Entrare nella mostra di Beato Angelico a Palazzo Strozzi significa attraversare una soglia in cui il corpo del visitatore — frammentato dalla quotidianità, disperso nella velocità del presente — si trova improvvisamente immerso in un campo di forze inatteso.
Le Annunciazioni e le figure dei Santi ancora oggi sono dispositivi di intensità, luoghi in cui la devozione non è un contesto, ma una forma dell’apparire.
La mostra non si limita a esporre le opere, genera una condizione percettiva. Ci si ritrova avvolti da bagliore continuo, una luce auratica non solo pittorica ma fisiologica, capace di imprimere sul corpo prima ancora dello sguardo, un invito alla sospensione del tempo.
È qui che avviene la prima frattura: il corpo del visitatore, che arriva qui come corpo urbano, rapido, nervoso, si misura con l’altra temporalità inscritta nelle opere — una temporalità verticale, paziente, fatta di silenzi e di respiri. Le aure che circondano santi e angeli, così rigorose nella geometria quattrocentesca eppure infinitamente variabili nella vibrazione cromatica, sembrano illuminare non solo le figure dipinte, ma anche chi osserva.
L’effetto non è nostalgico né taumaturgico; è piuttosto un’esperienza di riunificazione: il corpo di chi guarda si sente chiamato a ricomporsi, a raccogliersi, a verificare la propria capacità di stare nel mondo senza frantumarsi. A misurarsi con quel grado di intensità che la vita riserva solo a poche circostanze. Angelico non propone salvezza, ma mette in scena uno spazio possibile di coesione percettiva, un luogo in cui il corpo contemporaneo può misurarsi — anche solo per un attimo — con una forma di intensità che somiglia a una illuminazione laica, fragile, intermittente.
Museo di San Marco
«Tu ci credi alla schiena al tuo collo alla tua testa?», ci chiede la voce. Una voce o piuttosto una vibrazione che proviene da una fiamma, da un’aureola che dice di un corpo.
Ma il testo è duplice, recitato e proiettato su ogni singola ambiente.
Quando la veste figurale cadrà e verrà chiamato sulla scena l'Angelico sarà lui a prestare il proprio corpo per quella voce: il corpo che si immagina la voce dei propri pensieri in un doppiaggio perfetto e straniante.
Può indurre a riconsiderarci comparse eccentriche, spensierate, gioiose sotto gli occhi meravigliati delle icone figurali - questi
sono i personaggi incarnati, che doppiano ogni "sopravvivenza" - intermittenze che offrono un’apertura improvvisa, quasi insperata, uno spiraglio nello spazio di un lampo, “spazi nomadi” in cui una forma di resistenza del pensiero diventa possibile. Bagliori malgré tout del tempo presente o flebili luminosità difficilmente distinguibili nella luce accecante del flusso continuo di immagini stereotipe, analfabete, della ‘società dello spettacolo’.
È in questo contesto che l’Annunciazione della cella 3 accade come evento inaspettato: non come semplice scena narrativa, ma come forma di mediazione sul mistero dell’Incarnazione. Una illuminazione sulla maniera in cui questo mistero ha dato forma e originalità al mondo delle immagini - al visuale - qualcosa che tentava di spingere lo sguardo al di là dell'occhio, il visibile al di là di se stesso. La pittura dell’Angelico sconcerta perché la sua evidenza è fatta di un eccesso di semplicità: pigmenti chiari, figure essenziali, macchie colorate che sembrano dissolvere l’apparenza in un pulviscolo luminoso. È qui che il visitatore contemporaneo ritrova una dimensione radicalmente diversa da quella del museo: la pittura non arretra nello spazio prospettico, avanza verso l’occhio, lo tocca, lo costringe a sospendere ogni categoria interpretativa. La cella funziona come un dispositivo contemplativo: non chiede allo spettatore di “capire” ma di lasciarsi investire da una forma di visibilità che è già meditazione, già pensiero della luce che ritorna alla sua origine, il colore, lasciato libero di vibrare, apre la via anagogica che conduce oltre il visibile. Nell’Angelico la pittura è generativa non perché rappresenta una storia, ma perché ne apre le diramazioni, la trasporta in uno spazio interiore dove il senso non è dato, ma nasce nel contatto tra sguardo e luce sensibile.
Dunque nulla è andato perduto, la pluralità delle proposte è stata preservata, anche se un altro viaggio si è imposto, in questo comunque folle accavallarsi di rinascite – sempre immemori -
La pittura, considerata come campo di esegesi e come arte della memoria, risulterà dunque essa stessa sovrannaturale, intendo dire indifferente a descrivere la realtà, indifferente a ritrarla.
Beato Angelico Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio
Beato Angelico
Annunciazione.
Cella 3 di San Marco
L'Annunciazione della cella 3 è uno degli affreschi di Beato Angelico che decorano il convento di San Marco a Firenze. Misura 187x157 cm e si tratta di una delle opere sicuramente autografe del maestro, risalente al 1438-1440.
L'Angelico si dedicò alla decorazione di San Marco su incarico di Cosimo de' Medici, tra il 1438 e il 1445, anno della sua partenza per Roma, per poi tornarvi negli anni 1450, quando completò alcuni affreschi e si dedicò alla statura di codici miniati per il convento stesso.
Molto si è scritto circa l'autografia dell'Angelico per un complesso di decorazioni di così ampia portata, realizzato in tempi relativamente brevi. Gli affreschi del piano terra vengono concordemente attribuiti all'Angelico, mentre più incerta e discussa è l'attribuzione dei quarantatré affreschi delle celle e dei tre dei corridoio del primo piano. Se i contemporanei come Giuliano Lapaccini attribuiscono tutti gli affreschi all'Angelico, oggi, per un mero calcolo pratico del tempo necessario a un individuo per portare a termine un'opera del genere e per studi stilistici che evidenziano tre o quattro mani diverse, si tende a attribuire all'Angelico l'intera sovrintendenza della decorazione ma l'autografia di solo un ristretto numero di affreschi, mentre i restanti si pensa che vennero dipinti su suo cartone o nel suo stile da allievi, tra cui Benozzo Gozzoli.
L'Annunciazione si trova nel corridoio Est, lato esterno, nella fila di celle da cui si ritiene che sia iniziata la decorazione, e fa parte di quel ristretto numero di opere di attribuzione diretta al maestro assolutamente indiscussa, sia nel disegno che nell'esecuzione.
Angelico aveva già lavorato sul tema dell'Annunciazione, per pale di altare di sapore tardogotico, ricche di dettagli minuti e preziosi, ma anche con una struttura prospettica delle architetture e un'analisi psicologica dei personaggi pienamente rinascimentale.
In questo affresco, come in quello successivo dell'Annunciazione del corridoio Nord, l'Angelico ruppe con i modi del decennio precedente per dare origine a una scena severa e disadorna, con figure semplificate e alleggerite, dove la parsimonia compositiva e i modi essenziali sprigionano un forte misticismo. Questa nuova fase dell'arte dell'Angelico fu sicuramente influenzata dalla destinazione particolare degli ambienti, dove i monaci vivevano una vita fatta di contemplazione, preghiera e meditazione. Ciò portò a una lettura del fatto evangelico più essenziale e quindi più efficace, scevra da distrazioni decorative superflue e adeguata più che mai all'immediatezza narrativa e psicologica delle grandi opere di Masaccio.
La scena si svolge in uno spoglio porticato, che somiglia alla cella chiusa di un monastero, aperto sul lato sinistro su un'altra stanza, non un giardino, con esili colonne che reggono archi a tutto sesto. Il centro della scena è occupato semplicemente dalla parete bianca, sulla quale si stagliano l'Angelo, a sinistra, e la Vergine. Il muro cieco oltre che fare da sfondo ha la funzione anche di evitare qualunque distrazione che allontani la mente dai confini della scena: anche i capitelli sono coperti dalle ali dell'Angelo. La volta stessa della cella contribuisce al senso di armonia e mette in relazione l'ambiente reale con la scena sacra. Forse l'Angelico aveva in mente anche le teorizzazioni dell'Alberti, che in architettura distingueva la bellezza, data dalle proporzioni armoniose, dall'ornamento, dato da elementi decorativi subordinati come colonne, capitelli, ecc.
Maria è inginocchiata su uno sgabello e, tenendo un libro in mano (simbolo delle Sacre Scritture che si avverano con la sua decisione), incrocia le braccia in segno di accettazione e umiltà, sollevando anche un lembo della veste che ricade in snelle pieghe verticali.
L'Angelo è estremamente sobrio e composto in confronto alle sfarzose pale d'altare come l'Annunciazione di Cortona o quella del Prado: le ali sono più piccole e la sua veste è priva delle dorature ed ha una cromia, come in tutto il resto dell'affresco, più tenue e spenta. Egli risponde al gesto di sottomissione incrociando pure le braccia sul petto. La parte superiore della sua tunica ha una forte caratura plastica, derivata da Masaccio, mentre quella inferiore, dalle pieghe a cannula che discendono inclinandosi sul dietro, ricorda l'esempio di Lorenzo Ghiberti. Manca l'usuale colomba dello Spirito Santo, ma l'elemento divino è comunque rappresentato dalla fiammella che arde sulla testa dell'Angelo.
Le due figure protagoniste sono disposte lunga una direttrice obliqua, formata dall'incrocio dei loro sguardi, in modo da condurre lo sguardo dello spettatore dall'angelo alla Vergine. Lo sfondo neutro, dove domina un senso di luce e di spazio, fa risaltare, per contrasto, la forte resa plastica, ottenuta come in Masaccio tramite le ampie campiture di colore "macchiate" dalla luce e dal chiaroscuro. Sfrondando i particolari secondari si arriva così a rendere con forza il peso e il volume delle figure. I protagonisti appaiono così come un gruppo scultoreo contenuto e immobile.
Dietro un'arcata spunta la figura di san Pietro Martire in abito domenicano, che fa da testimone alla scena e la attualizza inquadrandola nella gamma dei principi dell'Ordine.
Beato Angelico Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio