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Erika Pellicci
Dialogo

 
Erika PellicciErika Pellicci, Il luogo di origine, 2021, frame da video


Erika Pellicci
Un dialogo con Artext e Serena Becagli


Artext - Puoi parlare di cosa ti ha condotto alla fotografia, a farne una pratica artistica e forma d'arte in un contesto come questo?

Erika Pellicci - Quello che mi ha spinta verso la fotografia è principalmente il fascino del riflesso del mondo che ne vedo attraverso. La fotografia mi permette di osservare la realtà con occhi taglienti e allo stesso tempo sottili, come se tramite un filtro potessi captare le sfumature della quotidianità. Credo che la fotografia mi abbia permesso di accedere all’osservazione ravvicinata delle emozioni, trasformandole in qualcosa di tangibile. All’età di sedici anni ho iniziato a fotografarmi e nessuno specchio poteva darmi un’immagine stabile di me stessa come lo scatto fotografico, da lì ho iniziato a capire che la fotografia mi era necessaria quanto respirare per potermi esprimere.
Alla fine penso che il fotografo e l’osservatore facciano la fotografia.
Come tutte le pratiche artistiche la fotografia crea legami, connessioni: è sociale, politica, mutevole, falsa, vera ecc.
È un linguaggio che permette l’accesso a diverse letture.

Erika PellicciErika Pellicci, Qui sempre. Qui forse. Qui mai, 2021


AT - Tra le indicazioni correnti intorno alla fotografia si situano alcuni movimenti specifici - uno dedicato alla fotografia sperimentale che indaga le ambiguità della ricezione visiva e mette in scena l’esperienza stessa del vedere fotografico, il secondo legato alla staged photography, o “immagine-performance”, ovvero una fotografia teatralizzata, ambiguamente sospesa tra reale e immaginario. Qual è il tuo territorio di sperimentazione ed indagine?

EP- Difficile da dire, mi piace sperimentare di tutto.
Sicuramente l’identità e la vita intima sono le prime cose su cui indago. Ho sempre cercato di documentare come in un diario, in un parafrasare continuo della quotidianità. Quello che cerco è un senso di sicurezza che sfugge, e proprio il suo fuggire mi porta a rincorrere territori molto distanti tra di loro.
Passo dalla foto documentaria o di architettura alla ricerca delle leggende magiche che ogni luogo nasconde. Nella mio lavoro non cerco di ricreare una scena “staged”.
Ho provato in passato a lavorare con progetti precisi, tipo ri-creazione di immaginari, ma credo che la fotografia non sia mai uno sguardo disinteressato verso la realtà, quindi anche nello scatto che sembra essere il più spontaneo avviene una scelta estetica che rende la foto un atto performativo, soggettivo. Con questo non penso che le foto non possano essere spontanee, lo sono più spesso di quanto si pensi; il fatto che ci si domandi se siano false o meno è perché viviamo in una società e siamo fatti tutti di esperienze che ci portano a vedere sempre più di quello che effettivamente c’è all’interno del frame. Nel frame si pongono tutte le nostre energie alla ricerca di qualcosa di familiare. Quindi il mio campo d’indagine si può collocare tra lo studio dell’identità e un déjà-vu.

Erika PellicciErika Pellicci, Details of short days, 2021


AT - Quale azione tende a suscitare la fotografia che pratichi?

EP - Calore, almeno, voglio sperare.

AT - Serena, tu che conosci Erika da tempo, come ha preso carattere la sua spontaneità, di un lirismo piuttosto che una certa ‘rigidità’ che la registrazione fotografica a volte evidenzia?

Serena Becagli - Ho conosciuto il lavoro di Erika nel 2018 quando, collaborando con Dryphoto arte contemporanea al progetto La Via della Cina, a cura di Filippo Maggia, mi trovai insieme a Vittoria Ciolini e Andrea Abati di Dryphoto a raccogliere e selezionare i portfolio dei giovani artisti che avevano risposto alla call. Il portfolio di Erika, che stava ancora studiando all’Accademia di Firenze, si fece notare e lei finì per essere selezionata, andando a formare un quartetto insieme a fotografi con una formazione più tradizionale; Emanuele Camerini, Jacopo Valentini e Filippo Steven Ferrara.
Durante la sua residenza, Erika realizzò una serie fotografica che mi stupì molto per un certo rigore tecnico al quale si affiancavano un sussulto e un rumore che rendevano mobile quella fotografia. Il titolo “Il gioco dei gesti” suggeriva, infatti, movimento e azione.
L’obbiettivo del progetto era quello di far interagire i giovani fotografi con il quartiere del Macrolotto zero di Prato, abitato in gran parte da cittadini di origine cinese. Ogni fotografo era accompagnato da alcuni giovani studenti cinesi che facevano da mediatori culturali tra gli artisti e la comunità.
Erika aveva realizzato una serie di scatti in alcuni luoghi più o meno anonimi del quartiere “cinese”, posizionando alcuni mandarini nei punti che lei riteneva interessanti. Le persone sparivano davanti all’obbiettivo e si creavano dei vuoti riempiti visivamente dai puntini arancioni del frutto.
A parte il gioco linguistico innescato dal mandarino (il mandarino è anche una varietà linguistica del cinese, costituita da diverse lingue e dialetti, utilizzato dal 70% della popolazione), Erika aveva dato inconsapevolmente vita anche a un gioco con i cittadini incuriositi da questi suoi gesti.
Quelle immagini silenziose, di architetture e periferie, erano riscaldate dall’azione che le aveva preparate.
Durante i talk del progetto La Via della Cina, che si sono svolti al Centro Pecci di Prato e al Macro di Roma (il progetto non prevedeva una mostra finale ma una tavola rotonda pubblica durante la quale gli artisti mostravano il lavoro insieme ad esperti), Erika ha raccontato quello che è successo durante lo shooting, mostrando anche alcune immagini di backstage in cui improvvisamente anche le zone più affollate del quartiere si svuotavano di fronte all’obbiettivo, per portare gli abitanti più curiosi a osservare stupiti e divertiti quello che stava facendo l’artista proprio dietro alla sue spalle.

Erika PellicciErika Pellicci, Self-portrait, 2019


AT - Che cosa contraddistingue la tua fotografia dall’informazione dei media?

EP - La mia fotografia non vuole essere necessariamente informazione, forse è questa impressione genuina che la porta fuori dall’estetizzazione continua della realtà. La fotografia dei media ha come finalità di informare sulle nuove tendenze o vendere un prodotto, personalmente sono interessata a seguire più un sentimento di contemplazione che di trend. Mi interessano le lunghe passeggiate, scoprire che dietro ogni angolo ci può essere un tempo fermo dove non accade assolutamente nulla e allo stesso tempo accade il tutto.

SB – Trovo che Erika sappia usare bene i nuovi social, e inserirsi in questo mondo con il suo lavoro. Forse perché per lei tutto è così vero che diventa immediato, e non premeditato. Sulla sua griglia di Instagram, e nelle sue stories, momenti quotidiani e immagini che poi finiscono in un lavoro, o in una mostra, sono accanto, in una racconto continuo in cui realtà e finzione non esistono più. In occasione della mostra collettiva Paesaggi personali, che ho recentemente curato alla Galleria Vannucci di Pistoia, ho avuto modo di conoscere persone e collezionisti che si sono appassionati al suo lavoro anche per questo modo diretto, e a volte un po’ duro, di comunicare attraverso i social. Sono diventati, o erano già, suoi follower.

Erika PellicciErika Pellicci, Il gioco dei gesti, 2018 (da La Via della Cina, a cura di Filippo Maggia, per Dryphoto arte contemporanea, Prato)


AT - Come adeguare il desiderio di realtà alla consapevolezza di produrre solo una rappresentazione, che si confronta con un visibile, trovato o costruito che sia?

EP - Non si adegua, è per questo che spero di riuscire in futuro ad andare oltre il mezzo visivo attraverso l’utilizzo di altri media per coinvolgere anche gli altri sensi.

SB - Quando ho pensato di coinvolgere Erika nella mostra collettiva 'Paesaggi personali' ho immaginato di inserire una serie fotografica, ma in quel momento aveva realizzato un video come lavoro finale per la tesi di laurea: Il luogo di origine. Me lo aveva mandato prima di consegnarlo per avere un parere, come si fa con gli amici per avere un feedback e ho pensato subito che sarebbe stato perfetto per la mostra, perché inseriva tanti elementi di riflessione sul paesaggio: il camminare, l’ascolto, il suono, il sogno, lo spostamento, la possibilità di essere o sentirsi altrove. Nel frattempo si è laureata e ha iscritto l’opera a un concorso: con quel lavoro Erika ha vinto la sezione video, e quando è arrivato in mostra non era più inedito. Rispetto ai suoi autoritratti, o ai nudi, l’artista qui è presente solo con la voce. Pensandoci bene, anche questo è un autoritratto. Qui dimostra la sua capacità di andare oltre il mezzo fotografico e di saper usare bene il video e il montaggio, con una perfezione senza sbavature. Ma a quella perfezione tecnica Erika riesce a dare un’anima, quel soffio che scalda e accorcia le distanze. Sono certa che riuscirà a trasmettere questo calore, di cui parla anche nelle risposte precedenti, anche nelle nuove ricerche che sta conducendo.

Erika PellicciErika Pellicci, Babbo, 2022


AT - Contro cosa prendono posizione le tue immagini?

EP - Le mie immagini vivono in una realtà sincera, per cui sento la necessità di andare contro una società che si permette di fare la morale sul corpo delle altre/altri.
Spesso le mie immagini creano disturbo e qualcun* si sente offes* di fronte alla nudità di un corpo.
Il corpo non è solo un organo riproduttivo e sessuale e la nudità non è un invito alla violazione di esso, e per violazione intendo morale, verbale non solo fisica. L’identità fisica è essere Natura: è tramite l’accettazione di questa che si esce dal mondo capitalistico che prova ad imporre uno standard di bellezza.
Sono contro la costante sessualizzazione del corpo dato dalla società consumistica, sono per il corpo libero.
Le mie immagini di nudo si confrontano e si pongono in dialogo con la Freikorperkultur o FKK, il movimento naturista tedesco che promuove il nudismo in un atteggiamento di rispetto per ogni tipologia di corpo, nato appunto per contrastare la società capitalistica che impone un costume per definire una determinata posizione sociale.

Erika PellicciErika Pellicci, Lost In Love, 2021


Erika Pellicci (Barga, Lucca, 1992), vive e lavora tra la Toscana e Berlino
Laureata in Pittura all'Accademia di Belle Arti di Firenze, ha poi conseguito un master in Fotografia all'Accademia di Belle Arti di Bologna nel 2020. La sua ricerca si concentra sulla relazione tra corpo e spazio, utilizzando l'esperienza performativa come testimonianza della realtà. Il mezzo principale che utilizza è la fotografia. Collegando il tempo e la vulnerabilità del presente, il suo lavoro si spinge nell'esplorazione di schemi relazionali intimi familiari, spesso legati al gioco e l'identità.

 

Erika Pellicci
Un dialogo. Artext, Erika Pellicci e Serena Becagli
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@ 2022 Artext

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