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  "REVENGE"
di Nico Vascellari
Oh well, whatever, nevermind
- Teresa Macrì - Testo
 


Artext
: 52' Biennale di Venezia.
Premio per la Giovane Arte Italiana
" Revenge " di Nico Vascellari

 Teresa Macrì
 Oh well, whatever, nevermind

 

- II-The push up of Kurt -
Benché verrebbe spontaneo rinchiudere Nico Vascellari dentro la gabbia bodista, scontato serbatoio di valenze performatiche, le sue incursioni corporee sembrano suggerire altri universi, certo paralleli a quelli intaccati dalla body art, ma assolutamente più smarginati e rumorosi come le “noise actions” dei live concert. Aleggia ancora il tepore del push up sintetico di Kurt nelle interpretazioni del Vascellari.

Se è indubbio che Nico ha immagazzinato iconismi bodisti è altrettanto indubbio che i suoi neuroni si sono rigenerati tra le aspre distorsioni dei Sonic Youth e gli umori cerebrali di Cobain, quest’ultimo mito di una “Generation X” che ha assimilato nel grunge e dintorni un modo di interpretare il mondo.
Se parliamo di performance globale, essa non può prescindere dalle esibizioni di Cobain quando nel 1991 nello Smell-tour si presentò sul palco brasiliano, spinto su una sedia a rotelle, serrato nel bondage di un camice di ospedale e quasi velato da quella sua parrucca bionda sintetica e sdentata (che perfino Douglas Gordon in Selfportrait as Kurt Cobain, as Andy Warhol, as Mira Hndley, as Marilyn Monroe ha rivisitato nel 1996) nel recitare–cantare-urlare e sussurrare la sua lirica Smell Like Ten Spirit. Cosa era quell’urlo davanti a centomila fans elettrizzati in un mood galattico? Oh well, whatever, nevermind…

Sempre Kurt, avvolto in uno stupido e trans-gender tubino nero, gonfiato al petto da quel famoso push up, con scarpe da ginnastica e con una corona da regina in testa si rotolava assieme alla sua chitarra in una altra delle sue provocanti performance con tutto quel disagio che si portava addosso e che lo rendeva indifeso di fronte a quel mainstream che avrebbe potuto dominare da star quale era ma che non riuscì mai ad accettare. Sempre lui, in una altra famosa performance, irrompeva sul palco sfidando la telecamera che lo inquadrava scendendosi le brache del suo pigiama e masturbandosi in diretta e spingendosi oltre la performance Seedbed di Vito Acconci alla galleria Sonnabend di New York del 1972. Viene spontaneo dunque rianimare la storia globale della performance con quel sostrato esibito e esperito nel mondo del rock, visto che finora l’irruenza performatica è stata come insonorizzata in un racconto manualistico privo di deviazioni. Fu proprio nelle albe del 1967, che l’Iguana americana tatuata e snodata di Iggy Pop (allora Psychedelic Stooges) cominciò a tagliuzzarsi sulla pelle, a carambolarsi e contorcersi sui palchi rock e reificare quello stage diving, eccesso performatico scaturito poi nel famigerato crowd surfing collettivo, in pura azione comportamentale.

E’ un corpo curato, estetizzato, brandizzato, oliato, tatuato, massaggiato, riplasticato, ricostruito, svelato, ionizzato, liftato, anabolizzato, pixelato, clippato, trainato fino ad essere solo ed esclusivamente un oggetto del desiderio condiviso perciò planetario. Questa sua prorompenza ossessiva può perfino inabissarlo nel rischio di farsi fetish o stereotipo o dit-kat di un irrefrenabile condizione di imagine-victim….
Il corpo attuale, proprio perché performativo, è diventato sempre più pellicolare e sfaccettato, ha diradato moralismi biotecnologici, biosintetici, biomorfologici e si è proiettato come un feticcio planetario. Il corpo è physical attraction collettiva, desiderio oggettuale, pulsione soggettivizzata. Chip, protesi, make-up, nanotecnologia incarnata, body-building, chirurgia plastica ci trasportano in una epoca in cui realtà e il suo simulacro si compenetrano feticisticamente.

Poiché la performance non è una opinione bensì un esercizio dell’agire neurotico dunque corporeo, viene spontaneo collocare tutto quel sentire post-punk-rock-electronic-hardcore del Vascellari all’interno di un contesto multisensoriale che centrifuga body art and rock&rolls. Indubitabilmente c’è una post-genie performatica che, in questo preciso momento, decreta una trasformazione del “sentirsi” corpo e che ha operato un trespassing dalla body Sixties-Seventies che nelle sale di gallerie e di musei inscenava un Sé in conflitto con l’ordine di un mondo contestato e aborrito. In ciò non c’era leggerezza bensì sofferenza e drammaticità intimista. In questa epoca infosferica il performer flirta col fruitore che non è più uno specchio appannato e immobile ai bordi della zona performatica ma si fa suo complice in una azione che non è interiorizzata.
In questo mondo racchiuso nel web non si sfugge da My Space e You Tube: esserci significa semplicemente rappresentarsi al mondo. Vascellari è figlio del www e dunque assimila, frulla, interconnette vari linguaggi e li traduce in una costellazione rappresentativa ondivaga: trascina il fruitore nei suoi synth assordanti, bruschi, metallici e contemporaneamente lo inserisce in un set straniante.

In The Great Circle del 2004 si evincono tutti i dati di quell’universo sonoro-iconico che costituisce il suo alfabeto: il live con i Whit Love a circuito chiuso, dilatato e impressionato nelle atmosfere Disco dagli effetti delle mirroballs, il travestimento da creatura dei boschi, in quella passeggiata solitaria e trascinante quanto il suo mantello-collection (realizzato da t-shirt comprate ai concerti) e la sua parrucca ricavata da fili di lana e il Sé, impigliato nel cut-up allucinato della sua nudità psichedelica e imprigionato nelle interzone di un budello in cui si contorce come per uscirne o come per nascondersi. Il suo cordone ombelicale è il cavo di un microfono e ciò viene puntualizzato nella performance Nico & The Vascellaris del 2005 in cui è l’esibizione psicotica a diventare centro e motore dell’azione.

Nell’essenzialismo scenico della sua rappresentazione non c’è altro che la fisicità del performer a renderla pregnante. Nico, talking head dell’azione, blocca i suoi supporters familiari nella tensione fisica di sostenergli una quinta vacillante, incerta. La sua performance è secca, una frustata nervosa in cui ingoia il microfono (come non ricordare Kurt Cobain quando “recitava” le sue songs rabbiose negli studios londinesi di Top of the Pops?) e poi assorbe lo sguardo astante con tic isterici e gesti meccanici (come non rimandare allo psichico David Byrne di Psycho Killer in una atmosfera dirty alla Mike Kelley dei Destroy All Monsters?) catturando lo spettatore in un fatale Rape me….yeahhhhhhhh. Vascellari dunque canta e si traveste, si culla tra gli astanti e li rapisce rifuggendo dal dramma intimistico o dalla ritualità orgiastica tipica dei bodisti classici. Non usa la violenza del gesto simbolico bensì predilige l’azione coinvolgente o interattiva come in Cuckoo 2006, dove il noise dei musicisti (Nico, Stephen O’Malley and John Wiese) è interconnesso all’azione fisica di supporters (dei taglialegna) che seguono il sound nell’intento di appuntire dei tronchi d’albero con delle asce.

vascellari

 III- Revenge
Revenge, lavoro performatico-installativo ideato per il Padiglione Italia della Biennale veneziana, segue un processo relazionale diffuso che scardina l’idea che l’arte è una disciplina a sé stante. L’arte non è l’interfaccia di se stessa, ma una idea che si costruisce e si distribuisce per rizomi e che connette multi-soggettività. In tale prospettiva Revenge nasce come un progetto di attivazione di intelligenze altre. La processualità con cui Vascellari ha indotto musicisti europei dello scenario underground, indie o comunque DIY(Do It Yourself), come prestatori dei loro amplificatori (di dimensioni e potenza differenti) per costituire un noise-wall disturbante induce al concetto di crossing. Concetto che è già nel DNA della ricerca dell’artista veneto, pluri-contaminato da segni linguistici.

Vascellari rappresenta nelle sue performance ciò che è il suo essere, la sua appartenenza, la sua tribe: non c’è sdoppiamento fra ciò che sente e ciò che reifica in opera.
Chi frequenta le sue stesse onde lo avverte subito.Questione di feeling come cantava qualcuno. Dunque, il dispiegarsi in una rete di contatti molteplici per reperire gli oggetti-quasi feticci di un sentire il mondo, è una connaturata attitudine. E’ una normale pratica di inter-connessione della subcultura come Dick Hebdige insegna. I risvolti culturali del noise-wall sono molteplici: potrebbero scivolare in concettualizzazioni simboliche di carattere sociologico che pure avrebbero le loro ragioni, del tipo: viviamo in una epoca in cui si edificano muri per dividere popoli e poteri, di contro l’ispirazione murale del Vascellari è ambivalente. E’, da una parte, una sorta di crossing di identità, desideri, idee diverse, anarchiche e anonime e, al tempo stesso, una specie di groove dove corpi differenti e inassegnabili, si sfiorano, si sfuggono, si incontrano, si lasciano.

In realtà il muro di amplificatori è una specie di presenza che attraverso il filtro del sound vuole toccare il fruitore contro il troppo silenzio, contro la continua assenza, contro l’inattaccabilità percettiva, contro la passiva ricezione dell’oggetto artistico, contro la fruizione facile in cui siamo precipitati in questa epoca di catalessi del pensiero.

Il muro di Vascellari, indocile quanto il suo noise, è quasi una spinta alla non accettazione di tutto ed è contro l’acquiescenza con cui metabolizziamo il senso/non senso del mondo, contro il distacco con cui perimetriamo l’esistente, contro la sordità con cui barrichiamo il nostro Sé per non ascoltare i suoi rumori, a volte spiacevoli. Tutto ciò provoca attrazione o repulsione?

Questa enorme produzione viene ormai organizzata saguendo solo i principi del fashion system - organizzata gerarchicamente e non orizzontalmente.
E questo da una nuova chance ai musei - di entrare per controbbattere questa banalizzazione delle grandi mostre.
"..un prodotto artistico che vuole essere sempre più attrattivo" ma non produce così che alienazione del pubblico - costretto a vedere sempre gli stessi artisti, le stesse rappresentazioni, e così via.

I meccanismi chimici contrastanti che si possono scatenare derivano dalla propria appartenenza nel mettersi in gioco col mondo. Durante la lunga esposizione veneziana qualcuno, incautamente, fuggirà verso più confortevoli interni e si delizierà del silenzio come dentro un film muto. Qualcun altro invece si perderà tra i bit emessi dal sound ruvido attivato da Vascellari, si lascerà rapire dal suo feedback e ballerà da solo.

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