a opere come il capitello antico usato nell’opera Erma Ermafrodita del 2016, da te riscolpito e trasformato in una tua scultura, in una sovrascrittura dove la mano precedente è cancellata, assorbita. Ritieni che, potenzialmente, anche una tua opera in un futuro lontano potrebbe essere appropriata e trasformata in altro? È l’arte per te un processo aperto e circolare, una sorta di eterno ritorno? Quanto è importante il tema del tempo?

FC - Il tempo col suo scorrere mi affligge, col suo esser passato mi da malinconia e quello che deve ancora essere, mi mette ansia. Invece i processi circolari eterni o potenzialmente infiniti mi intrigano e vi leggo banalmente lo schema del fare artistico (ma non solo). L’operazione che più di una volta ho messo in atto, riscolpendo opere antiche, mi ha fatto prender coscienza che ciò che le rende tali - cioè antiche -è solamente una sottilissima patina, una pellicola di tempo disposta sulla loro superficie esterna, fatta di segni e di sovrascritture atmosferiche, meccaniche, casuali ed umane. L’interno di quell’antica forma, una volta tagliata, è nuova, o perlomeno risulta tale, uguale ad ogni altro pezzo di marmo trovato in una cava o in una marmifera. In realtà è più antico della possibilità umana di concepire forme - quindi dell’arte stessa -in quanto prima di tutto era parte di una montagna, formatasi in ere geologiche lontanissime. La mia pratica, che a molti potrà risultare selvaggia, in realtà è sempre stata adottata: sono stati smontati templi per realizzare chiese e scolpiti via i lineamenti di faraoni perché assomigliassero ai successori.
Mi piace credere che questi altri passati che la materia ha vissuto sotto forme diverse, alla fine possano trasudare dall’ultimo nuovo aspetto. Anche le mie opere non sono altro che un passaggio intermedio (se non altro in direzione di un qualche tipo di oblio). Sarei felice se qualcuno le distruggesse, spogliandole e trovandovi dentro altro, consapevole che almeno in piccola parte, questo ‘altro’ potrebbe esser potenziato anche dalla forma che per un breve periodo avevo deciso di affidare a quel frammento di montagna.

Francesco CaroneLes Lesbiennes, 2016 ferro zincato courtesy galleria SpazioA, Pistoia (ph. Serge Domingie)


RR - Nel secondo piano le opere Afrodite Anadiomene, La femme à la vague e La nascita di Venere citano ognuna importanti opere del passato. Menadi cita la figura mitologica delle baccanti. Che legame hai con l’arte del passato essendo questa così presente nelle tue opere?

FC - Troppo spesso l’arte contemporanea appare velocemente ‘polverosa’.
Quella antica ha invece dalla sua quella ‘patina’ di cui parlavo poc’anzi, che non la rende vecchia, ma eterna.
Ad esser sinceri però non trovo serenità nell’osservarla, come diceva Winckelmann; bensì una strana forma di sgomento e di ammirazione insieme e mentre lo sgomento tira da una parte, l’ammirazione, seppur furiosa, mi trattiene dall’altra. E lo stesso vale se, al contrario, a tirare fosse l’ammirazione e a reggere lo sgomento: una sorta di impasse (visione negativa/recto della medaglia) o di equilibrio (visione positiva/rovescio della medaglia) o di stasi (ex recto, nuovo rovescio della medaglia), poi reazione (terzo rovescio della medaglia), quindi all’azione come riscatto (quarto rovescio) e così via...

RR - In generale nel tuo lavoro mi pare trovare, tra i tanti rimandi, una sublimazione della natura da un lato e il riferimento ad elementi religiosi, pittorici e architettonici dall’altro, in una chiave, oserei dire, più terrena, concreta. I temi non sono banalmente quelli di sacro e profano, piuttosto l’incontro crea un dialogo tra terra e cielo, vita e arte, passato e presente. Ci spieghi cosa vuoi offrire allo spettatore attraverso questo processo associativo?

FC - Col passare degli anni mi rendo conto che, senza voler mancare di rispetto a nessuno e senza voler fare inutili provocazioni, col mio lavoro, in realtà, non voglio offrire proprio nulla agli altri; perlomeno non è lo spiegare, regalare, offrire, insegnare qualcosa a qualcuno che mi muove.
Ciò non significa però che questo non possa avvenire ugualmente al di là della mia volontà. Non credo di avere grandi pensieri che valga la pena offrire (e diffido abbastanza degli artisti che credono di averne). Credo in un’arte fruibile quasi solo empaticamente. Immagino opere come idoli alieni da subire a cui ci si possa accostare in modo fluido. Non sopporto quegli oggetti (neanche più li considero opere) dove ogni particolare, ogni scelta dell’artista è legata ad una spiegazione logica che, per quanto affascinante, può servire solo a compiacere l’intelligenza saccente dell’osservatore, rendendolo felice nel sentirsi capace di comprendere ciò che per molti altri suoi colleghi o amici potrebbe risultare ostico.
Mi è capitato più di una volta, in occasione di mostre in cui fosse esposta una mia opera, di interagire con le persone interessate ad approfondire il significato di quello che stavano guardando, offrendo sistematicamente delle differenti spiegazioni. Una sorta di esercizio di stile per mettere alla prova la mia capacità narrativa. Ricordi di infanzia, citazioni di libri, amori, ricordi, congetture, sesso, sogni, storia dell’Arte... ogni racconto attingeva a mondi differenti e partiva da eventi distanti, pur sembrando tutti coerenti. Uno per uno, credo di aver soddisfatto tutti gli astanti, convincendoli. Ma la cosa curiosa è che dopo poco mi sono reso conto di non aver romanzato decine di bugie ben architettate, bensì di aver semplicemente raccontato altrettante verità ancora non capite o accettate. Mi sono reso conto quanto io per primo non sappia, talvolta anche dopo averla esposta, cosa possa significare esattamente una mia opera. Forse è davvero un groviglio indistricabile di tante mie pulsioni, pensieri e passioni; difficile da raccontare in due parole e soprattutto impossibile da comprendere a fondo. L’opera d’arte è qualcosa di molto più oscuro...
Rileggendola mi rendo conto che in qualche modo, anche questa risposta che ho appena scritto, così come le precedenti, seppur negandola è a sua volta una spiegazione e sarei tentato di cancellarla per non rischiare di professare diversamente da come agisco. Se non sbaglio però, abbiamo già parlato delle mie contraddizioni...

Francesco Caroneveduta d'insieme della mostra Ciclope, Museo Novecento, Firenze (ph. Serge Domingie)


RR - I tuoi lavori correlano e giustappongono oggetti, sensazioni ed idee. Nella nascita delle tue opere quanto attua la tua parte conscia e quanto quella inconscia?

FC - Anni fa un amico mi disse di aver letto una singolare dichiarazione di Sigmund Freud che riteneva gli artisti le uniche persone per le quali la sua psicanalisi non avesse effetto (insieme agli irlandesi). Non mi sono mai documentato sulla veridicità dell’affermazione di Freud e neppure di quella del mio amico e preferisco chiudere qui la parentesi mai aperta, all’interno della quale sarei tentato di dilungarmi nell’esprimere la mia personale opinione nei riguardi delle teorie del neurologo austriaco. Comunque, vera o no, mi è sempre risultata familiare perché cosciente di quanto sia distante il significato che attribuisco ad una mia opera prima e durante la realizzazione, rispetto a ciò che mi appare invece evidente una volta che essa è terminata ed esposta.
Ognuno di noi ha un doppio cervello. Me lo figuro come una pesca fatta di polpa esterna e di nocciolo al centro. Il primo, quello più esterno, la polpa, utile a condurre le faccende quotidiane e a farci interagire con il mondo e con le altre persone. Credo che questo sia anche il cervello più logico, giusto di quella giustizia ipocrita in cui siamo convinti sia giusto star bene; forse l’unico che sappiamo di avere e per il quale siamo costantemente giudicati. Poi il secondo, il nocciolo, che dorme nascosto nel profondo; incomprensibile al primo e quindi anche a noi stessi. È un cervello primordiale, istintivo, a se stante, giustissimo solo con noi stessi. Forse lineare. Esso incide in modo arcano sulle nostre azioni. Credo che l’artista, quando ispirato, sappia attingere inconsciamente da questo cervello ermetico. Così facendo le sue creazioni gli possono apparire, una volta vomitate in forma o colore, come la perfetta rappresentazione di verità che conosceva senza saper di sapere.
Una sorta di auto analisi che giustificherebbe l’iniziale citazione del mio amico che citava Freud. Cosa ci incastrino gli irlandesi, rimane invece un mistero...

Francesco Caroneveduta d'insieme (ph. Serge Domingie):() La nascita di Venere, 2018 posidonia su carta courtesy galleria SpazioA, Pistoia
Menadi, 2016 foglie fustellate courtesy galleria SpazioA, Pistoia.



RR - Venendo io da una famiglia di scultori, essendo cresciuta tra centinaia di sculture, ho una estrema fascinazione verso questa disciplina. Mi chiedo per te cosa significhi lavorare e trasformare la materia, quanto sia importante la fase di produzione dell’opera e in che modo ti relazioni alla materia stessa.

FC - Più volte ho affermato che non è affatto sufficiente fare un quadro per essere un pittore, né modellare un pezzo di creta per essere uno scultore, fino ad arrivare a parlare dell’apparente anacronistica banalità sulle differenze tra un pittore ed uno scultore. Fra i due in realtà c’è davvero una enorme diversità nel modo di percepire le cose e quindi di restituirle. Io non sono un pittore e pur sapendo che con qualche escamotage potrei riuscire a orchestrare delle tele migliori di tanti pittori che mi vedo attorno, questo non è sufficiente a considerarmi tale; come non è sufficiente la tecnica o una buona scelta del soggetto. Per essere un pittore degno di questo appellativo, si deve riuscire a pensare come un pittore; ma dicendo si deve riuscire, la cosa suona voluta invece che spontanea ed autentica, quindi non istintiva, riportandoci al punto di partenza. Invece è corretto dire che un pittore pensa da pittore. Egli sa codificare (perché possiede) una propria ossessione segnica unica e irriproducibile.
È all’incirca lo stesso per uno scultore, ma un po’ più difficile da spiegare...
Da piccolo mi sono avvicinato all’arte grazie alla pittura, scoprendo poi ben presto quanto mi sentissi soddisfatto solo al momento in cui riuscivo a scappare da quel piano, attraverso la giustapposizione di materia. Talvolta, non sempre, mi trovo ad immaginare la materia di cui sarà costituita un’opera prima ancora del suo aspetto; come se per trovare una forma fisica a ciò che il cervello esterno è convinto di voler dire -sempre ignaro di essere guidato da quello interno-, il materiale di cui dovrà essere costituita questa forma, risulti imprescindibile. Immaginare un materiale significa scegliere un colore, un peso, la capacità o meno di esser levigato, il modo in cui dovrà esser affrontato, anche a livello fisico. Dopodiché riesco a pensare al resto. La Tempesta in mostra parla anche di questo. Chiedendo a molti pittori di stendere i propri segni e le proprie atmosfere sulla tela, sovrapponendoli uno sopra l’altro e impercettibilmente aumentando ogni volta lo spessore del supporto attraverso l’aggiunta delle proprie pennellate, ho cercato di spostare l’attenzione dalla superficie alla profondità, convinto che un’opera che abbia tre dimensioni altro non possa essere che una scultura.

RR - Rispetto alla tua partecipazione alle esposizioni a Siena al Palazzo delle Papesse, sempre sotto la direzione di Sergio Risaliti, che corso senti che ha preso il tuo lavoro? Cosa hai mantenuto e cosa hai maturato? Come il contesto delle due città (ieri Siena ed oggi Firenze) ha influenzato, se lo ha fatto, la produzione dei lavori in mostra?

FC - In questi anni ho abbandonato (e perso) molto desiderio di sensazionalismo. La bellezza ha acquistato un valore nuovo e maggiore. Il caso, così come l’errore, è diventato un possibile valore aggiunto e non qualcosa di così intollerabile com’era allora. Legavo l’arte a tanti valori, anche sociali, ma con gli anni ho perso un po’ di illusione e di idealismo liberandomi così dal bisogno di giustificare sempre tutto rendendolo logico e giusto. Questo mi ha permesso di aprirmi di più alla visionarietà, accogliendo gli aspetti contraddittori, minuziosamente insoluti e preziosamente metafisici, patrimonio antico (e perduto) della mia città e della sua tradizione caparbiamente gotica. Se non fosse per questo, mi chiedo ogni giorno che senso possa avere continuare a viverci...

*L'intervista "Francesco Carone in dialogo con Rubina Romanelli" è tratta dal foglio critico realizzato dal Museo Novecento in occasione della mostra di Francesco Carone, Ciclope a cura di Rubina Romanelli. Museo Novecento Firenze.


Francesco Carone veduta d'insieme della mostra Il Disinganno, galleria SpazioA, Pistoia (ph. Camilla Maria Santini)


Post Scriptum
Il Disinganno, 2018. SpazioA Pistoia

Artext - Puoi raccontarmi del tuo incontro con Rubina Romanelli, discendente di una famiglia che da ben sei generazioni porta avanti l’arte della scultura e la sua tradizione. Ha suscitato in te una qualche suggestione, un pensiero differente intorno le questioni e l'idea di originale e di copia fedele? Quale il tuo pensiero sulla scultura, nel contemporaneo...

Francesco Carone - Conobbi Rubina diversi anni fa.
Grazie alla tradizione di famiglia, le sue parole e le sue scelte tradiscono spesso una simpatia particolare per la scultura di un certo tipo, cosa che ci ha ovviamente avvicinato, rendendo semplice e piacevole il lavoro e la progettazione della mostra al Museo del 900.
In questi mesi ho avuto modo di raccontargli che la scultura o meglio ciò che io attualmente sento tale, è tratta direttamente dalla materia primigenia ed informe, dove con informe intendo grezza, cioè non già ordinata dal volere o dal pensiero umano ma solo dalla natura: pietra, legno, argilla... Non basta esser tridimensionale. Assemblaggi, istallazioni, oggetti trovati o modificati ne ho visti e ne ho fatti tanti (e sicuramente continuerò a farne e a vederne altrettanti) ma non riesco più a considerarli scultura.
Per trasmettere l'eterno trascendendo l'eterno, la scultura dev'essere forma attraverso l'informe.
Una volta compreso questo, anche il ragionamento formale si specializza.
Il suo peso dev'essere maggiore del peso specifico della materia con cui è realizzata così da non ridursi solo a concetto (o peggio ad una trovata). Non è un oggetto e non può tremare.
Con la sua presenza si sostituisce alla materia pura di cui è costituita, prendendone il posto senza mai ricordarne la mancanza.
Una scultura non basta che proietti ombre, le deve creare.

Francesco CaroneStrabismo, 2018 ottone lucidato e bronzo in bagno d'ottone courtesy galleria SpazioA, Pistoia (ph. Camilla Maria Santini)


A - Nella tua recente mostra allo SpazioA ritorni ad elaborare, negli sviluppi di una mitologia personale, molti dei tuoi temi ricorrenti. Sembra di assistere questa volta al realizzarsi di una drammaturgia, in relazioni intime tra le cose, e che trova nel modo in cui le presenti per il visitatore, come la sensazione di un tempo per mondi invisibili.
Puoi parlare di questa esposizione..

FC - Ho intitolato la mostra 'Il Disinganno', citando l'omonima scultura del 1753/54 di Francesco Queirolo posta all'interno della Cappella di Sansevero a Napoli, oltre che per introdurre un concetto scomodo e dai bordi sfrangiati.
Sono sempre più attratto da ogni cosa che si manifesta come trasformazione, come passaggio incerto. Quell'istante liminale e sospeso tra uno stato ed un altro in cui non riusciamo più ad identificare il soggetto come tale perchè non è già più ciò che era e non è ancora ciò che sarà.
Per farlo ho disseminato la galleria di indizi lungo linee di forza suggerite dallo spazio. Unendo in maniera apparentemente illogica il mito di Giano e quello di Narciso, sono arrivato ad indagare senza soluzione il concetto di doppio e di doppio sdoppiato, di strabismo, di eclisse, di ispirazione e di inutilità del rimpianto, del dare spiegazioni o trovarsi giustificazioni.
L'erotismo ed il mare sono invece i temi che anche stavolta non sono riuscito ad escludere..

Francesco CaroneNarciso bifronte#1 e Narciso bifronte#2, 2018 due mezze sculture entrambe in ceramica smaltata a terzo fuoco
courtesy galleria SpazioA, Pistoia (ph. Camilla Maria Santini)




 

Francesco Carone - Ciclope
a cura di Rubina Romanelli
Site : Museo Novecento Firenze 16.11.2018 - 28.02.2019
Francesco Carone - Il Disinganno, 2018. SpazioA Pistoia 15/12/2018 - 02/02/2019
@ 2019 Artext

Share