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Le plaisir au dessin
Jean-Luc Nancy

 
William Kentridge William Kentridge Other Faces, 2011 Courtesy Lia Rumma



… Nell’idea del “disegno” c’è la singolarità dell’apertura –della formazione, dello slancio o del gesto– di una forma. Ossia, precisamente, quella in cui la forma, per formarsi, non deve essere stata già data. Il disegno è la forma non data, non disponibile, non formata. È dunque, al contrario, il dono, l’invenzione, il sorgere o la nascita della forma. “Che una forma accada”, questa è la formula del disegno – e questa formula implica, insieme al desiderio e all’attesa di una forma, una maniera di rimettersi ad una venuta, a un sopraggiungere, a una sorpresa che nessuna formalità anteriore avrà potuto né precedere né, tanto meno, preformare ...

… La linea non è né una cosa inerte, né la proiezione di uno psichismo: è precisamente il getto, l’impeto o l’impulso di cui la mano –con tutto il corpo che vi si raccoglie– e una traccia –infimo sedimento di piombo o carbone– si costituiscono insieme e ciascuno attraverso l’altro –ciascuno carico dell’altro– come soggetto autonomo in quanto slancio, fuga o corsa, tendenza, vettore, felicità, grazia, talento, dono o ispirazione, genio: un giorno si dovrà tornare a queste parole cadute in discredito, non per rendere loro alcun credito, ma per tornare a ravvivare la questione o l’aporia di ciò che esse sono incapaci di nominare benché non possano evitare di designarlo. Tra la mano e la traccia, nello slancio della matita, della penna, della biro o del carboncino, nel movimento che va dalla mano alla traccia e rifluisce dalla traccia per flettere ancora la mano, è drenata una pulsione, un’energia raccolta da tutta una cultura e da tutta una storia, da tutto un pensiero, un’esperienza del mondo che si condensa nella vibrazione del tratto.
La linea non è una cattiva risorsa per designare come sua origine questo punto di contatto tra un pensiero e un gesto, tra una sensibilità e un’attività, questo punto indivisibile e mobile dove nasce una forma e con essa una maniera – tutta la maneggiabilità e la manipolazione congiunte di una messa in opera, cioè di una messa in luce di ciò che non era né nascosto, né dato, ma che si inventa col suo gesto. Poiché la linea è il punto stesso –questo punto nullo di nascita, questa origine sottratta a sé– in procinto di dividere lo spazio, disponendolo e dandogli forma, formandolo nell’atto di scavarlo e impressionarlo, aprendo delle nuove possibilità per altri spaziamenti, cioè per scarti e prossimità, per aggiramenti e deviazioni, per pieghe, curvature, partenze e ritorni. La linea –è così che essa ha o piuttosto è un desiderio– non fa che mobilizzare e tirare in avanti un punto di verità: laddove sembra subito possibile andare da niente a qualcosa, andare dall’informe delle aderenze e delle inerenze alla forma dei distacchi e delle distinzioni. La verità, di fatto, non è altro che distinzione: è così che si manifesta essa stessa, come scrive Spinoza (Veritas seipsam patefacit). Visuale, sonora, gestuale o tattile, la delineazione distingue, differenzia e distribuisce, dispone nello stesso tempo in cui sparisce nel suo proprio movimento.
Questo è ciò che si può chiamare “emozione”: di fatto, vi è qui sentimento e tatto. Non si tratta tuttavia semplicemente dell’affezione di un soggetto nel senso psichico o interiore del termine. È piuttosto, al suo fondo, la scossa di una macchina, la più delicata delle macchine. È l’innesco di processi e circuiti, di trasmissioni e interruzioni che liberano e propagano la delineazione per il piacere. Intendiamoci: per il piacere di delineare, ossia per la sola aspirazione a sé, per la ripetizione nel senso originale (il ridomandare) di ciò che non può che domandarsi o chiamarsi o tendere verso sé: verso un contorno, una figura, un’identità, o un senso. Il desiderio della linea –o la linea in quanto desiderio– è di piacere a sé, ma a questo sé lineare, cioè sempre teso avanti a se stesso e sempre cancellato nella sua origine, laddove il gesto avrà preceduto il tracciato, laddove tutto un corpo avrà preceduto il gesto e tutta una potenza –pulsione, pressione– avrà mobilizzato un corpo. Tutta una spinta: tutto un pensiero, un peso.
Un simile sé lineare è desiderio: né coscienza, né intenzione, neanche propriamente affezione, ma ripercussione, risonanza singolare di un punto di verità. È lecito definire questo –ciò che abbiamo chiamato “una macchina”– “un artista”, o anche “un creatore”, o ancora dire “il suo disegno”, o “la sua linea”, “il suo stile”, “la sua maniera” o “il suo pensiero”. Ciò che importa è che la verità vi si trovi come essa deve essere: assolutamente distinta, senza equivalenza – e forse, per finire, anche senza linguaggio (anche nella poesia), senza significanza, facendo segno in qualche altro modo, de-signando. Ma è la verità com’è in se stessa: distinzione, o anche idea – ciò che chiamiamo “forma” e il cui nome latino implica anche la bellezza (forma, formosa).
Poiché infine, che dire della bellezza? Che essa è lo splendore del vero. Cioè la scintilla attraverso la quale il vero si manifesta. Non un’aureola o un baluginio legato a questa manifestazione – questo splendore non deve essere rutilante né sontuoso, tanto meno se si confonde la profusione con la replezione, perché il bello non può essere pieno, né soddisfatto, né sazio. Ma il bagliore della cosa –il vero– che non è che il suo bagliore e il fatto che sfavilli. Ora, c’è un simile bagliore quando una forma distintamente si leva: questo è un corpo, è la sua idea, è la sua linea e la sua demarcazione più propria, la sua chiusura e la sua dischiusura congiunte.
Il bello è il disegno del vero: il suo desiderio di scintillare. Questo desiderio si libera e fa linea – contorno, melodia, danza o frase, racconto o recitazione, montaggio o tavolozza, volume, grana, cornice o cadenza, è sempre linea che desidera e desiderio di godersi la sua verità.
Poiché il bello è la scintilla del vero, ne è così il carattere desiderabile e per questa ragione esso comunica col bene, se anche non si confonde con esso. Secondo la Scuola antica, il vero, il bello, il bene si convertono l’uno nell’altro. Ciò significava che nulla v’è di desiderabile che non si rapporti a sé secondo la sua verità, e non sia dunque più propriamente ciò che deve essere. Ma se il “proprio” è ciò che deve essere, allora non è mai dato, mai compiuto – mai abbastanza fatto, soddisfatto. Il proprio, la proprietà del proprio non è appropriabile; non è dell’essere, è un “da essere” [à être] (ciò che si può anche trascrivere in questi termini: l’“essere” non è uno stato, ma una transitività, l’atto di inviarsi verso sé). Non c’è alcun “abbastanza” per nessuna proprietà, e la sua verità, che è la sua manifestazione, deve sempre tornare a mostrarsi incompibile – trasformazione infinita, aperta in ogni forma, per ogni forma bella: la bellezza è nel rapporto all’infinito. Essa espone il rapporto infinito di una forma finita.
L’incompibile, qui, non è tale in ragione di una mancanza [défaut]. Esso, al contrario, dà la misura di una perfezione che bisogna intendere non come completezza, ma come un oltrepassamento di ogni “fare” [faire]: “perfetto” [parfait] diventa qui ciò che eccede il “fare”, la fabbricazione, la produzione o la generazione. Un tale “fare” non è senza agganci con un “disfare” [défaire] – proprio come l’opera, secondo Blanchot, trova la propria verità nella sua stessa inoperosità. Ma questo disfare non sopraggiunge al fare né al fatto o al “perfetto” come un evento o un accidente secondo. Il disfare è presente nel cominciamento del fare: lo ha già diviso da se stesso e separato dal suo scopo “perfezionista”. È pertanto una perfezione che desidera l’opera –o l’artista, o la “linea”–, ma una perfezione che deve trattenere in sé la potenza (attiva o passiva) di una disponibilità all’infinito.
È per questo che non bisogna mai chiedersi come l’etica e l’estetica possano congiungersi o debbano al contrario essere disgiunte: l’estetico –se vogliamo dargli questo nome– è per se stesso l’etico in quanto si dà come regola suprema quella di non tener nulla per soddisfacente e di commisurare il suo piacere al desiderio di non contentarsi. Perché la rovina dell’etica è sempre nella fissazione di un bene al quale ci si potrebbe arrestare, invece di pensare con Platone che il Bene si trova al di là dell’essente, o con Kant che esso esige la libertà come potere di cominciare da capo, e di conseguenza che la sua Idea è la Forma al di là di tutte le forme, o il disegno il cui tratto supera ogni contorno.

 

Ripensare il medium: il fantasma del disegno
San Giovanni Valdarno
17.10.2015 - 15.11.2015

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