Vista installazione A4 564 wallpaper 405x250cm Srisa Contemporary Art Gallery Foto Gloria Marco Munuera
Pietro Gaglianò
Su Marta Dell’Angelo
 
 



1. La prima immagine ha direttamente a che fare con la storia dell’arte, con la pittura toscana.
E non precisamente con il Cinquecento di Michelangelo e manierista, come nell’immediato sembrerebbe per la torsione delle braccia costrette dall’architettura, quanto piuttosto con il mondo tardo antico, con quel proto umanesimo fiorentino che non esita a concedersi esplorazioni metafisiche dello spazio. Il Cristo deriso che Beato Angelico ha affrescato nel convento di San Marco è stato centrale nel dialogo intrecciato con Marta nel corso dei suoi passaggi a Firenze. Le mani sospese attorno al corpo sacro sono il complemento indispensabile per la salvezza del mondo, proprio come il bacio tragico di Giuda e il suo suicidio, e come se questa salvezza avesse bisogno del male necessario, di un traditore, di un’umanità abietta abbastanza da ingiuriare e trucidare il proprio salvatore.
L’unica verità che ne viene fuori riguarda proprio la supremazia del corpo e la sua capacità di essere significante: le membra schiudono un alfabeto comprensibile all’intera comunità contemporanea al suo autore, anche la meno alfabetizzata (è irrilevante, qui, il fatto che l’affresco si trovi in una cella conventuale). E oltre. Le mani del Beato Angelico si staccano dallo sfondo senza tempo di un insolito verde in cui fluttuano e diventano universali, lemmi che si storicizzano di volta in volta, sottraendosi all’astrazione del simbolo.

 

 

 

  Beato Angelico

                                    Beato Angelico, Cristo deriso, affresco, 1438-40
                                   Convento di San Marco, Firenze

 


2. Questo ci porta alla seconda immagine, che è un’immagine in movimento.
Su un fondo nero, compatto come il velluto, si muovono due o tre mani, nel succedersi delle varie parti in cui si svolge il video che Ketty La Rocca presenta alla Biennale di Venezia del 1972. Appendice per una supplica fa parte di una serie di lavori realizzati sfruttando diversi linguaggi e incentrati sull’eloquenza del corpo e sull’espressività del gesto. Le mani emergono da un buio denso e mettono in scena incontri e conflitti: i movimenti alludono al linguaggio verbale, lo prolungano e, come indica il titolo lo completano; nell’ultima parte del video finiscono per esautorarlo.
Il corpo umano possiede questa inesauribile possibilità di produrre spazi di creazione di senso senza sottomettersi ai condizionamenti culturali. Al di sopra di tutto quello che con un corpo si può raccontare c’è il suo valore originale, un campo di significati primario che contiene se stesso, la propria contraddizione, e la rivendicazione continua della propria autonomia semantica rispetto alle appropriazioni indebite che ne vengono fatte.
In principio, molto probabilmente, era il corpo. E il suo costante ricentramento nelle esperienze dell’arte contemporanea ci assicura che ci sarà fino alla fine, e anche dopo, in una specie di compimento, nella riacquisizione del suo essere misura di tutte le misure. Il corpo precede il linguaggio, e il linguaggio è una sua epifania. E il linguaggio è utile per definire il corpo in un altro tempo, che non è quello positivista della scienza né quello metodologico delle storiografie, ma si attua in una dimensione che impone la moltiplicazione del punto di vista. Ecco perché il corpo si storicizza di continuo (e non appartiene al mito), perché entra nella storia stessa da ogni direzione, annulla le retoriche che lo imbrigliano nelle narrazioni di potere, e si rivela come spazio politico.
E questo ci porta alla terza immagine.

 

  Ketty La Rocca

                   Ketty La Rocca, Appendice per una supplica still da video, 1972

 

3. La terza immagine sono molte immagini.
Sono le figurazioni del corpo che scorrono nel lavoro di Marta Dell’Angelo, e potremmo dire che sono esse stesse il corpo.
Dunque la terza immagine è il corpo che, tra moltiplicazioni e rarefazioni, è sempre quello dell’artista, assertivo e volontariamente politico, cioè condiviso, riferito a un’area di confronto che appartiene non a pochi ma a moltissimi. La sua sovraesposizione fa sì che le forme e le figure si inoltrino nel mondo elettrizzando il piano della rappresentazione (e la tecnica dei fogli sovrapposti e vibranti ne è solo una semplificazione), ed entrino nel mondo, tornino al mondo contravvenendo molti codici – iconografici, formali, relazionali. È in questa maniera che il corpo, e la sua immagine, aprono un paesaggio anche politico: in modo molto chiaro Marta rimette al corpo quel valore originario, umano, asciutto e sessuale, che solo così può proporsi in funzione dialettica rispetto alla storia. Il passaggio del corpo nell’arte lascia sempre un solco, come il tunnel scavato sotto terra da un animale cieco, incerto, le pareti e i bordi pericolanti, necessariamente da ricostruire o da abbattere. Osservando il suo lavoro (la pittura, le performance, le grandi installazioni) questo desiderio di ordine si frammenta in una serie infinita di interrogativi che l’artista fonda sul diritto di poter sparigliare le carte, di sovrapporre l’estensione fisica a quella intellettuale.
Nelle opere di Marta la percezione sensoriale è strettamente annodata alla decodifica che l’osservatore è spinto a fare fondandosi sui propri dati culturali, e tutto questo genera strani cortocircuiti. La composizione (quasi) monumentale presentata a Firenze vede il disegno sottrarsi alla compattezza della bidimensionalità; oscilla nello spazio e si contrappone alla continuità dello sguardo. All’estremità inferiore del bosco di braccia, come l’artista lo ha definito descrivendolo, la visione delle mani viene bruscamente negata, proprio nel passaggio in cui comincia a chiarirsi la loro funzione, la loro intenzione: queste mani “non si sa se scavano, toccano, massaggiano”. È l’opposto di quanto accade nelle prime due immagini proposte in questa riflessione, dove il gesto si tronca appena sopra il polso, e nega la conoscenza del braccio, del corpo intero e dell’identità. In questi due casi la mano si sostituiva al suo possessore, rappresentandone l’interezza in una sola parte. Le braccia nell’opera di Marta invece aprono e chiudono l’intervallo di una contrazione, uno sforzo che non rilascia ma si strozza – quasi come – trattenendo il respiro, eppure plastico, senza rigidità. Le forme si rapprendono lungo il margine del tempo di chi le osserva, e estendono in un’altra direzione nuovi desideri, e una potenza irrisolta che coincide con la negazione del piacere della completezza. L’arte per forza deve trascendere la completezza, perché non punta mai all’appagamento, ma innesca esperienze che cambiano la superficie della realtà.
E questo, per i non tantissimi artisti che riescono a farlo, è un modo unico (anche se non l’unico modo) di essere politici: l’opera di Marta riesce a mantenere molto saldo, e altissimo, il confine tra creazione artistica e manifesto, tra rappresentazione e azione, sporgendosi verso la divagazione salvifica del fantastico – di un gioco da bambini, di un’invenzione audace, di un mistero senza soluzione.

Pietro Gaglianò



  Website    - SRISA Gallery -
2015 © Artext