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Artext incontra Luca Pancrazzi 

 

Artext - Da dove prende inizio il "fare arte" di Luca Pancrazzi
Dall'inaspettato, da una forma di innocenza..

Luca Pancrazzi - Ho sempre pensato e visto la mia vita in questi termini: il mio fare è funzionale al pensare.
Non ho mai distinto le due cose e spesso questo modo empirico di approcciare il mondo ha messo in evidenza e allenato quei pezzi di muscolo cerebrale diffuso distribuito negli intestini e in altre parti del corpo fuori dalla testa.
Il corpo è al contempo la mia mente. Le mani e gli occhi pensano mentre il cervello vede e tocca.
Quindi l'esperienza di vedere il mondo è stata fatta e vissuta attraverso il fare, attraverso il disegnare, attraverso l'osservazione del mondo disegnandolo e al contempo ri-proiettandolo verso il mondo stesso.
Una sorta di azione duplice che prevede una prima fase di metabolizzazione della visione e al contempo una ri-proiezione verso il fuori di tutto ciò che più intimo e interno si possa ribaltare.
Mi piace pensare che quando osservo qualcosa proietto dei pezzi di me fuori, verso il soggetto osservato. Non sono più io che osservo il soggetto, ma sono piuttosto il soggetto che vede me in osservazione.
Mi proietto dentro e fuori continuamente.
Questo è il mio esercizio da cui prendono inizio le possibilità del fare arte.


A. - La realizzazione di questo spazio manifesto e in movimento continuo implica una messa a punto costante della percezione.
In una intervista sostieni che "La percezione costante, incessante dello scarto tra pensiero e visione si afferma come immagine-esperienza".
Puoi argomentare questa tua affermazione che lascia intravedere una "spaziatura iniziale" come indizio di causalità e una iconografia (archivio) a cui far riferimento per la figurazione.

P. - Il mio è sostanzialmente il metodo empirico di cui sopra che mi permette di approcciare la realtà.
Ho bisogno continuamente di creare delle forme di catalogazione e di archiviazione del mondo, e per questo ho costruito nel tempo ed in maniera ossessiva filoni di raccolte, collane tematiche dei soggetti che mi interessano, ed in questi temi ho proiettato la sensibilità che serve per costruire delle opere.
Ci sono stati anni di conflitti interiori sulla qualità delle fonti di procacciamento dei soggetti, anni in cui pensavo che non sarei riuscito a far coincidere tutte le necessità con le applicazioni delle stesse, poi l'ossessione della raccolta e la pratica di catalogazione hanno imposto un metodo di lavoro che ha trovato nella generosità la vera possibilità. Ho ritagliato, rubato, trovato immagini da qualsiasi contesto senza farmi molti scrupoli. Le ho poi rielaborate, tagliate, acquisite, metallizzate, digitalizzate, spruzzate, cancellate e rispedite nel mondo delle immagini attraverso una rielaborazione definitiva.
Ho costruito un ciclo di quadri dal titolo INTERNO che erano un vero omaggio alla pratica della pittura e alla rappresentazione pittorica.
Quadri ad olio su tavola di piccolo formato, una tecnica classica che rimanda alle tavolette rinascimentali, mentre le immagini erano prevalentemente costruite partendo da cataloghi degli anni 60 e 70 di arredamenti per uffici o da depliant esplicativi sulle funzionalità di strutture industriali. Non mi interessa la provenienza, tantomeno il contesto, mi interessa solo l'immagine e la sua potenzialità evocativa.
Il mio punto di partenza, il soggetto, è sempre stato il tempo, camuffato da spazio, un tempo estroflesso e stratificato mentre la rappresentazione dello spazio per eccellenza faceva parte dell'impianto rappresentativo.
Inizialmente erano spazi vuoti senza narrazione, poi sono diventati luoghi di passaggio, poi architetture complesse e in costruzione, poi in una certa fase erano architetture distrutte, macerie, adesso penso che torneranno ad essere spazi vuoti, rappresentazioni di architetture senza ancora una funzione precisa.
Il tempo è un tema che ho affrontato in maniera molto semplice, empirica, poiché l'approccio scientifico o filosofico riguarderebbe tutta la filosofia o tutta la scienza.
Mi è capitato di scrivere e riflettere su questo tema, e solo dopo di aver studiato gli aspetti che ritenevo più interessanti da approfondire.
La materia con cui sono costruite, legate le mie opere è la stratificazione del tempo.
Ad esempio i lavori sull'orizzonte sono opere dove il paesaggio è apparentemente il soggetto, ma il mio paesaggio è un paesaggio attraversabile, è un paesaggio che necessita dell'incognita temporale, è quindi il risultato dell'equazione moderna di attraversamento di un territorio infrastrutturato per questa necessità. Anche la fruizione di alcune opere sugli orizzonti sono l'estremizzazione di questa visione di un paesaggio dove il movimento è una sua componente dinamica necessaria. Nelle mie colonne camuffate da paesaggio l'opera non si riesce mai a vedere per intero, in maniera completa, se ne può apprezzare solo una parte per volta, e quindi bisogna essere attivi e muoversi nello spazio per farsi un'idea della complessità totale.
Non c'è un punto di partenza o un punto finale, solo il tempo cronologico può determinare un'inizio e una fine della fruizione.
Ciò che si aggiunge nel presente non sarà mai a registro con il presente di un'ora fa, e la mancanza di un registro col tempo precedente e quello prossimo crea l'incertezza del presente ma anche la sua forza.
Come i ricordi non sono mai a registro con la realtà, così mentre si interviene sul tempo sovrapponendo velature su velature è il tempo stesso che crea uno spessore, crea la materia del quadro e della nostra vita.
Anche nelle opere di disegno chiamate MI DISPERDO E PROSEGUO LASCIANDOMI INDIETRO UN PASSO DOPO L'ALTRO, realizzate semplicemente costruendo una linea orizzontale all'interno di una striscia di carta utilizzata per fare scontrini fiscali, il segno è come un sismografo che rileva un ritmo interno, quello della mia mano-mente, un ritmo che segna il tempo più interiore, mentre il risultato è un paesaggio lungo 35 metri.

A. - In definitiva è lo spazio che fugge!

P. - Si è lo spazio che fugge ed è la vera illusione, mentre il tempo è concreto e sempre presente. Ho intitolato ALL'OMBRA DEL TEMPO una mostra del 1996. Il tempo è talmente fisico e presente tanto da proiettare ombre mentre lo spazio si fa impalpabile.



   Luca-Pancrazzi

   Temporundum, 2010, Vetro superclear, silicone orologio, diametro 50 cm.


A. - Nel 2011 viene realizzato un libro ed una mostra "Alighiero Boetti - Boetti and the East" - mostra di opere inedite di Alighiero Boetti, curata da Gail Cochrane, Mario Dellavedova, Amedeo Martegani, e Luca Pancrazzi.
In una biografia rintracciata sul web è segnalata la tua collaborazione con Alighierto Boetti, puoi parlarmi di questi lavori e di come ha influito nella tua arte la "pratica boettiana"?

P. - Nel 2011 sono stato invitato da Gail Cochrane insieme ad Amedeo Martegani e ad altri artisti a partecipare ad una settimana di discussioni e contributi su Alighiero Boetti.
Il mio contributo insieme ad A M è stato quello di costruire un libro con materiali inediti intorno all'opera di A B.
Non ho mai collaborato con A B, ho lavorato per lui per qualche anno, da giovane.
Le cose sono cambiate molto da allora, soprattutto nel numero totale di artisti in circolazione e nell'intensità delle relazioni.


A. - Pensando alla tua esperienza credi che “trova corrispondenza” o che si sviluppi attraverso ciclicità apparenti?
Hai adottato qualche teoria in proposito, entropia, teoria del campo.
In una intervista video parli dell' esperienza della spirale, nello sfalsamento della volta.

P. - Questa della spirale è una questione che ho analizzato nel tempo.
Ho trovato che alcune esperienze mi portano vicino a rivelarmi delle soluzioni ma solo la complessità della sequenza totale e di altre esperienze in gioco mi permettono di avvicinarmi alla soluzione migliore di quella questione che, non abbandonata ma solo lasciata a decantare, viene ritrovata e visitata da un punto di osservazione diverso, evoluto, rispetto all'approccio precedente, e quindi con più probabilità di essere osservato da un punto di vista migliore e quindi riaffrontato con successo.
Porto avanti diversi cicli di lavoro, contemporaneamente, e ritorno continuamente sullo stesso tema. Questo approccio è visualizzabile come una spirale che consente di ritrovare i raggi che partono dal centro dopo solo un giro.
Forse visualizzo così i processi della mia mente, ed è per questo che ho bisogno di tenere aperti molti cicli di lavoro che riprendo e ritrovo in continuazione.



Luca Pancrazzi

Land-escape, 1997, stampa fotografica, cm 120 x 164, ed.3.


A. - A proposito di Temporundum Continuo (Galleria Continua 2010)
nella presentazione viene detto - Il tempo è uno degli "aspetti del lavoro, li sintetizza, mi riferisco al rapporto fisico con lo spazio e alla rappresentazione dell’esser-ci nello spazio, una sorta di spazio temporale dove l’identità si manifesta come fenomeno, fugace immagine nella fugacità del tempo.
Ci sono aggiornamenti a questa affermazione, .a questa idea di tempo che sta fuori esattamente dove è lo spazio e che viene incontro.

P. - Quel lavoro, Temporundum Continuo - era in qualche modo una visualizzazione.
Quando si dà un titolo al fare, con una rima, con una poesia, lo si battezza, viene dichiarato pubblicamente e affermato al mondo.
Anche in quel caso, il lavoro era sul tempo e sulla stratificazione, come il lavoro della pittura ma spostato su di una dimensione diversa.
Ho utilizzato degli orologi che simboleggiano in maniera innegabile il tempo, ed è fin troppo ovvia la simbologia messa in gioco.
Il vetro applicato sopra al vetro degli orologi, però, nega in parte la visione del meccanismo lasciando il ticchettio dell'orologio e un frammentato incerto incedere delle lancette.
Mi è sembrato di aver portato a termine un lavoro, dopo anni che giravo intorno a questa idea.
Solo ultimamente ho ripercorso lo stesso raggio dopo un giro della mia spirale ed ho ulteriormente migliorato quella visione. Sto arrivando a costruire dei "classici."

A. - In parte è come staccare l'oggetto dalla propria funzione.

P. - Non proprio perché permane la sua funzione metafisica.
L'automobile coperta di vetro funziona perfettamente. Ho girato dei video per le strade di Mosca.
L'orologio benché ricoperto di vetro funziona perfettamente, con le batterie che devono essere sostituite ogni anno...
Puoi arrivare a leggere l'ora.
Se mi chiedi se ci sono nuovi aggiornamenti ti rispondo che è un meccanismo di pensiero che avviluppa tutto il lavoro.
Proprio in questi giorni mi hanno richiesto le fotografie di una mostra del 1993, una installazione di timbri, datari fusi in alluminio, quindi datario ed in alluminio, per cui bloccati nella loro funzione.
Avevo impresso in ciascuno la data di un giorno della mostra, 24 timbri, per 24 giorni di mostra, quindi 24 date diverse.
Per ogni giorno di esposizione veniva aperta la scatola del timbro corrispondente, rimaneva in visione tutto il giorno, dopoché veniva chiuso e aperto quello successivo. I tavoli, dove erano appoggiati sopra i timbri erano posizionati a corda di spirale perché già avevo l'idea che il tempo non fosse lineare ma più simile ad una spirale.


A. - Vorrei accennare ad alcune tue considerazioni che lasciano pensare ad una esperienza, attraverso viaggi, o incontri, vicino alle realizzazioni orientali di sensibilità illuminata :
" Ho iniziato a vedermi da fuori (tempo e luogo) come raramente è possibile…” e
“ Penso più ad un mondo fatto di sguardi direttamente connessi a delle menti..

P. - Ho fatto qualche viaggio di lavoro in oriente e medioriente, non faccio viaggi per turismo, ma se devo fare qualcosa lontano, ovunque, ci vado volentieri, vado anche a occidente.
Qualsiasi spostamento serve a vedersi da fuori. Se ti giri velocemente e con grande rapidità potresti riuscire a vederti da dietro, quasi come in un cartoon...
Comunque sia posso dire di avere avuto degli insegnanti all'epoca del liceo che mi hanno insegnato a vedere, ad osservare il mondo e poi a prendere una matita. Mi hanno insegnato ad osservare più a lungo possibile e poi a disegnare. Mi hanno insegnato ad osservare e a disegnare il vuoto tra le cose per liberarmi dal senso delle forme piene e dal condizionamento che inevitabilmente provocano sulla forma.
Il vuoto è sicuramente più illuminante di qualsiasi pieno, ti permette anche di vedere le cose come fosse la prima volta.



Luca Pancrazzi

Particolare dell’esposizione al museo Laboratorio della sapienza, Roma 1997. (foto Lodovici)


A. -  MadeinFilandia.
Un progetto che raduna artisti di differenti generazioni, chiamati a vivere e trasformare l’interno e all’esterno della ex fabbrica nella tenuta della Filanda, Arezzo. Le opere sono il risultato di una residenza di una settimana volta a stabilire una nuova condivisione del luogo per riflettere sul concetto di pratica dell’arte.
Puoi raccontare di questa esperienza del "riunire" in un contesto gioioso e sereno la comunità di artisti.

P. - E' nato tutto in maniera semplice, da una situazione e da un momento della mia vita in cui ho sentito necessità di volgermi all'esterno.
È nato un figlio, è nata una famiglia, vivo in campagna e siamo due artisti con un figlio bellissimo, tutto fantastico. E' nata anche la possibilità di poter coinvolgere altri.
La campagna impigrisce gli animi tende a rendere permanente e immutabile qualsiasi cosa, per questo bisogna attivarsi di più per essere felici in uno stato che tende all'isolazionismo, alla ciclicità della natura. Abbiamo iniziato quindi ad incontrare altri artisti condividendo serate interessanti e divertenti.
Mentre alle inaugurazioni gli artisti si proteggono e si barricano, e vanno prevalentemente alle cene solo se di lavoro, abbiamo inventato ribaltato il concetto.
Si lavora insieme a progetti rischiosi, senza rete, e gli artisti si mettono in gioco senza protezioni, con la tranquillità di una scampagnata. In effetti si fanno molti bagni in piscina o partite a bocce, gare di cocktail e grigliate mistiche, durante questi incontri si riesce a conoscere parti di se spesso protette, e si possono affrontare poetiche con una leggerezza non usuale per le insicurezze latenti che caratterizzano gli artisti stessi nelle situazioni ingessate.
Siamo un gruppo ristretto che non si è mai associato in associazione, e che tiene in piedi l'organizzazione e paga l'affitto degli spazi. Chiunque lo voglia può entrare a farne parte nella maniera che preferisce e i progetti nascono sempre da esigenze profondamente piacevoli e conviviali e necessarie.
Stiamo costruendo una cucina stabile, un bar e un bookshop, mentre già alcune volte ci riuniamo per scegliere dei film e proiettarli.
Sono gli artisti il nucleo di questa comunità mobile e le gerarchie sono quelle dettate dal rispetto.
Questa assenza di curatori, di critici e di galleristi, di qualcuno che finanzia il lavoro lascia una libertà impensabile.
I limiti vanno trovati in noi stessi e non nei budget o nella pulizia degli spazi.
La natura della Filandia mette a dura prova gli artisti, anche se è una fatica non sofferta, il contesto è preponderante ma ha qualcosa di mistico, forse nella disposizione di questo edificio ad osservare la valle intorno.
Qualcuno si rifugia all'interno cercando qualche angolo di conforto mentre altri si lanciano in spericolati giochi che li portano verso terreni acrobatici.

A. - Ciò che sorprende è che ad ogni edizione gli artisti non sono mai gli stessi.

P. - Il secondo anno avevamo pensato di invitare gli artisti dell'anno precedente, era venuta così bene quella prima festa. Sempre lo stesso gruppo di artisti, per gli anni seguenti. Invece continuo a sorprendermi nell'incontrarne di nuovi e di disponibili, e la seconda volta ci è piaciuta ancora di più perché eravamo già più preparati allo sforzo di ospitare più di 20 artisti, tutti insieme, al lavoro per una settimana.
Adesso c'è un ufficio stampa, un sito che dovrà essere ampliato, una pagina Facebook, e per la prossima edizione, la terza, ci sono già degli artisti che abbiamo incontrato, dobbiamo però fermarci in tempo per contenere la nostra generosità, per questo ci inventeremo altri progetti da fare in Filandia.



Luca-Pancrazzi

Omaggio a Dennis Oppenheim, cielo di Filandia, 28 settembre 2011 ore 9,30' per Madeinfilandia 2011, pilota Filippo Roncucci – liberamente tratto da Dennis Oppenheim Whirpool, eye of the storm.
Foto di Eugenia Vanni. Progetto di Amedeo Martegani e Luca Pancrazzi.


A. - Intorno al libro d'artista hai sviluppato un pensiero ad alta risoluzione:
Blow - Flow - Raw - ad esempio.
Puoi parlare di questa capacità di presentare sé e di rappresentare ancora.

P. - Tutti i libri che ho realizzato, anche MadeinFinlandia (con GliOri) sono stati costruiti intorno ad una esigenza autonoma. Sono anche il catalogo di un evento, ma sono principalmente dei libri progettati per essere dei bei libri.
Tutti i libri costruiti così e fatti da un artista sono dei libri d'artista.
Ho aperto la mia partita via nel 1985 per poter dare in conto vendita i libri d'artista che autoproducevo. Erano libri in fotocopia in edizioni di 99 copie al massimo ed il loro prezzo era di 12.000 lire. Il centro Di a Firenze credo ne abbia venduti due o tre. Ma col mio socio siamo riusciti a farli acquistare anche alla collezione del Moma NY, all'ICA di Chicago, e ad altri archivi e musei sensibili al tema.
In questi primi lavori editoriali avevo messo a punto una teoria sulla bassa qualità della fotocopiatrice che per questa caratteristica risultava una qualità esportabile e realizzabile ovunque.
Poi coi primi mac dal 1986 si riuscì a gestire almeno i testi, le immagini era ancora impensabile poterle inserire in un impaginato, potevano al massimo essere trasformate in mappa bit.
In alcuni casi il libro è stato costruito insieme alla mostra di cui era catalogo e opera al tempo stesso. In Blow Flow Raw ha addirittura anticipato la mostra e i disegni sono andati a comporre il libro prima di essere montati nelle cornici, in questo caso il libro di disegni non è il catalogo della mostra ma è la mostra stessa ad essere il catalogo del libro.


A. - Già in “Error” opera e titolo di una tua personale alla galleria Borromini parlavi di una relazione con lo schermo del computer e della finestra che si apriva per segnalare i dati da salvare prima della loro scomparsa.
In un articolo di questi giorni, Rhizome - Al di là della superficie: 15 anni di Estetica desktop -
si parla di questo spazio particolare e di estetica nel flusso di lavoro e di dati personali.
Puoi dirmi del tuo desktop attuale e di come questa immagine possa diventare un intimo autoritratto.

P. - Nel mio desktop è visibile il tentativo di tenere a bada gli hard disk che implodono ed esplodono creando copie. Ho una scrivania piena di macerie e di scheletri in costruzione, cartelle di backup aggiornate a mano e automaticamente (mai fidarsi solo degli aggiornamenti automatici). Le meccaniche degli hard disk hanno poi una scadenza e conviene sostituirli prima del loro invecchiamento.
La mia ossessione è anche quella di non trovare files, quindi tento di nominarli e inserirli in più catalogazioni per non perderli fisicamente o non sapere dove sono.
Cerco di dare un nome a tutto, non lascio neppure le immagini senza un nome.
Credo che l'architettura dell'interfaccia grafica della scrivania sia come la mente del suo utilizzatore, gli assomigli intimamente. I salvaschermi servono per difenderci da occhi indiscreti, per non sentirci nudi.
Dopo il rovistare nella spazzatura, entrare nel computer di qualcuno è la violazione alla sfera più riservata che si possa immaginare. Il mio tentativo è semplicemente di tenere a bada il disordine.
La mia è la generazione che ha acquisito per prima la disciplina imposta dai primi desktop, siamo cresciuti con l'evoluzione dei programmi e l'estetica delle interfacce grafiche si è evoluta con noi. Ho imparato ad usare le macchine senza mai leggere un libretto di istruzioni e senza mai leggere le istruzioni di un programma, uso quindi le macchine in maniera intuitiva e so che solo poco tempo fa eravamo felici lo stesso senza questo avvento.
Sono sicuro che da qualche parte conservo ancora la scatola di Letraset coi quali realizzavo tutti i lavori di grafica prima del 1985.


 
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