Certo delle possibili ascendenze della Venere Cipride nella mostra non resta che l’incarnazione ideale, non solo estetica in continua evoluzione ma nelle quali la grammatica erotica che abbiamo imparato a conoscere in una versione punk e dolente sembra raffreddata dal passare del tempo e da un'elaborazione colta e distaccata del suo vissuto.
Soggetto e nuovamente unica protagonista delle grandi tele è lei, anche nel corso delle diverse fasi della recente malattia e della convalescenza. Nuovamente un corpo di cui non si vede il volto, “perché il mio volto lo conosco, so come sono fatta”, e per questo trova superflua la sua rappresentazione, nel quale in molti possono identificarsi per l’universalità dei grandi temi esistenziali affrontati dall’artista. Fulcro dell’esposizione, la pittura è mezzo espressivo centrale per Emin, che in ogni tela crea un campo di tensioni emotive, segnato da una forte materialità, come in Hurt Heart (Cuore ferito, 2015), It was all too Much (Era tutto troppo, 2018), It - didnt stop - I didnt stop (Non si è fermato - Non mi sono fermata, 2019), There was blood (C’era sangue, 2022) Not Fuckable (Non scopabile, 2024), o I waited so Long (Ho aspettato così a lungo, 2022) in cui l’artista lavora istintivamente, lasciando emergere forme in bilico tra figurazione e astrazione. Le sovrapposizioni di colore e i segni lasciati dal gesto pittorico mantengono la traccia del processo creativo, con cancellazioni e ripensamenti visibili. Pennellate rapide e colature di pittura imprimono alla tela un’intensità vibrante e instabile, amplificando allo stesso tempo il forte carattere passionale delle opere e le sensazioni di fragilità e memoria sospesa che sembrano caratterizzarle.
Tracey Emin nella sua permanenza a Firenze è andata in visita al Museo di San Marco per gli affreschi di Beato Angelico. Il suo sogno che si realizza? TKE Studios /Tracey Karima Studios e della TEAR /Tracey Emin Artist Residencies che ha preso maggiore consistenza. Ha deciso di vendere per investire il ricavato nel polo culturale che l’artista ha costruito proprio a Margate, attraverso l’acquisto di diversi edifici (un ex stabilimento balneare del 1909, un vecchio obitorio, una ex tipografia), che sono stati trasformati in dodici grandi studi di artista (selezionati da Tracey Emin stessa, per circa cento residenze) e scuola d’arte della durata di due anni per un gruppo di circa 15/20 studenti: tutto completamente gratuito e a spese di Tracey Emin stessa. “È la prima volta, nella mia vita, che realmente sento cosa sto facendo e cosa sono e perché sono qui.
La visione di ‘The bad girl of British art’ che aveva catturato negli anni la nostra attenzione oggi è svanita, ma questo non distoglie il messaggio di Tracey Emin, ‘dal rimanere tutti innamorati, sino all'ultimo giorno della nostra vita.’
Tracey Emin
Arturo Galansino
In conversazione
«Sono sul ciglio dell'abisso, ma la vista da qui è eccezionale».
Arturo Galansino: Iniziamo dal titolo della mostra, Sex and Solitude (Sesso e solitudine). Nel tuo lavoro sei sempre stata molto esplicita riguardo alla sessualità: dai periodi di intensa attività erotica agli anni di astinenza, passando per il trauma della violenza. Come si è evoluta la tua percezione del sesso nel corso degli anni e come continua a influenzare il tuo lavoro?
Tracey Emin: Il sesso è sempre stato molto complicato per me. Quando ero giovane, intorno ai quattordici o quindici anni, era più che altro un mezzo per andare da qualche parte, per muovermi, esplorare, vedere il mondo attraverso gli altri e sentirli nel profondo. Poi mi resi conto di ricevere molto meno di quanto stessi dando, e questo non mi rendeva felice, così tornai alla castità. Nella mia vita ho attraversato lunghe fasi di astinenza dal sesso, la più lunga è durata circa dieci anni. Credo di stare attraversando un’altra fase simile, ma stavolta è diverso per via di tutte le operazioni che ho subito. Il mio corpo è profondamente segnato da ciò che gli è accaduto. Penso che il corpo abbia una sua memoria: il mio è stato ferito dall’amore, dal sesso, dagli interventi chirurgici, dallo stupro, dalle malattie trasmesse sessualmente e dagli aborti. È come se quella parte di me fosse insensibile ormai, per ragioni sia psicologiche che fisiche. Oggi per me c’è qualcosa di più importante del sesso: è l’amore, sì, senza dubbio, l’amore è più importante. E la possibilità di avere entrambi contemporaneamente è piuttosto rara, specialmente per me.
Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
AG: Parlando invece dell’idea di solitudine, penso alle diverse forme in cui si manifesta: il senso di abbandono causato dalla perdita, l’isolamento dell’artista che crea, l’introspezione indispensabile per scoprire se stessi. Qual è il tuo rapporto con la solitudine?
TE: Amo la solitudine. Quando ero giovane, pensavo di essere sola – perché lo ero davvero – e sentivo quella solitudine nel profondo. Non capivo come usare quella sensazione, la percepivo come qualcosa di negativo. Oggi, per me la solitudine è uno dei sentimenti più intensi e meravigliosi. È come comprendere la natura, il tempo, entrare in sintonia con me stessa; essere completa da tutti i punti di vista: mentale, fisico, emotivo. E il momento di solitudine che preferisco è quando dipingo: mentre creo, dipingo, scrivo, penso, mi sento sempre da dio. Senza solitudine poi non riesco a essere creativa, è impossibile. È bello essere circondati dall’affetto delle persone, dall’amicizia e dall’amore, ma per creare ho bisogno di stare sola, di vivere quell’istante di isolamento. Penso sia per questo che soffro di insonnia o almeno dormo in orari stranissimi. Quando mi addormento su un divano o su una poltrona e mi sveglio nel cuore della notte, quello è uno dei miei momenti di solitudine: allora mi sento come se fossi l’unica persona nell’universo e posso pensare a cose a cui normalmente non penserei. Anche lo stare a letto implica un problema, perché il letto è confortevole, mentre la solitudine di cui ho bisogno deve essere come un vento impetuoso, una pioggia battente, un sole che scotta, come camminare nel deserto. La solitudine deve arrivare a questi estremi per funzionare. È lì che ho i pensieri migliori, le idee più brillanti, i momenti più alti di creatività. Ma non deve essere necessariamente una sofferenza. Quando ero più giovane, facevo confusione tra solitudine e isolamento. La solitudine non è isolamento. La solitudine è forza. C’è una differenza enorme tra essere bloccati sulla cresta di una montagna senza poter salire né scendere, e arrivare fino alla vetta, e una volta là guardare giù e provare un senso di conquista. È un’enorme differenza.
Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
AG: Palazzo Strozzi è un luogo intriso di storia. In che modo esporre le tue opere in un contesto del genere influenza il tuo modo di vedere il tuo stesso lavoro? Su un piano più personale, come si è evoluto il tuo rapporto con l’Italia nel corso degli anni, e che tipo di influenza ha esercitato su di te il nostro Paese dal punto di vista artistico e individuale?
TE: Ho esposto parecchie volte in Italia tramite la galleria Lorcan O’Neill che mi rappresenta nel vostro Paese, ma non ho mai partecipato a una mostra in uno spazio istituzionale né a una personale. Per quanto riguarda Palazzo Strozzi, è bellissimo dal punto di vista architettonico e storico, oltre che per la posizione, la disposizione delle sale, tutto. Mi si addice davvero, è fantastico.
Sono entusiasta di vedere il mio lavoro in quell’ambiente, oltre che di esporre in uno spazio istituzionale in Italia. A Firenze poi! È incredibile! Una città così profondamente immersa nella storia dell’arte, nella storia tout court. Anche di questo non potrei essere più entusiasta. Io ho un’idea, ce l’ho da molto tempo: evito le mostre allestite in contesti architettonici che non mi fanno sentire bene. La mia priorità è esporre in città, paesi e nazioni con cui mi sento in sintonia. E Palazzo Strozzi, per me, ha tutto, sono davvero emozionata.
AG: La scultura in bronzo a Firenze, in particolare durante il Rinascimento, è un’icona della storia dell’arte. Un esempio per tutti: il Quattrocento fiorentino si inaugurò con il famoso concorso per la decorazione della porta nord del Battistero, che in un certo senso diede il via al primo Rinascimento. Qualcosa di simile a Ghiberti l’hai fatto anche tu con il recente progetto per le porte in bronzo della National Portrait Gallery. Che impatto ha avuto sulla tua espressione artistica lavorare col bronzo? Quali sfide ti si sono presentate, quali scoperte hai fatto?
TE: Per anni ho desiderato realizzare grandi sculture figurative in bronzo tratte dai miei disegni, ma non sapevo come fare e non intendevo barare: volevo imparare da sola. Poi ho stretto amicizia con Louise Bourgeois, Jerry Gorovoy, Scott Lyon Wall e ho lavorato in una fonderia d’arte di New York, dove ho imparato la tecnica della cera persa, iniziando da zero con delle minuscole sculture in bronzo. Oggi, a distanza di anni, lavoro con la AB Fine Art Foundry a Londra, realizzando bronzi giganteschi, che amo tanto quanto quelli piccoli.
E sono anche molto contenta di essere passata dalle opere minuscole a quelle enormi. Ho imparato tantissimo. È davvero l’unica cosa nuova che ho imparato negli ultimi vent’anni, ed è stato necessario per trovare un modo di andare avanti con il mio lavoro. La storia del bronzo è straordinaria per via dei materiali alchemici coinvolti.
Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
AG: La qualità tattile delle tue sculture, spesso segnate da impronte digitali visibili e altre irregolarità della superficie, evoca un senso di intimità e immediatezza. In opere come quella che hai creato per il nostro cortile, questa caratteristica è una scelta voluta per esprimere qualcosa di specifico o è semplicemente una parte organica del processo creativo?
TE: È decisamente organica, ha a che fare con le mie mani, le mie impronte, il fatto di toccare l’opera. Ma devo essere onesta, c’è anche molta tecnica in termini di levigatura, stratificazione, tanto lavoro duro: ovviamente non faccio tutto da sola, ma posso contare sulla fonderia, su Harry Weller, il direttore del mio studio. È qualcosa di gigantesco che coinvolge molte persone. L’apparente naturalezza e spontaneità del risultato finale ha dell’incredibile, perché te lo assicuro: realizzare un bronzo di quelle dimensioni è difficilissimo. E non puoi sbagliare, perché nessuno vuole ritrovarsi con due tonnellate di bronzo che trova brutte.
Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
AG: Hai creato anche importanti opere d’arte per spazi pubblici. Qual è, secondo te, il ruolo dell’arte pubblica, e che differenza c’è con il realizzare un lavoro per una galleria o un museo?
TE: Quando ero più giovane l’arte pubblica mi faceva infuriare. La trovavo troppo maschile, pretenziosa, spesso poco attraente e un po’ imbarazzante se non estremamente conservatrice. Non riuscivo a capire perché non esistessero opere d’arte pubblica più appaganti dal punto di vista emotivo. Poi ho capito: il fatto è che c’è poco spazio per l’emozione nella sfera pubblica o quantomeno è un sentimento che viene considerato pericoloso. Io comunque volevo provarci, così ho iniziato a fare sculture pubbliche di dimensioni ridotte, come Roman Standard (Insegna romana) che è il mio uccellino su un palo ed è molto piccolo. Poi ci sono quelle di Sydney: sessantotto sculture di uccellini posati lungo una strada nel Central Business District. A Folkestone ho installato Baby Things (Cose da bambini): sculture di abiti e oggetti per neonati lasciate in diversi luoghi della città. Volevo creare un impatto emotivo con sculture pubbliche che fossero piccole e femminili. Poi ho deciso di fare l’esatto contrario, evitando però di fare il macho e mantenendo un’impronta spiccatamente femminile. Così ora, a Oslo, c’è una mia scultura alta nove metri dal titolo The Mother (La madre) che rappresenta essenzialmente mia madre: una donna anziana in ginocchio. Non ho mai visto una scultura pubblica o una statua di una vecchia prima d’ora, quindi penso di aver fatto davvero qualcosa di nuovo e in certo modo sensazionale.
Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
AG: Da studentessa, a Londra, visitavi spesso la National Gallery. Che influenza hanno avuto queste esperienze giovanili sul tuo approccio alla storia dell’arte e sul tuo legame con espressionisti come Munch e Schiele?
TE: Quando frequentavo il Royal College of Art, di solito prendevo un autobus da Elephant and Castle fino a Westminster e da lì con la metro arrivavo a South Kensington. A volte però restavo sull’autobus e scendevo alla National Gallery. Appena entrata, andavo subito al piano di sotto e lì disegnavo le icone o semplicemente mi guardavo intorno e prendevo appunti. Credo di averlo fatto un paio di volte a settimana per due anni, ed è a questo che devo la mia conoscenza della pittura e della storia dell’arte. Tutto quello che sapevo prima di allora era legato all’Espressionismo e all’arte europea di prima della guerra; all’improvviso ero stata catapultata in un altro mondo, avevo capito i classici e le loro idee. Era come un’espansione della mente. Quindi Munch era pre-National Gallery mentre la pittura rinascimentale e quella classica sono arrivate attraverso la National Gallery. E le ho imparate da sola, perché non ho mai veramente studiato storia dell’arte, ho solo approfondito l’arte che mi piaceva.
AG: La salvezza è un concetto ricorrente nel tuo lavoro, anche se non intesa in senso religioso. Cosa significa per te “salvezza”, e da cosa – ammesso che qualcosa vi sia – desideri essere salvata?
TE: La salvezza per me è pace. La salvezza è perdono e per essere perdonati la cosa più forte che puoi fare è perdonare. E quando hai davvero perdonato qualcosa o qualcuno... provi un incredibile senso di liberazione. Cresci mille volte. Per me, questa è una delle più grandi sensazioni di salvezza: comprendere e perdonare situazioni, persone, tempo, perdite. Non voglio vivere con il rancore, non voglio vivere con l’odio e la paura. Più di tutto, le cose con cui non voglio vivere sono l’aggressività e la violenza dentro di me. Voglio essere libera da tutto questo. Più sei libera da queste cose, più la vita diventa facile. E più la mia vita diventa facile, più sono felice, il che significa che posso concentrarmi sulle cose che amo davvero, ossia l’arte.
Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
AG: La salvezza è un concetto ricorrente nel tuo lavoro, anche se non intesa in senso religioso. Cosa significa per te “salvezza”, e da cosa – ammesso che qualcosa vi sia – desideri essere salvata?
TE: La salvezza per me è pace. La salvezza è perdono e per essere perdonati la cosa più forte che puoi fare è perdonare. E quando hai davvero perdonato qualcosa o qualcuno... provi un incredibile senso di liberazione. Cresci mille volte. Per me, questa è una delle più grandi sensazioni di salvezza: comprendere e perdonare situazioni, persone, tempo, perdite. Non voglio vivere con il rancore, non voglio vivere con l’odio e la paura. Più di tutto, le cose con cui non voglio vivere sono l’aggressività e la violenza dentro di me. Voglio essere libera da tutto questo. Più sei libera da queste cose, più la vita diventa facile. E più la mia vita diventa facile, più sono felice, il che significa che posso concentrarmi sulle cose che amo davvero, ossia l’arte.
Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
AG: La memoria, sia personale che collettiva, ha un ruolo significativo nel tuo lavoro. Come affronti il processo di tradurre ricordi profondamente intimi in una forma visiva che entri in risonanza con il pubblico? Per te l’arte è un modo per preservare o forse persino riformulare questi ricordi?
TE: Per me è arrivare a una nuova comprensione dei ricordi. Quando avevo quindici anni, vedevo le cose in modo molto diverso da ora. Attraversiamo fasi alterne nella vita e lo stesso vale per i nostri ricordi, che cambiano anche in base alle esperienze. È come la lettura della mano: il palmo della mano cambia man mano che si invecchia, allo stesso modo, col tempo, le esperienze diventano qualcosa di diverso, proprio come le linee delle nostre mani. Lo stesso discorso vale per la memoria e per il modo di percepire le emozioni. Una cosa che vent’anni fa mi aveva turbato nel profondo, magari oggi non mi fa nessun effetto. Oppure al contrario, qualcosa che cinquant’anni fa non aveva suscitato in me alcuna impressione, inizia a emergere in forma di ricordo e di emozione. Molte di queste cose sfuggono al nostro controllo, fanno semplicemente parte del DNA. Sono qualcosa con cui conviviamo, crescono, si espandono, si riducono. È così che fanno i ricordi. Infatti, quando dipingo, quando lavoro, non so mai che cosa accadrà fino a che non ci entro dentro.
Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
AG: Il tuo lavoro si basa spesso su una cruda vulnerabilità, mette a nudo emozioni ed esperienze personali e le espone davanti al mondo. Come si concilia il bisogno di privacy con il desiderio di creare un’arte onesta e d’impatto? Esporre le tue fragilità ha un costo per te?
TE: Esporsi, di per sé, ha un costo. Quando ero più giovane, non avevo limiti e non capivo quando mi spingevo troppo in là. Questo è stato piuttosto negativo per me stessa. Ora mi proteggo, mi prendo molta più cura di me. Quando dipingo, non decido fin dall’inizio quello che metterò nell’opera, ma ci lavoro strada facendo. È quasi come se avessi due Io che collaborano tra loro e lavorano per stabilire quello che posso rivelare o con cui posso confrontarmi, quello che decido di condividere con il mondo, assicurandomi però che non sia troppo dannoso per me. Questo perché sono cresciuta e comprendo molto meglio le situazioni. Così, lavoro sulle cose, imparo, e questo non è dannoso per me, non è qualcosa di estraneo. Si tratta di unire tutte le parti di me. Prendi una cosa semplice come la malattia; combattere contro la morte avrebbe richiesto moltissima energia. Quello che ho fatto, invece, è stato assecondare la situazione, attraversarla, anziché provare paura o odio nei suoi confronti, così sono riuscita a passare dall’altra parte e ho sentito di aver imparato qualcosa.
Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
AG: Hai smesso di dipingere nel 1990, quando sei rimasta incinta, perché l’odore dei colori a olio ti faceva star male. Quella data segna l’inizio di una crisi personale durata sei anni, fino a quando ti sei chiusa in una sala all’interno di una galleria e hai ricominciato. Hai intitolato quell’atto performativo Exorcism of the last painting I ever made (Esorcismo dell’ultimo dipinto che abbia mai fatto) e sono molto contento che siamo riusciti a ricrearlo per la tua mostra a Palazzo Strozzi. Che cosa ti ha spinto ad affrontare quella paura e a riconquistare la pittura come mezzo espressivo? E che cosa ti ha lasciato quell’esperienza?
TE: Il punto è che volevo davvero tornare a dipingere. Dopo l’aborto, non ho più voluto realizzare “dipinti” tanto per farlo, avevo bisogno di catturare un’emozione. Per me, la pittura riguarda l’essenza stessa della creatività, è vicina al divino, è un mondo a parte, è come entrare in un’altra dimensione, un altro spazio, qualcosa che non è umano. Non dipingevo perché ero intrappolata in questo strano senso di colpa e nell’autopunizione derivata dall’aver abortito.
Non riuscivo a lasciarmi andare. Ora dipingo con gli acrilici. Ancora non uso la pittura a olio, anche se ora quell’odore mi piace un sacco. Inoltre, sono diventata una maestra nell’uso degli acrilici, quindi perché dovrei farlo? Ho solo due rimpianti riguardo quel progetto. Il primo è perché, inizialmente, avevo pensato di bruciare tutto ciò che avevo creato durante la performance.
Se l’avessi fatto, avrei continuato a dipingere spinta dal rimpianto di averlo distrutto e dal desiderio di rivivere quei momenti ancora una volta. L’altro rimpianto è di non aver continuato a dipingere con la stessa intensità di allora fino a molti anni dopo. Ora la pittura è nel mio sangue, fa parte di me, scorre in me tanto quanto il disegno. Ma mi ci è voluto tutto questo tempo per capirlo davvero e per sentirlo fino in fondo.
Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
AG: Siamo fortunati ad avere in mostra diversi dei tuoi neon. Quanto è importante esprimere questi sentimenti con la luce, anziché scrivere su tela o sulle tue coperte, ad esempio?
TE: Sono cresciuta circondata da neon: erano ovunque a Margate. Oggi lì ne sono rimasti pochi, ma nel resto del mondo sono tantissimi. Io ho iniziato a farli perché volevo vederne di più in giro. E sai com’è, bisogna stare attenti ai propri desideri. Il vero neon contiene gas come argon e neon appunto, che hanno un effetto positivo sull’umore perché irradiano energia. Ecco perché erano usati nei casinò, nei bordelli, nei bar, nei club, eccetera. Il neon è luce ed energia pulsante, è una cosa viva, e questo mi fa sentire bene. Ma un conto è il neon in quanto tale, un altro è usarlo con la scrittura. L’idea è nata grazie a Carl Freedman, il gallerista. Nel 1995 dovevo realizzare un’insegna per il mio museo e Carl mi disse: «Ti piacciono i neon, perché non la fai così?». Perciò ho scritto The Tracey Emin Museum, e quello è stato il mio primo neon. Ce l’ho ancora: è molto dolce e piuttosto piccolo, ma è stato l’inizio di tutto. Illuminare il proprio nome è un’affermazione di fiducia in sé stessi. Il neon, come oggetto, è semplicemente bello e ti fa sentire bene. Ecco perché li ho fatti e continuo a farli.
Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
AG: Luoghi come Margate e Londra sono stati fondamentali per il tuo lavoro. Quanto influisce l’ambiente sul tuo processo creativo? Esiste un luogo che hai trovato particolarmente stimolante o essenziale per il tuo lavoro?
TE: Sono molto fortunata perché per me è più una questione di stato mentale. Potrei trovarmi nel posto più bello, nello studio migliore, con una luce perfetta e non riuscire a combinare niente perché ho il cervello confuso o perché sono troppo tesa o il mio corpo è in stato di shock. Al contrario, potrei stare seduta al tavolo della cucina e realizzare gli acquerelli migliori della mia vita. Lavorare dipende dal mio stato mentale e da come mi sento. Negli ultimi anni sono riuscita a dipingere in tutti i miei studi – in Francia, a Londra, a Margate – e sono stata molto, molto felice di lavorare ovunque mi trovassi. Di recente ho disegnato in Austria e ho fatto acquerelli in aereo. È tutta una questione di stato mentale, di quello che mi rende felice. In ogni caso, uno dei luoghi che preferisco è il mio studio in Francia, che amo profondamente.
AG: Come artista che è sempre andata oltre i limiti stabiliti, cosa speri che il tuo lavoro comunichi alle generazioni future? Come vedi la tua eredità nel contesto più ampio della storia dell’arte?
TE: Penso che molti giovani si lascino ispirare da ciò che fa tendenza, dalla moda del momento. Ma con l’arte non è la stessa cosa. L’arte dovrebbe sempre riguardare ciò che è vero per te come individuo, sempre. Dovrebbe essere sincera e nascere da un desiderio genuino di trovare le proprie risposte. Almeno, per me è così. Per molto tempo il mio lavoro è stato assolutamente fuori moda. Ma non m’importava, perché sapevo che era la cosa giusta per me.
Anche il modo in cui presenti qualcosa e il contesto in cui lo collochi è davvero importante. Puoi fare l’arte migliore del mondo, ma se la metti nel posto sbagliato, nessuno la vedrà mai.
Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
Tracey Emin
Sex and Solitude
a cura di Arturo Galansino
@ 2025 Artext