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Annamaria Ajmone
NO RAMA

 
Annamaria AjmoneAnnamaria Ajmone, NO RAMA, 2019. Foto di Luca del Pia



“Quando il cielo era ancora molto vicino alla terra, non c’era nulla nel mondo, solo umani e tartarughe”
Mito Aikewara


NO RAMA
Contemporaneafestival 2019


Artext - NO RAMA, costruito nell'arco di un anno dalle residenze a Cango, SpazioK, Arboreto, Armunia. Puoi raccontare di questo progetto e del formato delle residenze nel suo aspetto creativo?

Annamaria Ajmone - Quando incomincio a pensare ad un nuovo progetto inizio anche a pensare a quali sarebbero gli interlocutori possibili: persone con cui ho già un dialogo aperto, che seguono il mio lavoro, che hanno fiducia nella mia proposta; con alcuni c’è un sostegno produttivo, con altri sia produttivo che di ospitalità. Per quanto riguarda le residenze, il mio sguardo si muove a luoghi che possano essere familiari, o luoghi che possano essere adatti al tipo di ricerca in cui mi sto addentrando. I fattori da tenere presente sono molti e cambiano a seconda delle esigenze processuali. Fattori strutturali, ambientali, culturali. Alle volte ho bisogno di un teatro, con annessa tecnica, altre solo di una sala prove, altre solo di un wifi e di due scrivanie, altre una comunità con cui confrontarmi, altre di alcuni servizi che posso trovare solo in posti specifici. Non è scontato, non è semplice.

La residenza è un luogo di incontro, un tempo e uno spazio per noi. Questa è anche una pratica molto faticosa, sia nel bene che nel male, sia per chi la offre sia per chi l’attraversa. È importante aderire ai processi, non spingere, non imporre, rimanere nella problematicità e anche nel fallimento.

Per come è strutturato il sistema in Italia, è veramente un’impresa riuscire a fare un piano di lavoro lineare. In generale il lavoro viene costruito in periodi dislocati nel tempo, questo mi ha insegnato a pensare a vivere il tempo in altro modo, in cui le risposte a volte arrivano sfasate rispetto allo spazio di condivisione. C’è qualcosa che va avanti anche quando noi non siamo assieme. Alle volte è faticoso, quel primo giorno è sempre il primo giorno, due passi indietro per poi farne altri avanti.

Annamaria AjmoneAnnamaria Ajmone, NO RAMA, 2019. Foto di Luca del Pia


Artext - Quali i materiali di elaborazione, le fonti, le provenienze e i temi. Come hai elaborato la scrittura coreografica... si stratta di un montaggio, narrazioni e forme che diventano situazioni fluide e danza?

A.A. - La coreografia si sviluppa e si sostiene attraverso una serie di pratiche proposte e poi rielaborate in sala con le due danzatrici Marta Capaccioli e Lucrezia Palandri, con il musicista Francesco Cavaliere, la costumista Jules Goldismith, e Giulia Pastore che da anni colora e crea atmosfere ai miei desideri. Queste pratiche nascono da diverse suggestioni e visioni, letture, discussioni, avventure. Nello specifico della partitura coreografica: con Marta e Lucrezia abbiamo, insieme, trasformato il materiale teorico in principi fisici capaci di metterci in relazione, di costruire spazi da attraversare e infine da rendere vivi. Ci capita di stare a lungo su un unica cosa, proprio per assaporarne il lento quasi impercettibile mutarsi. E questo è ciò che mi piace di più, questa possibilità di sprigionare l’indicibile, di essere passato e futuro, assieme nel presente. Essere in quell’istante, nell’attimo. L’invisibile.

Tendenzialmente lavoro con pochi elementi, che poi piano piano costruiscono un montaggio, questo a volte accade naturalmente a volte, invece, avviene attraverso una forzatura maggiore che mi torna a livello concettuale. La visione e rielaborazione dall’esterno è fondamentale, non è molto semplice quando io sono dentro e fuori, Jules, Giulia e Francesco sono fondamentali in questo processo.

Annamaria AjmoneAnnamaria Ajmone, NO RAMA, 2019. Foto di Luca del Pia


Non so se parlerei di narrazione o, almeno, non nel senso del racconto. Offro la possibilità di fare un’esperienza. Affido allo spettatore il desiderio di addentrarsi, di rielaborare e mettere insieme, di farsi parte dello spettacolo. Questo so che può creare frustrazione, a volte. Con questo lavoro, che è l’inizio di una ricerca più ampia in atto da tempo e condivisa con altri artisti ed artiste attraverso scambi e collaborazioni, ho il desiderio di disorientare, che è un po’ la sensazione più forte che io provo di fronte agli argomenti che mi hanno fatta innamorare e mi hanno portato a NO RAMA. Una mescolanza di sensazioni tra la curiosità, la repulsione e il senso di abbandono mista al coinvolgimento, al pensare di essere dentro e invece essere fuori, al pensare di avere il controllo e scoprire, invece, di essere controllati. NO RAMA è un viaggio d’amore. Parla di alleanze, di biodiversità, di multi specie, alieni e parole nuove. NO RAMA guarda al futuro, consapevole della responsabilità che tutti abbiamo di creare nuovi spazi di immaginazione, di rivolta e di resistenza. Inizia con un segreto e finisce con una tempesta di cristalli e in mezzo deserti, afa, lucertole a tre teste, foreste, muschi e fossili.

Il nome viene da una assonanza fonetica con Diorama, Nocturama, Panorama: spazi artificiali che alludono al reale. Nelle prime pagine del romanzo Austerlitz di W.G. Sebald, il protagonista entra in un Nocturama, guarda gli abitanti di questo luogo e si domanda se al calare della notte vera, con la chiusura al pubblico del Nocturama, venga accesa o meno la luce elettrica, “affinché, al levarsi del giorno su quel capovolto universo in miniatura, potessero, in qualche modo tranquillizzati, sprofondare nel sonno". Mi aveva colpito questo passaggio. L’artificio, la vita capovolta. È qualcosa che mi parlava assolutamente dell’oggi. E così mi sono addentrata in una delle questione principali: come guardiamo quando guardiamo. È stato un processo di ricerca molto lungo, mi sono persa più volte, soprattutto nella fase di ricerca e scrittura, persa tra le fonti: molti romanzi di speculative fiction, fantascienza, teorie scientifiche, ecologia politica, saggi etnografici, molti articoli e scambi. Nello stesso periodo ho incominciato a lavorare per un altro progetto A T T I K A, insieme alla compagnia romana Industria Indipendente e grazie al sostegno e alla fiducia di Armunia; le tematiche sono le stesse, e questo multi dialogo è stato l’inizio di un processo tuttora in atto, che si manifesta attraverso diverse forme e ed esperimenti dove viene messa in discussione la struttura stessa del nostro fare. Un processo che necessità tempo e studio, discussione, e collettività, che permetta di spostarci dalla nostra posizione e cambiare sguardo e linguaggio. Se ci spostiamo dalla zona di confort, e da molti stereotipi cui siamo stati abituate e abituati allora molte delle parole e dei concetti con cui nominiamo ed analizziamo ciò in cui siamo immersi perdono di valore. Diciamo che è l’inizio di una rivoluzione collettiva. Per citare *Donna Haraway “il nostro compito deve fare disordine e creare problemi, scatenare una risposta potente dinanzi ad eventi devastanti, ma anche placare le acque tormentate e ricostruire luoghi di quiete”.
* Chthulucene Donna Harawy, Nero.

Annamaria AjmoneAnnamaria Ajmone, NO RAMA, 2019. Foto di Luca del Pia


Artext - È una mutazione in atto, in continuo all'ambiente...

A.A. – Sì, NO RAMA è un microcosmo, un cosmorama, mutevole ed alterato, diverse forme di vita lo abitano, umani ed extraurbani, creature, muffe e batteri generatori di nuove forme di vita, il tempo è multiplo e sovrapposto, un po’ come se si potesse viaggiare velocemente nel tempo. C’è qualcosa di profondo che ha a che fare con la memoria, e con il modo in cui la processiamo. NO RAMA non è sulla terra ma è con e dentro la terra. Sopra e sotto, dentro e fuori.

Annamaria AjmoneAnnamaria Ajmone, NO RAMA, 2019. Foto di Luca del Pia


Artext - Il lavoro del performer: studi sulla corporeità, un sistema di sensi in relazione cognitiva, restituzione spaziale ed immaginifica di un training performativo. Mi puoi descrivere le pratiche che avete attuato, e sul lavoro di preparazione?

A.A. – Non ho una metodologia univoca. In questo caso prima di incontrare le danzatrici e tutto il gruppo ho lavorato per un po’ di tempo da sola. I processi con cui si costruiscono e si trasformano le pratiche sono i più diversi e spesso arrivano in modo imprevedibile, in forma di intuizioni. Segnali incomprensibili che poi si manifestano nel loro profondo senso. Per esempio una delle prime suggestione da cui è nata NO RAMA sono state le pietre che ho trovato in un viaggio a Tataouine, alle porte del Sahara, località famosa perché hanno girato Guerre stellari: è un posto speciale. Durante una gita c’era un uomo che vendeva una serie di cose tra cui tantissime rose del deserto, immagino le vendesse ai turisti, anche se a parte noi non ne vedevo molti. Mi piacevano, ne ho comprate tantissime, e le ho portate in sala prove. L’oggetto mi piaceva, la forma, la consistenza, il fatto che a seconda di come lo guardavi prendeva forme differenti, così ho cominciato ad appoggiarle sul corpo, a provare a muovermi con queste pietre. Questo oggetto deformava le mie possibilità di movimento e spostava continuamente la mia attenzione dall’oggetto alla sua proiezione esterna. Questo mi costringeva anche a variare l’organizzazione tecnologica del mio corpo negli spostamenti. E' una pratica che poi ho condiviso con Marta e Lucrezia e a partire dalla quale abbiamo poi elaborato tutto uno spazio.

Un’altra pratica è nata durante un laboratorio, sempre con questa idea della rosa del deserto. Ho immaginato che più corpi vicini potessero, muovendosi assieme, creare l’effetto della rosa quando viene ruotata. Poi ho chiesto di aggiungere la parola, di muoversi raccontandosi delle cose all’orecchio, qualcosa di importante. E in quel momento ho iniziato a vedere qualcosa che mi interessava. Aveva a che fare con il mistero e il corpo diventava molto più asciutto e forte e naturale: impegnato in troppe cose, non poteva che essere necessario. E la voce diventa un gesto. Inoltre tutto mi tornava, il segreto aveva a che fare con la formazione delle rose del deserto, che si creano sotto la sabbia, di nascosto. È dentro la terra e poi sopra la terra. E inoltre era chiaro questo concetto di comunità, di cooperazione. Tutte parole che sentivo vicine.

Annamaria AjmoneAnnamaria Ajmone, NO RAMA, 2019. Foto di Luca del Pia


Artet - Privegi impulsi che diventano immagini, forme di scrittura che si basano su codici propri, o relativi alla modificazione continua della presenza?

A.A. – C’è una parte, quella del deserto, tutta immaginata in verticale e in parte rovesciata: c’è un riferimento abbastanza chiaro alle piante e anche, quasi in maniera didascalica, al romanzo “La Vegetariana” di Han Kang. Per me questo nasce da un desiderio profondo di dichiarare la necessità politica ed umana di ribaltare lo sguardo rispetto ciò in cui siamo immersi e con cui ci mescoliamo.

Artext - In alcune pratiche orientali si usano le pietre per attivare e diffondere energie, psichiche e ancestrali.

A.A. - In qualche modo è così ma io questo aspetto non lo conosco e non mai rientrato nella mia ricerca. Le pietre mi interessano di più per la loro forma e per la possibilità di immaginare storie incredibili sul loro stare sulla terra, di trasformarsi e splendere.

Annamaria AjmoneAnnamaria Ajmone, NO RAMA, 2019. Foto di Luca del Pia


Artext - Lo spazio scenico circolare in cui agite ritraccia elementi della ciclicità, dell'essere comunitario e dell'umano, uno spazio primitivo e sensibile di propagazione e diffusione di un atto, un gesto creativo, un soffio che si propaga..

A.A. – All’inizio noi tracciamo un semicerchio, che continuiamo a delineare per un po’ rintracciando lo stesso percorso. Per me è importante che il pubblico possa stare intorno, non credo per forza in un cerchio che si chiude, potrebbe essere su tre lati, abbiamo immaginato e sviluppato tutta la struttura e la drammaturgia sonora, in modo tale da poter creare volumi nello spazio e quindi di essere sia davanti che dietro allo spettatore, vicino e lontano. Si riempie e si svuota. La coreografia, invece, viaggia su tre livelli da subito dichiarati e ha un’intensità di variazione meno frequente di quella sonora. C’è un margine di variazione e di imprevedibilità sia nella partitura musicale sia in quella coreografica. Per me l’imprevedibile è necessario, forse è uno degli aspetti a cui sono più fedele sia nel momento della ricerca sia nella situazione da costruire e da gestire durante la performance. Qualcosa che sfugge, che va accolto in quel momento e che non può essere replicato. Le rose spinner, che abbiamo ideato e realizzato, sono delle creature sonore che abitano lo spazio con noi e le pietre. Vivono di una loro vita, cambiano colore, direzione, velocità, creano la danza, creano con noi la parola. La danza è la relazione e la messa in gioco di tutti questi elementi tra di loro.

Annamaria AjmoneAnnamaria Ajmone, NO RAMA, 2019. Foto di Luca del Pia


Artext - La struttura ricorda comunque un diorama e gli effetti magici di sovraimpressione.

A-A. – Il riferimento iniziale è quello. Mi piaceva l’idea che paesaggi si sovrapponessero, come poter viaggiare molto velocemente in luoghi e tempi differenti. Noi creature, fossili, ci ritroviamo con tutta la storia sulle spalle a viaggiare per milioni e milioni di anni. NO RAMA è un luogo indeterminato e multitemporale.

Per esempio i costumi curati da Jules Goldismith parlano di questa stratificazione, sono immaginati attraverso diversi materiali e diverse tonalità di colore, così da poter caratterizzare creature di qualsiasi tempo e qualsiasi luogo. Jules ha fatto una ricerca incredibile, non volevamo che fossero riconoscibili o identificabili con un periodo storico preciso o locale.

Annamaria AjmoneAnnamaria Ajmone, NO RAMA, 2019. Foto di Luca del Pia


Artext - Si insinua cosi il sentimento del presagire...

A-A. – Mi piace insinuare nello spettatore qualcosa che sta per arrivare. Ed è il motivo per il quale lo spazio sonoro è pensato in maniera così imprevedibile, le fonti, alternandosi, ti sorprendono sempre. Questo è fondamentale per noi: la nostra percezione del suono varia continuamente, per tutta la prima parte ci sussurriamo dei segreti, delle storie e sia il suono/gesto e dove ci sposta, sia il valore semantico di quello che ci diciamo, fanno in modo di immergerci in uno spazio completamente vivo. Immagino sia lo stesso per lo spettatore, questo sentirsi un po’ tirato dentro e un po’ cacciato fuori.

Artext - Il sonoro non è solo traccia o commento di gesti e azioni...

AR – Assolutamente. Francesco Cavaliere, musicista e visionario che ha seguito tutta la parte sonora, ha costruito una partitura per 6 mini speaker, ognuno di loro ha una sua traccia, noi li accendiamo tutti assieme, ma chiaramente c’è un margine di delay, quindi la composizione è sempre minimamente diversa. Così anche per tutta la parte che arriva dagli speaker più grandi esterni. A questo si aggiungono i suoni che produciamo noi, sia con i sussurri che con il corpo.

Annamaria AjmoneAnnamaria Ajmone, NO RAMA, 2019. Foto di Luca del Pia


Artext - Come in Tiny le partiture dei movimenti sembrano scaturire da un'immaginario poetico. In quel caso hai pensato in un assolo, il corpo archivio popolato da memorie e spazio circostante. In NO RAMA si assiste partecipi di un respiro al formarsi e disfarsi di mondi e soltanto la considerazione di una nuova era permette alla visione di stabilire un reale contatto al presente. Che considerazioni e riflessioni dopo la prima esecuzione per Contemporanea 2019?

A.A. – Le prime sono sempre l’inizio di qualcosa. Sarebbe importante si facessero più repliche dei lavori perché lo spettacolo deve rapportarsi con un pubblico, è un momento importante. In genere la prima è solo un momento che ti fa capire tante cose e da lì, poi, inizia un viaggio che porta veramente alla nascita di un lavoro. Inoltre NO RAMA, non avendo una struttura tradizionale come formato, più di tutto necessitava un incontro/scontro. La prossima data sarà il 18 di Aprile nel Festival Fog in Triennale a Milano.

Artext - Di spettacolo in spettacolo si sta definendo sempre l’idea di un progresso del linguaggio coregrafico che si confrontanta con le ispirazioni più forti di una proposta estetica complessa. Come è cambiato il tuo approccio rispetto al codice fin dalla singolare molteplicità dei corpi, la loro intensità energetica, il loro statuto esperienziale? Cosa mostra il tuo procedere?

A.A. – All’inizio c’era più istinto e meno consapevolezza del mio procedere, è normale, era un istinto selvaggio, passionale, con la pratica le cose si modificano un po’, ma secondo me nulla è perso, ci trasformiamo solo. Più mi addentro nei processi, più imparo, più la singola ricerca si concentra in maniera tentacolare in zone di interesse specifiche sia riguardanti le pratiche del corpo, sia nella parte teorica, più la capacità di spostare l’occhio dall’interno all’esterno si rende efficace e più per me è fondamentale ricordarmi il primo amore. Nelle pratiche del corpo, nella danza, bisogna perdersi o meglio disperdersi.

Annamaria AjmoneAnnamaria Ajmone, NO RAMA, 2019. Foto di Luca del Pia


Artext - Si sta affermando una tua disposizione all'insegnamento di pratiche e alla trasmissione di saperi. Come ti poni nei confronti di realtà dedite al processo e alla ricerca?

A.A. – A me piace la dinamica dello scambio, proprio per l’idea di spostarsi da se stessi e fare spazio all’altro, in questo modo diventiamo fragili e vulnerabili, è una bella condizione, una possibilità di crescita. Nobodys Indiscipline, che rendo possibile insieme a Sara Leghissa da 5 anni, ma che esiste e vive grazie e solo agli artisti e artiste che accolgono la nostra proposta e con noi lo immaginano, è un esempio pratico di quello di cui parlavo qui sopra. È un progetto che si fonda sullo scambio di saperi e sulla messa in discussione delle nostre certezze, oltre ai suoi mille altri aspetti. È un problema che problematizza e per questo a mio avviso fondamentale.

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Artext - Quale futuro per le arti non rappresentative e lo spettacolo dal vivo? cosa può cogliere delle arti visive, il tuo fare danza?

A.A. – Sono attratta soprattutto dalle ricerche ibride, quei lavori che sono difficilmente collocabili e definibili. Il corpo crea immagini, queste immagini respirano, creano spazio e il ritmo. Lavorare negli spazi espostivi o in luoghi non composti da una scena e una platea spesso facilita questa esperienza. Il pubblico è meno stressato dall'idea di dover seguire la consequenzialità dell'accadimento, è partecipe di immagini che si trasformano, entrano in relazione tra di loro, costruiscono e de-costruiscono lo spazio inglobando lo spettatore. La danza è in grado di mostrare oltre lo spazio predefinito, muove lo sguardo.
NO RAMA per esempio è un lavoro che non immagino solo nel suo formato per il teatro, il mio sogno sarebbe farlo in uno spazio immenso, magari attivo molte ore, un micro ecosistema concentrato in un punto, da poter guardare sia da lontano sia da vicino. Stiamo anche immaginando di prendere solo una singola parte, dislocarla, e farla vivere nel tempo in altro modo. Questo solo per dire che ogni oggetto artistico ha una sua vita propria e alcune volte questa sua vita è fatta anche di mutazioni, la sua potenza non cambia ma si trasforma.
Nel 2020 insegnerò, su invito di Ilaria Mancia e Cesare Pietroiusti al Master PACS - Master Arti Performative e Spazi Comunitari, sono felicissima e molto onorata. Per me è un'esperienza importante in cui posso concentrare e trasmettere tutta una serie di pratiche e studi provenienti da diversi linguaggi che sono tutt'ora vivi e attivi nella mia ricerca. Il tempo dedicato al confronto è un tempo fondamentale.


 

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