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Marco Scotini  
Per una genealogia "moderna" dei molti  
 
   
 

 

STUDIO
     



Recentemente il filosofo Reinaldo Laddaga ha cercato di individuare alcuni precedenti di base alle iniziative di artisti e di collettivi artistici che, sorti con il nuovo millennio, sono oggi impegnati su scala globale nella definizione di un nuovo rapporto tra spazio pubblico e produzione sociale. I progetti del teatro proletario a Mosca o a Berlino negli anni Venti, i nuclei di artisti lavoratori a Parigi o a Rio de Janeiro negli anni Quaranta e Cinquanta, i movimenti degli spazi alternativi a New York degli anni Sessanta e Settanta rappresentano per Laddaga un primo catalogo di precursori possibili ma non tali da spiegare completamente il fenomeno attuale delle comunità artistiche sperimentali e dei processi collaborativi che esse attivano (1).

 

Martha Rosler, riproponendo la scena della controcultura americana - dalle West Coast women come Suzanne Lacy e Laslie Labowitz ai gruppi musicali come Mothers of Invention, e ai collettivi newyorkesi - , ha parlato invece del nuovo tra arte ed attivismo inaugurando con Seattle come di una sorta di ritorno "ambiguo" all'arte poilitica anni Sessanta, consigliando ai nuovi protagonisti di rileggere Adorno come deterrente per una deriva mainstream del fenomeno.
Oggi, per Martha Rosler, non solo sarebbe necessario ma addirittura indispensabile riaprire il dibattito rimasto interrotto tra Adorno, Brecht e Benjamin sulla strumentalizzazione dell'opera d'arte nell'epoca dell'industria culturale tardo capitalista (2).

 

C'è che ha trovato nei concetti chiave elaborati dal situazionismo - quali détournnement, regime spettacolare, urbanistica unitaria - il punto di partenza per una ipotetica genealogia della scena artistica attuale, c'è chi, come Suely Rolnik, ha arretrato questo punto al movimento antropofagico brasiliano degli anni Venti che dunque, come tale, non può essere visto esclusivamente quale precedente di tutte le formazioni di avanguardia brasiliane successive ma come premessa metodologica ad una globalizzazione dell'arte dal basso.
Nella pratica dell'antropofagia il colonizzato invece di accettare la propria condizione come subalterna e di sottomettersi alla cultura dominante, "canibalizza" gli elementi della cultura del colonizzatore come forma di appropriazione, di adattamento ai rapporti locali e di decostruzione del discorso egemonico (3).

 

Rolnik orienta il suo sondaggio archeologico a partire della nozione di "soggettività flessibile" che trae dalla contrapposizione formulata di Brian Holmes tra "personalità autoritaria", come tipica figura della modernità, e "personalità flessibile", come nuovo soggetto politico e sociale che si afferma con il progressivo sviluppo della tecnologia informatica e con quello di una conseguente "classe virtuale". C'è chi invece ha spostato gli inizi del dibattito artistico ed estetico contemporaneo a partire dal movimento di azione culturale rivoluzionario argentino Tucuman Arde, che alla fine degli anni Sessanta ha concepito l'arte essenzialmente come pratica politica proponendo tre diversi livelli di strategia operativa: uno sociologico relativo a come documentare la crisi economica nella provincia argentina, uno controinformativo sui modi di comunicare la crisi e l'ultimo relativo agli spazi d'arte e, dunque direttamente espositivo.

Per parte loro, Catherine David e Jean-Francois Chevrier - forse per primi e da una prospettiva programmatica - hanno rivisitato una sorie di eventi tra il 1945 e il 1997 che sono caratterizzati da una dimensione di critica radicale ad un modernismo dogmatico e riduttivista, alla fondazione antropologica della cultura Occidentale, alle categorie e alle gerarchie dell'arte e della conoscenza.

 

Artisti come Marcel Broodthaers, Hélio Oiticica, Oyvind Fahlstrom, architetti come Aldo von Eyck, fotografi come Garry Winogrand e Hellen Levitt sono alcuni dei protagonisti di questo nuovo racconto che presenta se stresso come alternativa fondamentale all'interpretazione avanguardistica del Novecento (5).
A partire da queste proposte di continuità storica non c'è chi non veda come la ripresa attuale del progetto culturale modernista - come emancipazione sociale, critica istituzionale, domanda di democrazia, relazione tra arte e realtà - difficilmente possa collocarsi entro le premesse e gli sviluppi della modernità artistica stessa.

 

Attraverso queste formazioni e genealogie multiple, sotterranee e multiple, che sono il risultato di differenti modelli di osservazione, risulta impossibile vedere le pratiche artistiche emerse negli ultimi anni come una diretta emanazione del background modernista, oltre l'interruzione dell'era della deregulation reaganiana, dal "There is no alternative" di Margaret Thatcher, del relativismo di tutti i valori degli anni Ottanta. Ma non si tratta di verificare più o meno le condizioni di una storia lineare della modernità: i suoi fenomeni di persistenza, le forme di ricorrenza dei progetti,di aspirazioni, di parametri. Non si tratta neppure di verificare se la modernità è andata in polvere una volta per tutte, come ha già detto Appadurai.
Tanto meno di decostruire l'immagine unitaria dalla tradizione delle avanguardie artistiche del Novecento nel momento in cui si cerca di formulare una possibile genealogia del nuovo spazio di politicizzazione che ora si sta aprendo con la relazione recente tra pratiche artistiche e istanze attiviste. L'impressione generale è che anche le dinamiche di emancipazione e il discorso di critica radicale che il dibattito estetico e artistico contemporaneo solleva non siano più così "moderni" e che abbiano, cioè, referenti diversi (i "molti" invece del "popolo") spazi di interventi (il "quì ed ora" determinato rispetto al luogo deputato), obbiettivi diversi (la fine dell'utopia) oltre alle molteplici strategie messe in opera per raggiungerli.

 

Venuta meno la cornice socialista e ormai all'interno di un regime produttivo totalmente trasformato come quello postfordista, è possibile che i termini del problema siano ancora gli stessi? Non c'è nessuna differenza visibile tra le dimostrazioni degli Art Workers' Coalition e le proteste o escraches (exposure protests) del Collettivo Excetera?
Tra la strategia di "The People's Choice" (1981) di Group Material e quella del " Wunscharchiv" (Archivio del desiderio) (1996) del gruppo Park Faction? Tra la messa a nudo della "corporation culture" da parte di Hans Haacke e la cartografia delle magli nascoste del capitalismo da parte di Bureau d'Etudes?
Tra la messa in scena della xenophobia in Adrian Piper o in Black Audio Film Collective?

Nel tempo del "lavoro immateriale" - secondo la definizione di Maurizio Lazzarato (6) - non solo non è possibile conservare una rigida divisione tra produzione intellettuale, azione politica e cultura: è addirittura impensabile distinguere il lavoro dal resto dell'attività umana. Se nel regime fordista, come dice Paolo Virno (7), l'intelletto restava fuori dal ciclo produttivo, nel postfordismo attuale - al contrario - lavoro e non-lavoro sviluppano una identità produttiva basata sull'esercizio di generiche facoltà umane come il linguaggio, i sentimenti, la socialità, l'estetica, etc.

La differenza allora tra le forme della disobbedienza civile anni Sessanta/Settanta e le pratiche insurgent della scena artistica attuale diventano immediatamente comprensibili.Non è un caso neppure che le forme del neomovimento contemporaneo così come quelle dell'attivismo artistico attuale si definiscano proprio a partire da uno sfondo comune caraterizzato dalla fine del Politico.
Il differente rapporto giocato con la rappresentanza e il potere è così il vero discrimine tra l'arte politica degli anni Settanta (o più genericamente modernista) e quella attuale.

 

Non c'è più l'aspirazione a impadronirsi dello Stato (o dei suoi istituti come il Museo, il Partito, il luogo del Lavoro, etc.), piuttosto un'attitudine a difendersi e a uscire da esso è ciò che caratterizza la situazione attuale. In questo senso la rappresentazione del dissenso contemporaneo si manifesta non solo e non tanto come critica teorica o proposta attiva quanto come definizione, esodo,uscita. "Exit" come avrebbe detto il sociologo Albert O.Hirschmann, non "Voice", abbandono anziché scontro. Ricerca di nuovi spazi d'intervento di pratiche costituenti, di micro-azioni su scala locale, di forme di autogestione, di empowerment.

 

La critica istituzionale del Museo è ciò che accomuna Broodthaers, Haacke e altri artisti del periodo. Molta della energia degli Art Workers' Coalition è stata spesa negoziando co i musei: quando fanno un'incursione con il loro poster "Aad Babies?" contro la guerra del Vietnam nella sala del MoMA con Guernica e quando nel 1970 distribuiscono il loro statement con le richieste ai musei americani in 12 punti in cui chiedono ingressi liberi, l'estensione delle attività espositive nelle comunità nere e portoricane, l'appoggio delle donne artiste, etc. Così anche quando per la mostra "The People's Choice" Group Material chiede agli abitanti del quartiere ispanico sulla East Thirteenth Street di New York di scegliere una sorta di oggetti da esporre che abbiano un significato per loro e per le loro famiglie, ha ancora come referente il museo e il suo ruolo ufficiale.
Al contrario, quando Park Fiction richiederà agli abitanti del quartiere St. Paul in Amburgo di visualizzare i propri desideri, ciò sarà rivolto alla definizione di un progetto di costruzione collettiva di un parco urbano lungo le rive dell'Elba.
Così nel 1917 Marcel Duchamp presenta a New York la sua opera "Fountain" per esporla presso la Società degli Artisti Indipendenti: uno orinatoio rovesciato ed enigmaticamente firmato "R. Mutt".
Nel 2005, al contrario, Marjetica Potrc, realizza una vera toilet (Dry Toilet) nel barrio Las Vega a Caracas confrontandosi con le pressioni della città informale e inaugurando un nuovo rapporto tra architettura tale da spostare le facoltà d'intervento dalla istruzione pubblica alle iniziative individuali (8).
Dry Toilet è un powerfull tool per un'arte della sopravvivenza o una sorta di tactical media come quelli a basso costo e fai-da-te proposti dai medioattivisti?

Molti altri casi potrebbero ancora testimoniare lo spostamento da una rappresentazione univoca del ruolo dell'autore alle attuali forme mimetiche, rizomatiche e impreviste che questo viene ad assumere così come una grande trasformazione si registra nella definizione delle piattaforme flessibili e aperte degli attuali workteam artistici in cui figure eterogenee si confrontano per discutere, progettare, operare: dal gruppo danese Superflex a quello di San Pietroburgo, Chto Delat?/What in to be done?

Credo che proprio rispetto al rapporto tra arte e politica uno spostamento radicale dalle istanze della modernità si è registrato. Non solo pensando al rapporto dissolto dall'avanguardia tra arte "pura" e "politica". ma anche al differente ruolodell'engagement politico nell'arte così come è rappresentato nella teoria di Luckacs o in quella di Adorno e cioè nella concezione di un opera d'arte organica o in un'opera d'arte d'avanguardia (9).
Oppure se penso che ancora in Benjamin la posta in gioco è tra la politicizzazione dell'arte, o la estetizzazione della politica in cui l'una è subordinata comunque all'altra o viceversa.

 

Oggi sia che partiamo dalle teorie di Jacques Rancière o di Bernard Stiegler sulla questione del sensibile come momento d'incontro tra estetica e politica sia che l'approccio metodologico appartenga alla tradizione dell'operaismo italiano, e dunque si fondi sulla trasformazione del processo di produzione contemporaneo, la dimensione del rapporto si gioca nell'immediata coincidenza tra lavoro e percezione, tra produzione materiale e intellettuale, tra struttura e sovrastruttura.
A questo punto le domande fondamentali mi paiono allora quale modello di rappresentazione dei "molti" si contrappone e si sostiyuisce al declino delle immagini unificanti delle appartenenze moderne di classe, popolo, nazione, razza e religione?
Che cosa si sostituisce all'idea di utopia? E' possibile l'invenzione di organismi politici non rappresentativi, cioè di un livello di democrazia non rappresentativa?
E' ancora possibile separare le storie convergenti dei movimenti artistici della formazione dei nuovi protagonisti sociali? I luoghi rispettivi della loro produzione? Se lo zapatismo dichiara che il proprio luogo non è la fabbrica ma le profondità sociali, possono le pratiche artistiche rivendicare un proprio luogo di produzione?
La tematica della comune di Parigi e la tematica dei soviet - ha detto di recente Paolo Virno - diventa realistica solo ora, solo a queste condizioni di sviluppo scientifico, intellettuale, comunicativo (10). Ma forse si tratta ancora di un problema di genealogia.

 

1 R. Laddaga, Art and Organizations, in Shifting Map, NAi Publishers, Rotterdam, 2004, pp.16-21.
2 M.Rosler, Out of the Vox, in "Artforum" September 2004,pp218-219.
3 S.Rolnik, Anthropophagy Zombie, in Collective Creativity, Revolver, Frankufurt am Main, 2995, pp.205-218.
4 B.Holmes, The Flexible Personality, in Hieroglyphs of the Future, Zagreg,2002.
5 C. David, Poetic Polics, Documenta X, The Book, Cantz Verlag, 1977.
6 M. Lazzarato, Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione immateriale, Ombre Corte Edizioni, Verona 1997.
7 P.Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanea, DeriveApprodi, Roma 2002; Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica, ombre corte/cartografie, Verona, 2002.
8 M. Scotini, L'etica del bricolage. DryToilet, in "Domus", in 891, Aprile 2006, pp.88-91
9 P.Burger, Avanguardia e engagement, in "Lettera internazionale", anno 3, n 8, Primavera 1986, pp.34-39.
10 Exodus, Uniqueness and Moltitude, interview with Paolo Virno by Marco Scotini, in Disobedience, Fine Arts Unternehmen, Lugano, 2005, pp. 3-4

 

Testo:
. Coming Conflicts. Artistic pratices in conflict places.

 

 
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