robert longo     
  Robert Longo New York New Wave Untitled 1980/2000 Galleria Mazzoli Modena
Luca Beatrice
Sugli spalti o giù nel prato? Quarant’anni dal vivo
 
 

 

QUANDO COMINCIA IL ROCK' N' ROLL

 

Forse questi non sono neppure i concerti più belli che ho visto, né quelli che mi hanno cambiato la vita, neanche quelli che rimpiangerò per sempre di essermi perso, o perché non c’ero o perché stavo dall’altra parte del mondo.
Per esempio Johnny Cash, “Man in Black”, quando il 13 gennaio 1968 si esibisce alla prigione di Folsom in California davanti a un piccolo gruppo di detenuti. Non c’è Bob Dylan, nonostante lo abbia visto in varie fasi della sua carriera, non ci sono quei gruppi dark per i quali letteralmente impazzivo alla fine degli anni Settanta – Cure, Joy Division, Bauhaus – manca il post punk travolgente dei Clash, mancano i Ramones e soprattutto il rock pesante (almeno gli AC/DC sarebbero stati indispensabili). E non compaiono nemmeno quegli autori e quelle band ancora in piena attività, collaudati come un usato sicuro, capaci di trascinarti nelle stesse emozioni di vent’anni fa: Bruce Springsteen, “The Boss”, Neil Young, Depeche Mode, REM. E le ultime generazioni, allora? Gli eredi dello spirito rock che ci portiamo dietro come l’arte del dopoguerra e dell’era contemporanea per eccellenza?
C’è poi un’altra questione. Quando far partire l’orologio del rock’n’roll? Ognuno ha la propria data di riferimento, per esempio Ezio Guaitamacchi segna in agenda il 21 marzo 1952, all’arena di Cleveland, Ohio, quando il proto-dj Alan Freed inventa il Moondog Coronation Ball, inserendo in uno spettacolo per bianchi la sua passione sfrenata per la musica nera. “Più di 20.000 giovani, per lo più neri, invadono l’arena: i disordini esplodono dentro e fuori durante il primo brano di Paul Williams, la polizia irrompe e annulla il concerto. Il sindaco di Cleveland dichiarerà fuorilegge la stampa di biglietti in eccesso, i giornali accuseranno Alan Freed di aver fomentato la rivolta, ma la sua fama è segnata: il Moondog Coronation Ball entra nella storia come il primo, vero concerto di rock’n’roll”.1 Mark Paytress, addirittura, richiama le radici del blues americano, la “musica del diavolo”, ricordando l’esibizione di Robert Johnson, un sabato sera del luglio 1938 in un locale chiamato Three Forks sulle rive del Mississippi. “Robert Johnson morì circa due settimane dopo, il 16 agosto 1938, senza immaginare che l’incrocio presso cui la sua vita e la sua arte si erano intersecate sarebbe diventato il mito primigenio del musicista fuorilegge del XX secolo”.2
Probabilmente però, l’atto di nascita del rock moderno va posizionato nel 1955 in occasione dei concerti di Elvis Presley, dove per la prima volta assistiamo al fenomeno del divismo nei confronti di un musicista da parte di un pubblico giovanissimo, prevalentemente femminile. Non a caso proprio nel 1955 si danno alle stampe i primi dischi a 45 giri.
Ma questo non è un libro sulla storia del rock, bensì un saggio che ipotizza un legame molto stretto tra musica popolare e arte d’élite. Due linguaggi molto diversi – il primo diretto e d’impatto, il secondo esclusivo e oscuro – eppure continuamente intrecciati nella storia sociale e culturale dell’ultimo mezzo secolo. Quest’attrazione fatale, queste relazioni pericolose, sarebbero state impensabili prima degli anni Sessanta. Prima, infatti, il possibile e non frequente ambito di rimandi si giocava sul piano dell’avanguardia: all’arte astratta corrispondeva la musica colta in quanto a entrambe era stata data la patente di linguaggio di ricerca. Affascinante il binomio tra Arnold Schoenberg e Vasilij Kandinskij, oppure quello tra Robert Rauschenberg e John Cage.
Con la rivoluzione pop tutto cambia e ci si accorge che per comunicare un messaggio trasgressivo è molto più efficace un’immagine frontale di una speculazione filosofica, un brano musicale di circa tre minuti di una suite strumentale dodecafonica. Gli anni Sessanta posizionano l’asticella molto in alto, e ciò che accade in quel decennio è davvero straordinario, tanto che è difficile distinguere i fenomeni più importanti da altri più ordinari. Certamente, parlando di rapporti tra arte e musica, la data da segnare in calendario è il 1967, alla vigilia del rivolgimento sociale, politico e culturale più importante del dopoguerra. I Beatles con Sgt. Pepper’s affrontano l’ennesima sfida decidendo il salto dal Pop all’autorialità. Oltre a farsi crescere barbe e capelli sposando così l’immagine freak del tempo, concepiscono il loro primo concept album affidandone la copertina a Peter Blake, uno dei più famosi artisti britannici e fondatore della costola inglese della Pop Art: siamo di fronte a una delle immagini che, con le interpretazioni che l’hanno seguita, hanno fatto la storia.3 A coinvolgere artisti visivi i Beatles ci prendono gusto e l’anno dopo, il 1968, per il doppio disco senza titolo comunemente denominato White Album affidano l’invenzione di questa cover così estrema e concettuale a Richard Hamilton, altra figura chiave nel Pop inglese, i cui intensi rapporti con la musica si possono sintetizzare nella serie di serigrafie Swinging London che rielaborano la fotografia pubblicata sui giornali di tutto il mondo dell’arresto di Mick Jagger e del manager-gallerista Robert Fraser (fu proprio lui a presentare Yoko Ono a John Lennon), accusati di consumo e spaccio di droga (il leader degli Stones si copre il volto mostrando così i polsi ammanettati).
Contemporaneamente, dall’altra parte dell’oceano, Andy Warhol dopo aver esplorato il mondo della moda e del cinema decide che deve avere una propria rock band, indie e glamour, trasgressiva ma popolare. Insieme a Lou Reed e John Cale, con l’aggiunta della voce tenebrosa di Nico, forma i Velvet Underground, produce il loro disco d’esordio e ne inventa il celeberrimo e immortale marchio con la banana, prima rosa carne poi gialla come nella realtà. Ha detto Brian Eno: “Soltanto cento persone acquistarono il primo disco dei Velvet Underground, ma ciascuno di quei cento oggi o è un critico musicale o è un musicista rock”.
Per non farci mancare niente, anche in Italia, nella Roma del Piper, musica e arte s’incontrano nel genio dissipatore di Mario Schifano, tentato come Warhol di formare il suo gruppo, per un progetto musicale assurdo e complesso, dove la psichedelia e il free jazz s’incontrano in un lavoro meravigliosamente imperfetto. Questa super combo si chiama Le stelle di Mario Schifano, pubblica un unico LP dal titolo Dedicato a… che riporta in copertina un dipinto della serie Tutte Stelle (dalle note veniamo a scoprire che tra gli ospiti c’è pure l’artista americano Paul Thek, autore nel 1967 di una delle performance culto dell’epoca, The Tomb, monumento funebre all’hippie che nella postura evoca lo scatto fotografico sul corpo morto di Ernesto Che Guevara).4

 

1969

Ci sono almeno venti dischi che hanno fatto la storia del rock, pubblicati nel 1969, secondo la playlist suggerita da Riccardo Bertoncelli5: dal live degli MC5 Kick Out the Jams! ai debut album omonimi degli Stooges e dei Led Zeppelin, il manifesto della psichedelia inglese, In The Court of The Crimson King, il meraviglioso, delicatissimo, Five Leaves Left di Nick Drake, fino ai Jefferson Airplane con Volunteers, Tommy degli Who e Happy Trails dei Quicksilver Messenger Service.
Anno chiave soprattutto per la dimensione live del rock: il 24 febbraio alla Royal Albert Hall di Londra va in scena una delle ultime performance della Jimi Hendrix Experience, con distruzione della Fender Stratocaster dorata e lancio dei pezzi tra il pubblico; il 1 marzo Jim Morrison, ai limiti della propria distruzione psicofisica, al Dinner Key Auditorium di Miami viene denunciato per oscenità; tra il 20 e il 22 giugno a Northridge, California, va in scena Newport 69 (Hendrix, Steppenwolf e Rascals i rispettivi headliner delle tre serate), considerato “il più grande festival musicale di sempre”;6 il 5 luglio ad Hyde Park a Londra i Rolling Stones si esibiscono appena due giorni dopo la scomparsa di Brian Jones, con Mick Jagger che introduce il concerto leggendo un brano del poeta Shelley e liberando migliaia di farfalle bianche; il 30 e il 31 agosto la moda dei festival contagia l’isoletta inglese di Wight nella Woodside Bay, dove l’evento di punta è rappresentato dal ritorno sulle scene di Bob Dylan, dopo l’incidente in moto del 1967.

Ma sono tre le date che cambieranno per sempre la storia della musica, concludendo di fatto lo straordinario decennio Sessanta e aprendo a un’epoca nuova, difficile e controversa. “Proprio mentre gli anni Sessanta si stavano consegnando alla storia, nella cultura del rock del periodo si innescò un vortice oscuro. Le droghe pesanti cominciarono ad abbattere i musicisti uno dopo l’altro, neanche fossero birilli del bowling. Già nel 1971 molti di loro erano stati accalappiati dall’eroina o si stavano bruciando le membrane nasali e il sistema nervoso con troppa cocaina. Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison se ne andarono a distanza di pochi mesi […] La scena della West Coast era in pieno disfacimento. Una volta erano tutti compagni d’armi avvolti dal dolce profumo dell’erba: ora si puntavano nervosamente uno contro l’altro coltelli e pistole, per colpa di accordi andati a puttane con i rispettivi spacciatori di coca”.7
Il 30 gennaio i Beatles, che di fatto sono già separati in casa, litigiosi e intolleranti l’uno dell’altro (la molla che ha fatto scattare il più doloroso divorzio del rock è certamente l’incontro tra John Lennon e Yoko Ono, ma gli screzi continui tra George e Paul non sono da meno, solo Ringo sembra non curarsene), improvvisano una performance a sorpresa sul terrazza della loro casa discografica, la Apple, al numero 3 di Savile Row, materiale che viene filmato per essere inserito nel film Let It Be ma che risulta infine più simile, nel linguaggio, a uno showcase di oggi. “Quando i Beatles arrivano sulla terrazza è da poco passata l’una del pomeriggio. Paul indossa un completo scuro con la camicia slacciata sul collo; John è in jeans e maglione nero, con una pelliccia che si è fatto prestare da Yoko; George ha dei pantaloni verdi e una camicia rossa, con un pellicciotto nero; Ringo, pantaloni e maglione neri, si ripara come può dal vento freddo con un impermeabile rosso che si è fatto dare dalla moglie Maureen”.8 Fin dall’abbigliamento disparato si intuisce che i Fab Four non sono più un gruppo ma quattro individui che vanno ciascuno per conto proprio.
“La cosa avrebbe dovuto essere assolutamente spontanea – scrive Bob Spitz – un segreto. Neppure gli impiegati della Apple furono avvisati […] La prima canzone, una versione di Get Back mozzafiato, non era ancora finita che aveva già attirato una piccola folla di spettatori in pausa pranzo e cominciò a circolare la voce che i Beatles (gli amatissimi Beatles che non si esibivano dal vivo in Inghilterra da più di tre anni) stavano suonando live. La gente che lavorava nei palazzi vicini, per lo più sarti e merciai, avvertì la musica prima ancora di averla udita. Le finestre tremavano, i pavimenti vibravano e una sinfonia di clacson veniva dalle auto bloccate a causa del traffico in Savile Row. Tutto intorno, i vicini correvano in strada o sui tetti, a vedere quello che stava accadendo”.9 In circa 42 minuti i Beatles suonano nell’ordine: due versioni di Get Back, Don’t Let Me Down, I’ve Got a Feeling, One After 909; Dig a Pony; God Save The Queen; ancora I’ve Got a Feeling e Don’t Let Me Down, concludendo con una terza versione di Get Beck, prima che la polizia salga sulla terrazza e sospenda il live. George se la prende parecchio per ciò che considera un sopruso, mentre John chiude con il seguente commento: “I’d like to say thank you on behaf of the group and ourselves, and I hope we passed the audition”.10 In cuor loro, già sapevano che sarebbe stato l’ultimo concerto dei Beatles tutti e quattro insieme e che quel freddo mattino londinese avrebbe scritto la parola fine sulla più grande pop band di tutti i tempi.

“Il Festival di Woodstock è considerato il momento in cui la musica ha raggiunto l’apice della sua funzione di unione ed energia”.11 Certamente non si tratta del più importante concerto rock di tutti i tempi dal punto di vista della line up, dell’esecuzione dei brani e delle performance dei musicisti, ma se consideriamo il valore sociale del live, allora Woodstock rappresenta insieme il momento culminante e l’inizio del declino del più straordinario decennio del Novecento. Inventato da quattro ragazzi che si sono incontrati grazie a un’inserzione economica sul giornale, tra le mille difficoltà di formare un cast d’eccezione e trovare una location adatta quando manca meno di un mese alla tre giorni di “pace e musica” fissata tra il 15 e il 17 agosto, Woodstock sfugge dalle mani dei suoi stessi organizzatori quando un numero di persone ben superiore rispetto ai 50.000 previsti invade le strade che portano a Bethel. A causa delle lunghe code per le strade e dell’invasione dell’improvvisata arena, il festival diventa un evento free alla faccia di chi aveva pagato il biglietto. Il valore simbolico del più grande raduno musicale degli anni Sessanta, cui parteciperà mal contato mezzo milione di persone, sta nel profondo scarto generazionale tra il prima e il dopo Woodstock, che di fatto apre verso una diversa consapevolezza del giovane ormai del tutto estraneo alle lusinghe del boom economico, che insegue un’altra forma di democrazia pacifista e antimilitarista, ma soprattutto sviluppa una diversa modalità partecipata nei confronti della musica live, eccessiva e performativa in cui è possibile essere protagonisti alla stregua di chi si esibisce sul palco. Negli stessi anni esplode la Body Art, linguaggio estremo del corpo nudo che libera pulsioni ed esterna le proprie fratture “contro” la società borghese e benpensante. Il film che Michael Wadleigh dedica a Woodstock, vincitore di un Oscar nel 1971, si concentra soprattutto sul pubblico, in particolare su quei ragazzi che si rotolano nel fango dopo il nubifragio che ha colpito Bethel la domenica mattina, su chi fa l’amore, chi fuma erba, chi medita e chi partorisce (durante il Festival vengono alla luce due neonati).
La scaletta, invece, è memorabile solo in alcuni momenti e cresce alla distanza: l’apertura di Richie Havens che improvvisa Freedom, l’unico grande successo della sua carriera, Country Joe McDonald con una performance violentemente politica, Joan Baez incinta, l’esordio di Carlos Santana e Joe Cocker, Janis Joplin, Jefferson Airplane, The Band senza Dylan, Crosby, Stills, Nash & Young, primo supergruppo della West Coast, fino all’apoteosi di Jimi Hendrix, ed è già lunedì mattina, cui tocca “mettere la parola fine al festival, davanti ai 30.000 rimasti ad ascoltarlo in un’atmosfera da post-apocalisse. Il giardino è diventato una fetida discarica ed è davvero una malinconica conclusione, anche perché Jimi, come Janis, non è in forma come ai tempi belli di Monterey e la band poco allenata farnetica qualcosa tra vecchio e nuovo repertorio: Foxy Lady, Villanova Junction, mentre l’inno americano The Star-Spangled Banner, distorto e sibilante come se attorno tuonassero i bombardieri e le mitragliatrici sul fiume Mekong, risuona già come un monito sinistro per tutta la Woodstock Nation”.12
Non a tutti i musicisti, però, la partecipazione a Woodstock lascia un bel ricordo, anzi. Per Pete Townshend degli Who “è stata un’esperienza orribile. Un evento disgustoso, meschino, ipocrita e commerciale”, mentre Jerry Garcia dei Grateful Dead, che pretendono di essere pagati 25.000 dollari ancora prima di salire sul palco, rimane estasiato dall’atmosfera. La pensa in maniera molto diversa Carlos Santana: “Qualcuno dice che Woodstock non sia servito a niente. Io credo invece che abbia continuato a vivere anche dopo, quando è caduto il Muro di Berlino, quando hanno liberato Mandela, quando abbiamo celebrato l’ingresso nel 2000”.13

Allo scoccare del nuovo decennio, i Rolling Stones accettano l’invito di suonare ad Altamont, in quella che avrebbe dovuto essere una Woodstock californiana. Era stato scritturato un cast d’eccezione (Santana, Jefferson Airplane, Flying Burrito Brothers, CSN&Y) “ma qualcosa va storto dall’inizio, tanto che i Grateful Dead lasciano il luogo anziché suonare quando scoprono che Marty Balin dei Jefferson Airplane è stato colpito alla testa durante il loro set”.14 I Rolling Stones affidano la sicurezza agli Hell’s Angels perché, come ricorda Keith Richards “era il ’69 e l’anarchia regnava incontrollata. Sul circuito, le forze di polizia erano ridotte al minimo. Credo di aver visto tre sbirri per mezzo milione di persone”.15
In breve la situazione diventa incontrollabile, gli Stones incominciano a suonare ma già al primo pezzo, Sympathy for The Devil, vengono interrotti dai ripetuti tentativi da parte dei fan di salire sul palco (c’è anche una ragazza completamente nuda). Durante Under My Thumb accade il fattaccio: un giovane afroamericano, Meredith Hunter, abbranca una pistola, gli Angels gli sono subito addosso e lo accoltellano sotto gli occhi attoniti della folla, come è documentato in Gimme Shelter, tra i primi esempi di cinéma vérité applicato al rock. “Nel film si vede Meredith Hunter che agita la pistola e si vede qualcuno che lo accoltella. Anche lui aveva la bava alla bocca; era uno sciroccato come tutti gli altri. Sventolare una pistola sotto il naso degli Angels era come, be’, era quello che stavano aspettando! Quella fu la miccia. Dubito che l’arma fosse carica, ma l’amico voleva mettersi in mostra. Luogo sbagliato, momento sbagliato”.16

Il 1969, che sarà stato anche l’anno dello sbarco sulla luna, rappresenta soprattutto la fine davvero repentina di tutte quelle utopie che il ’68 e Woodstock avevano vagheggiato. In pochi mesi vengono assassinati il senatore Robert Kennedy e il leader nero Martin Luther King, si intensifica la guerra in Vietnam, a Praga finisce la Primavera per mano dei carri armati sovietici. Tutto l’ottimismo spensierato si dissolve in un’inquietante cupezza, come se il lato oscuro della forza avesse prevalso sugli abiti colorati degli hippie e dei figli dei fiori.
La situazione di disordine estremo, in contrapposizione a chi vede il periodo del Flower Power dominato da sogni di pace ed amore, è riassunta nelle parole di Lydia Lunch: “Tesoro sono americana. È la nostra generazione. Quando hai dieci anni e la Manson Family fa a pezzi l’estate dell’amore fa un bel cazzo di effetto. Avevo gli scontri razziali fuori dalla porta. C’erano i conflitti sociali, il Vietnam, i disordini alla Kent State University. Mi sono resa conto di cosa significasse solo quando sono cresciuta, ma sapevo come mi faceva sentire: eccitata, agghiacciata, terrorizzata, emozionata”.17
C’è addirittura chi suppone che il 1969 sia stato l’anno del diavolo a causa della lunga striscia di lutti che lo attraversa. È la teoria dello scrittore americano Zachary Lazar che in Sway racconta tre inquietanti vicende accadute proprio nel 1969: la strage perpetrata dalla Famiglia Manson in cui venne uccisa, tra gli altri, Sharon Tate, la giovane moglie incinta di Roman Polanski; la misteriosa morte di Brian Jones, chitarrista dei Rolling Stones; quindi il tragico concerto di Altamont.18
Altro che California Dreamin’ e utopia pacifista e fricchettona di Woodstock! L’America scopre il dramma del lato oscuro e, alla fine, saranno proprio Altamont insieme a Charles Manson le icone di una generazione che non ha neppure fatto in tempo a svegliarsi dal sogno per ritrovarsi, di colpo, proiettata in un incubo. Lo racconterà più tardi un artista cresciuto in California, Raymond Pettibon: “Si tratta di ridefinire la storia degli anni Sessanta, come un decennio che si identifica non con la Summer of Love, ma con Altamont e i due massacri di Manson… Ho dunque buone ragioni di voler scrivere una sorta di storia revisionista degli anni Sessanta”.19

 

Anni Settanta, parte 1. Dalla psichedelia al glam

Pink Floyd at Pompei è nella storia della musica ciò che la Land Art rappresenta nell’arte visiva dei primi anni Settanta. Anticipato dall’esperienza cinematografica di Zabriskie Point, peraltro riuscita solo a metà viste le profonde differenze caratteriali e poetiche tra il gruppo musicale inglese e il regista Michelangelo Antonioni, i Pink Floyd decidono di ambientare un particolarissimo live chiuso al pubblico tra le rovine dell’anfiteatro romano a Pompei. E’ il 4 ottobre1971 quando con il regista Adrian Maben iniziano a girare le riprese di quel film-concerto che uscirà nelle sale l’anno dopo. Statuari e immobili, passando dalla luce intensa di mezzogiorno alle ombre della sera, fino al buio della notte, Gilmour, Waters, Mason e Wright eseguono prevalentemente brani da Meddle oltre ad alcuni pezzi su cui stavano lavorando per The Dark Side of The Moon. L’atmosfera, che pure contraddice l’essenza dell’esibizione dal vivo trattandosi di uno spettacolo a porte chiuse, presenta una band in stato di grazia, forse nel suo momento migliore dopo il traumatico abbandono di Syd Barret. Notevole il lavoro effettuato da Maben sul montaggio e in postproduzione, quando assembla alcune scene girate alla solfatara di Pozzuoli, nei pressi del Vesuvio, per rendere ancor più suggestivo l’incontro tra storia, natura e musica contemporanea; in altri casi sovrappone, con un visibilissimo mascherino, riprese negli studi di Parigi, poiché il set dovette accorciarsi da sei a quattro giorni e il materiale risultava insufficiente. Immagine simbolo di questo particolarissimo live è quella di Mason che percuote un gigantesco gong stagliandosi sul paesaggio della Pompei antica. Qualcosa che sembra davvero fuori dal tempo, situazione che i Pink Floyd cercheranno altre volte nei loro concerti, per esempio al largo di San Marco a Venezia il 15 luglio 1989.
Il desiderio di tornare agli spazi aperti, confrontandosi con le immense dimensioni della natura, rinunciando alla protezione del contesto (a seconda dei casi, un museo, una galleria, un teatro, un’arena) accomuna la voglia di fuga che si respira appunto nei primi anni Settanta sia nell’arte che nella musica. Le opere più famose di Land Art hanno insito il desiderio di dar vita a una grande impresa, sfidando la logica, l’equilibrio e la razionalità. Nel 1970 Robert Smithson realizza Spiral Jetty, il suo più monumentale earthwork, creando un molo attorcigliato su se stesso di oltre 400 metri in un lago salato dello Utah. Non è da meno Michael Heizer con Double Negative, ottenuto attraverso lo spostamento di oltre 240.000 tonnellate di terra allo scopo di edificare un canyon artificiale nel deserto del Nevada. Ancor più spettacolare è l’installazione di Walter De Maria, The Lightning Field, sita nel New Mexico e ultimata nel 1977, che consiste in 400 pali metallici dalla punta acuminata piantati in circa tre chilometri quadrati, a provocare un pericoloso ma affascinante effetto parafulmine non prevedibile ma incombente. Siamo tornati a un’idea di natura sublime, che non esclude il perturbante e lancia continuamente la sfida che l’uomo, pur schiacciato dal peso e dalle dimensioni, può raccogliere.

Il nome di D.A. Pennebaker si lega al meglio della documentaristica rock degli ultimi trent’anni, quando questo tipo di cinema anticipava il videoclip e la sua estetica. Il suo primo lavoro di docufiction è stato Don’t Look Back, reportage fedele della tournée inglese di Bob Dylan nel 1965. Storici sono anche Jimi Plays Monterey, girato nel ’68 e rimontato solo nel 1986, quindi 101 sul disco live dei Depeche Mode (1989).
Nel 1973 Pennebaker si trova a filmare un concerto che fortuitamente è destinato a entrare nella leggenda del rock. È il 3 luglio 1973 quando David Bowie si esibisce all’Hammersmith Odeon di Londra nei panni di Ziggy Stardust, l’alieno travestito che lo ha imposto come simbolo dell’ambiguità e del trasformismo. La scenografia del palco è piuttosto semplice: il logo della Z rovesciata, un insistito gioco di luci stroboscopiche, i vertiginosi cambi d’abito del cantante. Una ventina i brani in scaletta, tra cui due cover dei Rolling Stones (Let’s Spend The Night Together) e dei Velvet Underground (White Light/White Heat). Poi, a sorpresa, prima del pezzo finale, Rock’n’Roll Suicide, Bowie annuncia la fine di Ziggy Stardust: “Questo spettacolo resterà il più a lungo nei nostri ricordi non perché è la fine del tour ma perché è l’ultimo spettacolo che mai faremo”. Il pubblico, esterrefatto, non sa come interpretare le parole del cantante, se si tratta davvero di un ritiro oppure è solo il primo di uno dei tanti cambi di pelle di Bowie, che ogni volta rinasce lasciandosi dietro la polvere di stelle e i lustrini.
Molto complesso è peraltro il rapporto di Bowie con l’arte, fin dal 1960 quando segue le lezioni di pittura di Owen Frampton, padre del chitarrista Peter, alla Bromley Technical High School. Immortalato dai migliori specialisti del ritratto fotografico rock di diverse epoche e stili, come David Bebbington, Geoff McCormack, autore del volume From Station to Station. Travels With Bowie 1973-1976, Brian Wood, David La Chapelle, Nick Knight e soprattutto Mick Rock (che ha firmato lo straordinario portfolio su Syd Barret dopo l’abbandono dei Pink Floyd, lavoro che mostra diverse assonanze stilistiche con l’artista americana Francesca Woodman)20, si è poi valso della collaborazione di diversi pittori. Sullo sfondo per la copertina del suo primo album, Space Oddity, utilizza un dipinto optical di Victor Vasarely; in Diamond Dogs commissiona uno stralunato ritratto a Guy Peellaert, mentre per Lodger e Let’s Dance chiama l’artista pop inglese Derek Boshier, proveniente dalla Royal College of Art come David Hockney, Peter Phillips e Allen Jones. Pur senza dimostrare una relazione diretta, le sue performance en travesti dei primi anni Settanta rivelano parecchie somiglianze con i lavori di Body artisti quali Urs Lüthi, Luigi Ontani, anch’essi dandy ambigui e narcisi elegantissimi.
Collezionista, coeditore della rivista “Modern Painters”, Bowie si sente lui stesso un artista visivo: lo testimonia il suo sito www.bowieart.com dove pubblica e vende direttamente i suoi lavori serigrafici e qualche scultura. A differenza di Joni Mitchell e del compianto Captain Beefheart non ha però portato avanti una carriera parallela nelle arti visive, limitandosi a qualche apparizione strategica, per esempio alla Biennale di Firenze del 1996. Né, è il caso di Bob Dylan, il suo lavoro pittorico sta vivendo una recente riscoperta, anche grazie alla firma d’eccezione. Il suo sogno proibito sarebbe stato realizzare uno spin painting a quattro mani con Damien Hirst. Ma quando glielo propone, presentandosi nel suo studio tutto vestito di bianco e griffato Gucci, Hirst è impietoso e gli suggerisce di stare attento a non sporcarsi: “Bowie sta cercando di catturare la forza dell’arte per sfruttarla nel suo lavoro. Fondamentalmente vuole trasformare il musicista David Bowie nell’artista David Bowie. Che però fa schifo”.21
Tornando all’ultimo concerto di Ziggy Stardust, è talmente entrato a far parte dell’immaginario collettivo come opera chiave di un’epoca da essere stato oggetto di remake da parte di un duo di artisti britannici, Forsyth & Pollard, che nel 1998 in Rock’n’Roll Suicide ricostruiscono l’intero live servendosi di sosia di Bowie che hanno dichiarato di essere stati spettatori di quel concerto. È il tipico effetto di spiazzamento su cui opera l’arte concettuale.

 

Anni Settanta parte 2. L’esplosione del Punk

Il 7 giugno 1977 l’Anarchia si impossessa per poche ore del Regno Unito. Fino a quel momento il rock aveva cavalcato le onde della contestazione, incarnato il desiderio di rivolta, flirtato con il sesso, la droga e la politica, ma non si era mai visto un atto così estremo e nichilista. Nella Londra del ’77 non c’è futuro: lo grida una voce stonata e stridula di un gruppo che non sa suonare ma lo fa bene. Sono i Sex Pistols.
Con un solo disco e neppure diciotto mesi di attività la band di Johnny Rotten scava l’ultimo solco profondo nella storia del rock. Il loro manager Malcolm McLaren, insieme alla stilista Vivienne Westwood, li dirotta al 100 Club nel West End, dove diventano la band di culto per l’emergente universo punk. La strada verso il successo è immediata e fologorante. La EMI produce il primo singolo Anarchy in The UK e li lancia sul mercato discografico, finché gli scandali dello show televisivo “Today” (dove i Pistols, ubriachi e drogati, insultano il conduttore Bill Grundy) e le ripetute oscenità commesse all’aeroporto di Heathrow, convincono i responsabili a rompere il contratto. Ma ormai la bomba è esplosa: God Save The Queen, secondo singolo uscito per la Virgin il 27 maggio diventa l’inno ufficiale del Punk. Troppo pericolosi per pensare a qualche presentazione ufficiale o a un tour promozionale che verrebbe annullato viste le note intemperanze del quartetto, decidono di fare da soli, affittano una barca, la Queen Elizabeth, che navigando sul Tamigi li fa approdare all’altezza del Parlamento. “La cosa pazzesca – ricorda Guaitamacchi citando il loro tour manager John Tiberi – è stata l’abilità di Malcolm nel pubblicizzare il concerto. Non si riusciva nemmeno a sentire la musica a riva, gli amplificatori non erano così potenti, eppure la nostra barca è stata circondata quasi subito da una miriade di motovedette della polizia che ci hanno intimato di fermarci e sono saliti per spegnere la musica”.22 A bordo ci sono il regista Julien Temple, che userà parti del concerto per il film biopic The Great Rock’n’Roll Swindle (1980), e il giornalista musicale Jon Savage che su questo avvenimento scriverà l’epopea de Il (grande) sogno inglese, un volume di quasi mille pagine che costituisce la pietra miliare della filologia punk.23
La tesi critica più suggestiva l’ha però espressa Greil Marcus nel meraviglioso Tracce di rossetto, così convincente da suggerire che ci sia un posto per Rotten, Vicious e soci anche nella storia dell’arte. I Sex Pistols sono gli ultimi avanguardisti e il loro fare è strettamente connesso al Dada di Cabaret Voltaire e soprattutto all’Internazionale Situazionista, fondato a Parigi da Guy Debord nel 1957 la cui poetica è alla base delle istanze rivoluzionarie del ’68. In gesti apparentemente di natura estetica si nasconde il desiderio di una sferzante critica nei confronti della società capitalistica, attaccata non secondo le strutture del pensiero marxiano ma da una ventata illogica di anarchia e disordine.24
Pur non esistendo un’arte punk vera e propria, è possibile altresì affermare che sia stato il Punk a risultare influenzato dalle forme delle avanguardie storiche, in particolare dal collage dadaista e dal gioco del Cadavere Squisito di surrealistica memoria. Lo si evince dalle numerose fanzine indipendenti, dai flyer, inviti e manifesti dei concerti di piccole band in piccoli club realizzati con pochissimi mezzi ma con grande fantasia, trasformando la precarietà in estetica, insomma l’esaltazione di quel Lo-Fi che ben si adatta alla cultura indipendente.25
Punta di diamante di questa corrente spontanea è Jamie Reid, che ha legato il suo nome alla grafica dei Sex Pistols. Per il coté visivo lui corrisponde a ciò che sono stati McLaren e la Westwood nel management e nella moda. Suo nonno era un trafficante d’armi che lavorava per il movimento cinese xenofobo dei Boxer Rebellion. Il prozio, scozzese, George Watson MacGregor Reid è stato capo dell’organizzazione Druid Order. Il padre John, invece, fu convinto assertore del socialismo spirituale, mentre zio Bruce si trasferì in Unione Sovietica nel 1963 per strane missioni di spionaggio “pacifista”. Trovarne uno normale nella famiglia Reid è veramente difficile e a questa inquieta linea di sangue non sfugge certo Jamie, nato nel 1947 a Croydon nel Surrey. Giusto trent’anni dopo passerà alla storia come l’inventore dell’immagine punk. Nel ’68, come tutti quelli della sua generazione, Jamie Reid va all’università per onor di firma, attratto più che altro dallo scompiglio velleitario che lo circonda. Frequenta, nelle aule della Croydon Art School, un tipo altrettanto strano, Malcolm McLaren che invece ha un solo scopo nella vita: fare soldi. Quando mette in piedi il colossale business dei Sex Pistols, si ricorda delle doti creative del suo vecchio amico Jamie e lo incarica di studiare un’immagine provocatoria e scioccante. Reid è colto, si ispira all’avanguardia Dada, al collage surrealista, all’attivismo dei Situazionisti e allo stile barricadero della Mail Art. Cambia il lettering, utilizza una grana polverosa e indie, frulla il tutto e crea una delle cover più devastanti nella storia del rock. Per God Save The Queen Reid deturpa il ritratto ufficiale della regina con scritte anarcoido-terroriste e, in una seconda versione, le copre gli occhi con svastiche e le cuce le labbra con una spilla da balia. Pochi mesi più tardi i Pistols pubblicano il loro primo e unico LP, Never Mind The Bollocks, Here’s the Sex Pistols. La copertina di Reid è semplice e immediata: scritte nere su fondo giallo con il nome del gruppo scavato in una banda fucsia. Ormai Jamie ha inventato uno stile, unendo l’arte del primo Novecento al linguaggio dei volantini e dei ciclostili in nome del “Do It Yourself”.
Poiché la moda dilagante del nostro inizio decennio ha pienamente recuperato il collage quale tecnica adatta a rappresentare l’attuale senso di precarietà e incertezza –precisa Andrea Lissoni, perché “incarna un autentico bisogno di rimettere le mani nel passato modernista del XX secolo, facendo eco all’archivio come luogo ideale di ricerca, oltre che metafora generalista. Il collage si espande per frammenti in uno spazio bianco, quindi da ricomporre mentalmente con abilità enigmistiche, o bidimensionale e circoscritto in una rassicurante cornice”26 – è logico il recupero di quelle figure di artisti borderline che negli anni Settanta usavano questa tecnica senza pensare che prima o poi sarebbero finiti in un museo. Oltre a Reid, che fa riferimento al mondo punk londinese, c’è Linder (una donna finalmente!), Linda Mulvay all’anagrafe, attiva nel fertile ambiente di Manchester, che porterà alla costituzione del movimento post punk negli storici locali della Factory e della Haçienda. Anche lei utilizza inserti di natura surreal-dadaista allo scopo di unire l’immagine femminile a oggetti esplicitamente sessuali. Collabora soprattutto con i Buzzcocks, elaborando per le copertine di alcuni singoli della band un accrochage di ritagli e fotografie senza chiedere i diritti a nessuno.
In ogni caso, l’interrogativo non è stato sciolto: esiste un’arte punk alla fine degli anni Settanta? Sembrerebbe proprio di no, anche se è indubbio che la rivoluzione musicale condizioni anche quella visione di “arte bella” che almeno la pittura aveva mantenuto. Non è un caso allora che una mostra ospitata dal New Museum di New York nel 1978 si chiami “Bad Painting”, volendo sottolineare che trasandatezza, senso di non finito, sgradevolezza non risparmiano neppure l’espressione più consolidata dalla tradizione. La curatrice Marcia Tucker spiega che la cattiva pittura si contrappone alla bella pittura per l’attitudine a deformare le figure, a mixare il basso e l’alto, è fantasiosa e insieme irriverente. Tra gli artisti che parteciparono a quella mostra spiccano i disegni umoristi di William Wegman, che pittore non è mai stato e forse per questo rende bene l’idea del brutto stile e del cattivo gusto.
A tale categoria, coeva all’esperienza del Punk, può certamente ascriversi il Neoespressionismo tedesco, i cui esponenti sono altresì noti come Nuovi Selvaggi, che dipingono alla stregua di bestie come i loro antenati Fauves ma su supporti destinati alle grandi gallerie e alla fruizione borghese dell’arte. Autenticamente punk, almeno nell’attitudine autodistruttiva, è stato Martin Kippenberger, che nei confronti della pittura nutriva una sorta di sovrano disprezzo. Curioso ancora che il termine bad painting sia tornato di clamorosa attualità a metà anni Novanta, con l’operazione finanziata da Saatchi e supportata da Martin Maloney, in coincidenza con il Punk Revival in atto anche nella musica (Green Day, Blink 192 e dintorni, per intenderci).
Milano, New York

La stagione italiana dei concerti negli anni Settanta sembra un bollettino di guerra. Flagellato dal terrorismo e dalla strategia della tensione, il nostro paese chiude le porte alle rockstar straniere, che rifiutano di esibirsi in teatri e palasport a causa dei continui incidenti provocati da gruppuscoli di estrema sinistra, mai censurati né dalla stampa né dall’opinione pubblica, anzi lasciati liberi di dettare quelle regole e quei ricatti al fine di ottenere l’effetto, tanto sospirato, di desertificazione.
Il primo a cadere vittima dei contestatori fu addirittura Gianni Morandi che, nel 1970, al Palasport di Torino viene ripetutamente interrotto da disturbatori che lo accusavano di essere “leggero” (dopo poco toccherà anche a Giorgio Gaber, ma la reazione dello showman milanese fu molto dura provocando la sua fuoriuscita definitiva dalla sinistra). Milano è la piazza peggiore: il 5 luglio 1971 il concerto dei Led Zeppelin al Motovelodromo Vigorelli dura meno di mezz’ora a causa dei lacrimogeni sparati dalla polizia per disperdere i manifestanti. Il 13 febbraio 1975 Lou Reed è assalito sul palco del Palalido e il culmine si raggiunge il 13 settembre 1977 quando, contro Santana, battezzato come “servo della CIA”, dei facinorosi lanciano una molotov. Tutta la tournée dei Madness, nel 1979, è occasione di scontri perché gli autonomi sono convinti che lo Ska fosse musica da fascisti. Persino Francesco De Gregori, il 2 aprile 1976, è costretto a subire un processo popolare sul modello di quello delle Brigate Rosse, accusato di non devolvere parte dei propri guadagni alla classe lavoratrice.27 Il panorama è davvero desolante, l’Italia scompare dai cartelloni del rock, mentre in tutta Europa le band si esibiscono senza problemi. Ci restano solo i cantautori, pessime versioni di Woodstock de noantri, festival di psichedelia casereccia e gli Inti-Illimani, improbabile banda di sedicenti profughi cileni.
Poi, come spesso accade, scatta qualcosa, una molla che proviene dal basso, e senza ragioni apparenti tutto cambia. Nel 1979 l’Italia, nonostante abbia toccato il punto più tragico del terrorismo con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, registra i primi vagiti di una stagione di cambiamenti eccezionali: è l’anno delle donne, Nilde Jotti presidente della Camera, Oriana Fallaci in testa alle classifiche di vendita dei libri con Un uomo, Gianna Nannini autrice di America, inno rock al piacere femminile. Nelle arti visive Achille Bonito Oliva fonda la Transavanguardia, movimento di pittori figurativi che superano il lungo dominio dell’arte concettuale e poverista riproponendo il rapporto con la storia e la tradizione in chiave postmoderna. Un successo che si trascinerà dietro altre espressioni artistiche prettamente italiane, dal Nuovo Futurismo di Marco Lodola, Plumcake, Innocente, alla Nuova Scuola Romana di via degli Ausoni; dall’anacronismo al citazionismo. L’anno dopo, per la prima volta la Biennale di Venezia dedica un ampio spazio nella sezione “Aperto” (curata da Bonito Oliva e Harald Szeemann) ai giovani artisti e all’architettura che diventa una sezione indipendente e autonoma, mettendo alla luce la nuova estetica ludica e spensierata di Alchimia, Memphis, dei bolidisti di Massimo Iosa Ghini e dell’“oggetto banale” di Alessandro Mendini.28
Nel 1979, che è anche l’anno dello strepitoso successo di Innamoramento e amore, il saggio di Francesco Alberoni che dimostra come gli italiani non abbiano più voglia di sentir dire che “il personale è politico” e mettano al centro i propri sentimenti privati, ma anche quello delle imprese sportive di Pietro Mennea a Città del Messico nella gara dei 200 metri e della Ferrari di Jody Scheckter e Gilles Villeneuve, si può davvero affermare che in Italia la musica è cambiata.
Sono diversi i simboli della svolta. Il 16 luglio comincia allo stadio comunale di Savona il tour “Banana Republic” di Lucio Dalla e Francesco De Gregori all’insegna del ritrovato ottimismo e di un barlume di speranza. Canzoni chiave di questa tournée sono L’anno che verrà di Dalla, ovvero la voglia di lasciarsi alle spalle i momenti peggiori e Buonanotte fiorellino, che veniva contestata a De Gregori per essere frivola e disimpegnata e che ora il pubblico intona a memoria.
Appena un mese prima si è chiusa un’epoca, quella dei raduni in cui la musica fa da sponda alla politica, offrendo in maniera inversamente proporzionale un prodotto tanto ideologizzato quanto irrilevante dal punto di vista estetico. Il 14 giugno si celebra il fallimento di una missione davvero autentica: raccogliere più soldi possibile per pagare le costose, disperate cure cui si sta sottoponendo in America il cantante degli Area Demetrio Stratos con un concerto all’Arena di Milano. Ma poche ore prima dello spettacolo arriva la notizia della sua scomparsa, per cui la manifestazione si trasforma in un triste tributo sotto la pioggia. Cantano in molti: Eugenio Finardi Hold On – tieni duro – uno standard blues americano, Francesco Guccini il suo cavallo di battaglia Canzone per un’amica, la PFM con il suo rock progressive, l’avanguardia di Giancarlo Cardini e Gaetano Liguori, fino alle contaminazioni con il jazz che tanto piacevano allo sfortunato Demetrio. Chiudono gli Area, eseguendo L’Internazionale, per un commiato che vuol dire tante cose insieme.
Mentre Renato Zero si impone come personaggio musicale dell’anno, grazie all’idea di esibirsi nelle principali città sotto un tendone da circo itinerante dove si respira un’atmosfera davvero magica tra trucchi, lustrini, trasformsmi e un’umanità che non si conosceva da tempo (nel 1979 esce il sesto LP del cantante romano EroZero contenente il singolo Il carrozzone e il film concerto Ciao Nì!), la riapertura dei confini italiani avviene ai primi giorni di settembre, quando Patti Smith suona negli stadi di Bologna e Firenze radunando quasi 100.000 persone. Impressionante la voglia di musica (e musica buona!) da parte dei nostri giovani, nonostante le tensioni politiche non fossero affatto scemate. Il live è all’insegna della provocazione, non tanto perché la Smith decide di issare lo stesso la bandiera americana anche se le è stato consigliato di non farlo,29 ma perché prima dell’ultima canzone manda la registrazione della voce di Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I, morto dopo appena trenta giorni di pontificato, che per la poetessa punk rappresenta una sorta di guida spirituale. Tra il pubblico si levano fischi ma anche diversi applausi: “The times they are a changing”, avrebbe detto Bob Dylan.
Mentre da altre parti del mondo si rivive la tragedia della morte in un concerto rock –undici persone perdono la vita nella calca allo show degli Who a Cincinnati – l’Italia si prepara a vivere una stagione straordinaria. Il 1980 si apre con il punk dei Ramones al Vigorelli di Milano, mentre il 2 aprile al Palalido arrivano i Police, segno che i big hanno voglia di tornare nel Bel Paese dove i fan sono caldi e gli incassi garantiti. Storico il concerto gratuito dei Clash nella piazza Maggiore di Bologna, cui partecipano, il 1 giugno 1980, oltre 30.000 persone. L’aspettativa nei confronti delle star internazionali è altissima, l’Italia riempie gli stadi a testimonianza della fame di rock. Il momento culminante arriva il 27 giugno 1980, quando atterra sul suolo milanese Bob Marley per uno spettacolo storico (aperto peraltro da Pino Daniele) visto da 85.000 persone. Il giorno dopo replica a Torino con gli stessi numeri. Non è un semplice concerto ma qualcosa di più, un rito collettivo, un gigantesco ballo in trance dove si addensano nell’aria profumi di erba e hashish. Per la prima volta non è un idolo del mondo angloamericano, ma un musicista che arriva dall’altra parte del mondo, portandosi dietro un suono – il reggae – che è una filosofia di vita, e aprendo all’inedito fenomeno della globalizzazione. Marley oltretutto non sta bene, il fisico già provato dal terribile male che lo ucciderà meno di un anno dopo (l’11 maggio 1981) ma, come ricorda Guaitamacchi “percepisce la tensione positiva della folla e reagisce dando tutto se stesso […] La sera del 27 giugno 1980 Milano è invasa da una musica nuova, che porta un messaggio di pace, amore e fratellanza”.30 Una cartolina da trent’anni fa? L’esecuzione acustica, commovente, di Redemption Song, rischiarata dalle fiammelle di 80.000 accendini.

L’Italia allora era il paese europeo più vicino all’America e Milano la sola città che ricordasse New York. Lo era per Elio Fiorucci, con le sue boutique e le feste allo Studio 54; lo era per Francesca Alinovi, che faceva la spola dall’East Village ai portici bolognesi portando con sé l’entusiasmo dell’underground; lo era per Francesco Clemente, il più internazionale della Transavanguardia, che viene incaricato di affrescare il soffitto del Palladium di New York, novello Michelangelo da discoteca.
Nel 1980 a New York va in scena la mostra che cambierà per tutto il decennio la scena artistica. È “The Times Square Show”, in cui si rivela la Graffiti Art e che inaugura la nuova moda di occupare spazi abbandonati e decentrati, al posto di musei e gallerie. L’anno successivo è il PS1, una vecchia scuola su Jackson Avenue nel Queens, a ospitare “New York New Wave” la mostra curata da Diego Cortez che rivela tutto ciò che di nuovo e di cool bisogna conoscere nella Grande Mela, dalla pittura alla fotografia, dalla musica alla moda, dal cinema alla perfomance: il trionfo della cultura indipendente dove le discipline si fondono le une nelle altre in un unicum strabordante.
A “New York New Wave” si esibisce, inaugurando la mania di suonare dentro gli spazi d’arte che sarà una costante per i prossimi trent’anni, la crème di quella che è considerata la vera eredità del Punk ma in versione più elegante e oscura, soprannominata anche No Wave per l’anima nichilista ed esistenziale: DNA, Teenage Jesus & the Jerks, Contortions e Mars sono le band invitate nel progetto “No New York” che Brian Eno aveva prodotto nel 1978.
Altro dato interessante: underground e mainstream si scambiano le parti e quasi non esistono l’uno senza l’altro. Icone di quegli anni sono due donne molto diverse: la pantera nera Grace Jones – algida e ambigua, fotografata da Robert Mapplethorpe e dipinta in una reale operazione di body painting da Keith Haring – e l’italoamericana Veronica Louise Ciccone, in arte Madonna, la cui immagine per l’album d’esordio Like a Virgin viene studiata dalla fotografa e art director francese Maripol. Prima di approdare al successo planetario che la trasformerà nella pop star assoluta del decennio, Madonna frequenta l’ambiente degli artisti, in particolare Jean-Michel Basquiat con cui ha una storia. “Madonna lo conobbe all’inizio degli anni Ottanta, mentre si stava facendo un nome e non era ancora stato rovinato dalla fama che lo avrebbe fatto uscire di carreggiata. Il suo ritratto della cultura marginale urbana dei neri, l’uso di oggetti trovati per caso e di mobili usati, l’inventiva allo stato puro con cui rivoltava come un guanto la cultura popolare, influenzarono Madonna. E lei lo colpì per la sua gioiosa professionalità. Jean era un maschilista, e a Madonna piaceva l’energia sessuale. Il loro rapporto era per entrambi una specie di spettacolo – ha detto Nick Taylor, pittore e intimo amico di Basquiat – accadde prima che tutti e due diventassero famosi, ma era comunque una specie di matrimonio combinato tra altezze reali”.31 L’unione finisce quando lui eccede nelle droghe, uno stile di vita che contrasta con la ferrea disciplina e l’autocontrollo di lei. Basquiat muore portandosi dietro la scia luminosa e caduca degli anni Ottanta mentre Madonna, ultracinquantenne, continua imperterrita a ballare e cantare.

 

No border

Il 1 agosto 1981 l’emittente privata MTV comincia le trasmissioni mandando in onda come primo video, simbolicamente, Video Killed The Radio Star dei Buggles. Il duo elettropop non è un granché ma il pezzo segna l’epoca che sta arrivando. Al momento, nell’archivio di MTV ci sono a disposizione solo 250 clip che vengono fatti ruotare di continuo. Tutto questo mentre in Italia è in corso il pionieristico e sperimentale programma “Mister Fantasy” ideato da Paolo Giaccio e Carlo Massarini e condotto da quest’ultimo, messo in onda da Rai Uno dal 12 maggio 1981 al 17 luglio 1984 per quattro edizioni. “L’idea di Mister Fantasy è nata quando ho notato che cominciavano a girare nelle redazioni televisive dei video musicali per la promozione discografica e la televisione non li usava, anzi i varietà che si facevano allora volevano esclusivamente il cantante in studio”.32
Il video non può certo sostituire l’emozione del live ma si apre a un mondo finora impensabile da raggiungere: fan dispersi in ogni angolo del pianeta che condividono la stessa passione nei confronti del rock, riuscendo a stabilire una sorta di comunità virtuale ante litteram che da proprio il senso della cosiddetta MTV Generation. “Il concetto strategico applicato è riassunto nella formula Think globally, act locally. Una filosofia di partenza buona per tutti i paesi del mondo che però va poi calata nelle singole nazioni tenendo conto delle pecularità locali”.33
Dopo una prima fase improntata su citazionismo e sul rapporto con la storia, il Postmoderno apre a ciò che presto definiremo come l’era delle contaminazioni. Nel 1985 il filosofo Jean-François Lyotard cura al Centre Pompidou il mega progetto espositivo “Les Immateriaux” presentando accanto all’arte e alla filosofia altri linguaggi quali musica, letteratura, cinema, design industriale e scienza. In particolare, gli spettatori camminano nello spazio indossando cuffie che sintonizzano un rumore e un suono particolare a seconda della vicinanza con un determinato oggetto, potendo guardare video musicali proiettati sugli schermi e presentati come fossero opere d’arte. Ci avviamo rapidamente verso una fluidità delle strutture che implica l’invenzione di spazi virtuali. Da qui, l’abbattimento dei confini e la perdita del centro, almeno parziale, di quei mondi che credevamo essere gli unici con i quali doverci relazionare. Se l’arte appartiene di diritto a quei linguaggi alti le cui intuizioni, alla lunga, possono apportare significativi cambiamenti, la musica agisce più in fretta e in maniera dirompente: il 13 luglio 1985 va in scena il primo concerto dell’area globale, quello che dovrà sostituire nella formula il vecchio festival in stile Woodstock. Il promotore di questo evento è Bob Geldof, ex cantante dei Boom Town Rats che, colpito dal dramma dell’Africa, allo scopo di raccogliere fondi per le popolazioni sofferenti aveva pubblicato nel 1984 un singolo dal titolo Do They Know It’s Christmas?, riuscendo a coinvolgere decine di musicisti e, per l’illustrazione del disco, l’artista Peter Blake (quello di Sgt Pepper’s). A tale iniziativa risponde We Are The World, dedicata ai bambini dell’Africa, voluta da Michael Jackson, Lionel Richie e decine di musicisti.
Il progetto di Geldof, oltre alla nobiltà del fine umanitario, realizza la possibilità di cominciare il concerto a Londra e finirlo a Filadelfia trasmettendolo in diretta tv globale: “Il Live Aid sarà riconosciuto come l’evento dei record: 69 artisti per 16 ore di spettacolo, un pubblico stimato di oltre un miliardo di persone, 150 milioni di sterline raccolti”.34
Il concerto rivela agli occhi del mondo dei consumatori di musica l’esistenza dell’Africa, che non corrisponde soltanto alla radice culturale del blues, ma si pone come drammatica urgenza. Passano pochi anni ed è ancora il Centre Pompidou di Parigi ad arrivare primo sulle questioni aperte della contemporaneità. Nel maggio 1989 l’avveniristico museo di Rogers e Piano nel quartiere Beaubourg apre “Les Magiciens de la terre”, prima mostra d’arte contemporanea in cui si incrociano lavori prodotti in tutti e cinque i continenti, in particolare focalizzando l’attenzione sull’Africa, grazie al contributo che il collezionista Andrè Magnin offre al curatore Jean-Hubert Martin. Diversi artisti dell’Africa nera vengono letteralmente scoperti e gettati sul mercato occidentale a confronto con la produzione di concettuali americani ed europei, La mostra propone all’attenzione della vecchia Europa il talento di Bouabré, Camara, Kingelez, Mahalangu e Samba per citarne alcuni, abbandonando finalmente il fascino dell’esotico e presentando identità precise e autonome, facendo da apripista alla nuova sensibilità antiretorica verso l’altro. A tale famiglia appartengono numerose rassegne degli anni Novanta, ad esempio “Cocido y Crudo” curata nel 1995 al Reina Sofia di Madrid da Dan Cameron, che riprende la celebre opposizione di Claude Lévi-Strauss tra “cotto”, ovvero frutto di elaborazione, e “crudo”, lasciato il più possibile naturale, i due elementi che fondendosi danno vita alla cultura contemporanea.
Nel 1986, intanto, Paul Simon, già componente dello storico duo con Art Garfunkel, incide uno degli album più importanti del decennio, Graceland, interamente suonato con musicisti africani. Per la meticolosità della ricerca e la sofisticatezza delle soluzioni, rappresenta qualcosa di più delle esperienze di Peter Gabriel in seno alla World Music. Inoltre Paul Simon tiene una serie di concerti nello Zimbawe, primo musicista pop-rock a esibirsi nel deserto, su palchi improvvisati ma con un’atmosfera che raramente ha raggiunto gli stessi picchi di autenticità.

Gli anni Ottanta sono anche quelli nei quali si forma l’ultima grande rock band del mondo, globali fin dal nome, U2, che può essere letto in qualsiasi lingua. Dopo i trascorsi nell’ambito new wave, conquistano le folle con show sempre più trascinanti ed elaborati in cui si respira ancora del sano vecchio rock. The Joshua Tree (1987) è senz’altro l’album più maturo di Bono e compagni, là dove incontrano il mito americano completando la metamorfosi da autori underground a gruppo blockbuster di qualità che può aspirare al successo planetario, fotografati dall’intenso bianco e nero dello specialista Anton Corbijn. Il 29 e 30 maggio dello stesso anno scelgono l’Italia e lo stadio di Modena (apre i due concerti l’esordiente Ligabue) è gremito di oltre 20.000 fan che conoscono a memoria tutte le canzoni. Apparsi un mese prima sulla copertina del “Time”, gli U2 sono saliti sul tetto del mondo.
La prossima sfida si chiamerà Berlino, con Achtung Baby (1991), stesso anno in cui si tiene la prima grande mostra d’arte contemporanea nella capitale tedesca unita. Ed è proprio nei pressi di ciò che resta del Muro, a Kreuzberg, che il vecchio palazzo della Martin-Gropius-Bau ospita “Metropolis”, traendo ispirazione dal capolavoro muto di Fritz Lang e, soprattutto, dalla vocazione di Berlino a essere aperta al mondo nonostante le divisioni. Zacharopoulos e Joachimides sono gli stessi curatori che cinque anni prima hanno organizzato “Zeitgeist”, una mostra sullo “spirito dei tempi” negli anni Ottanta. Non è passato molto tempo eppure sembra un’eternità: siamo ormai vicini a un’idea di mondo senza confini.

 

Minimalismi e microstorie

Il 10 luglio 1990 per la prima Vasco Rossi suona allo Stadio di San Siro radunando una folla pari a quella delle rockstar straniere. Tra decibel di potenza inaudita e power ballad romantiche come nella miglior tradizione, Vasco è il portavoce di una nuova generazione che ha visto cadere il muro di Berlino, che assiste indifferente alla fine del comunismo e non ha bisogno né di santi né di eroi. Tu sola dentro la stanza e tutto il mondo fuori, finale di Albachiara, uno dei suoi pezzi più amati, potrebbe funzionare da dichiarazione poetica per il prossimo lustro. È l’universo chiuso nella cameretta da adolescente che trattiene sentimenti, preoccupazioni, intimità. È il tempo del minimalismo e delle microstorie, e non a caso nella letteratura il racconto ha sostituito il romanzo. Rispetto ai cantautori dei precedenti decenni, il pubblico del Blasco è molto più vario e composito, non dichiara un’appartenenza politica e pensa molto ai fatti propri. Sta con il suo eroe solitario che, giustappunto, cita un indimenticabile film con Marlon Brando nel titolo del disco e del video dello storico live Fronte del palco.
Non è passato tanto tempo da quando l’arte si occupava di concezione del mondo legandosi indissolubilmente con la filosofia. Negli anni Settanta le immagini andavano di pari passo con i pensieri e le idee facendosi carico delle relative ideologie. Nella prima parte degli Ottanta, grazie al recupero di mezzi tradizionali come la pittura e la scultura, l’artista è un eroe dalla tensione superomistica nicciana, un nomade e un avventuriero convinto dei propri mezzi e della propria forza. Dalla fine degli stessi anni in poi non teme di mostrare le sue debolezze e incertezze, contaminandole, almeno in Italia, con l’ironia, il sarcasmo e il fatalismo.
È al Museo Pecci di Prato, sul finire del 1991, la mostra chiave per capire il mood di questi tempi: “Una scena emergente”, incentrata prevalentemente sulla scena milanese più uno sparuto gruppo di toscani, che avrebbe dovuto rivelare e imporre la generazione successiva alla Transavanguardia e invece fallisce, si potrebbe dire, deliberatamente fallisce, perché anche l’arte può essere considerata un’esperienza a tempo. Da quel gruppo di artisti intelligenti, capziosi, piuttosto intellettualistici si sono salvati Stefano Arienti, Marco Cingolani, Liliana Moro e Massimo Kaufmann (che aveva partecipato anche a “Metropolis”). Gli altri si sono persi, chi più, chi meno. Parallelamente il critico Renato Barilli, che aveva proposto a metà del decennio precedente una ricognizione in tempo reale sugli “Anni Ottanta”, è costretto ad anticipare al 1991 “Anni Novanta”, una mostra diffusa sul territorio dell’Emilia Romagna, perché il mondo nel frattempo ha fatto un giro su se stesso di 360 gradi, venendo dietro alla teoria di Eric Hobsbawn che il Novecento, “il secolo breve”, era terminato proprio allora, con la fine del comunismo.

“I’m worse at what I do best”, in quel che faccio meglio sono il peggiore. È un verso chiave di Smells Like Teen Spirit, suonata per la prima volta a Seattle il 17 aprile 1991. È la prima traccia di Nevermind, secondo album dei Nirvana (1991) e disco più importante degli anni Novanta. Il leader Kurt Cobain è certamente l’ultima rockstar della nostra epoca, l’unico capace di riprendere lo stile autodistruttivo degli anni Settanta e farlo diventare qualcosa di attuale, poiché al disagio sociale e giovanile ha sostituito il cupo esistenzialismo del male di vivere senza soluzioni. Una parabola breve e luminosissima, che si spegne la mattina dell’8 aprile 1994, quando Kurt decide di mettere fine alla propria disperata esistenza. Eppure in pochi potevano immaginare che avessse deciso di lasciare un testamento di struggente bellezza a New York, negli studi di MTV, registrando l’Unplugged acustico il 18 novembre 1993, con tanto di viole e violoncelli, del tutto inconsueti per chi è abituato a violente schitarrate, come è anomalo il repertorio composto da diverse cover, tra cui The Man Who Sold The World di David Bowie e Where Did You Sleep Last Night?, del bluesman Leadbelly, ultimo pezzo inciso su disco da Cobain prima di congedarsi dal mondo. Un concerto che, ricorda Guaitamacchi, è entrato nella storia così come la battuta rivolta a Bowie da un fan tempo dopo: “Bella la cover di The Man Who Sold The World dei Nirvana che fai fatto stasera”.35
Arrivano da Seattle, portano jeans stracciati, All Star consumate e ampie giacche di lana a quadri. La critica li definisce “grunge”, derivazione di grungy, sporco, sudicio. Non c’è nulla che li possa distogliere dall’analisi minuziosa e maniacale del loro quotidiano. Né commedia né tragedia nelle loro canzoni, ma semplicemente quel sentimento patetico e grottesco che negli stessi anni invade anche l’arte. “Pathetic Art” è proprio la formula che trova il critico americano Ralph Rugoff per definire l’utilizzo di materiali poveri, di scarto, dove l’intervento è minimo e dove si cerca di ricostruire una storia di nessuna importanza seguendo le tracce del proprio personale fallimento. Loser – perdente – di Beck potrebbe essere la canzone simbolo di questo atteggiamento, così come la mostra chiave si chiama “No Man’s Time” (Villa Arson, Nizza 1991), ossessivamente diaristica fin dal formato del catalogo, un piccolo libretto tascabile che raccoglie appunti e frammenti. Peraltro, un’esposizione che lancia sul panorma internazionale alcuni artisti destinati alla celebrità, come Philippe Parreno, Dominique Gonzalez-Foerster, Pruitt & Early, Karen Kilimnik…

 

Pop Brit

Beatles vs. Rolling Stones trent’anni dopo? Qualcosa del genere, anche se non è chiaro chi indossa i panni dell’uno e chi dell’altro. In ogni caso, nell’estate 1995, i media inglesi spingono ai massimi livelli la rivalità tra le due band che incarnano lo spirito dei ruggenti anni Sessanta. Da una parte gli Oasis dei fratelli Gallagher, mancuniani, tipi da bar e da stadio con la tendenza al litigio, hanno appena pubblicato il loro migliore lavoro (What’s The Story) Morning Glory?. Dall’altra i Blur capitanati dal raffinato Damon Albarn, intellettuale e ricercatore attratto da mille progetti paralleli (i virtuali Gorillaz e la collaborazione con musicisti del Mali) , stanno per dare alle stampe The Great Escape, che uscirà in settembre. Chi dei due la spunterà? Difficile dirlo, è una questione che divide i fan e i giornali. Memorabile, a tenere alta la tensione della sfida, il concerto dei Blur al Mile End Stadium di Londra del 17 giugno 1995, che sposta l’equilibrio verso gli eleganti londinesi. Il vero valore, comunque, sarà la storia a deciderlo. Per ora, dopo l’ennesima litigata familiare, gli Oasis si sono sciolti e Liam ha fondato la sua nuova band, denominata Beady Eye; pare invece che il 2011 porti a una possibile, troppe volte annunciata e poi smentita, reunion dei Blur con un album di inediti.
Oasis e Blur non sono le due punte dello straordinario attacco che l’Inghilterra portò al mondo della musica, e non solo, negli anni Novanta, al punto che i media non trovarono miglior definizione del ripristino del termine Brit Pop. È tornata la Swinging London degli anni Sessanta: il sound, l’arte, la moda, lo stile, il cinema, la letteratura entrano in cortocircuito per un continuo mix tra linguaggi. Rimanendo in ambito musicale, accanto al proliferare di gruppi pop dalle alterne fortune (basta il disco d’esordio agli Stone Roses per entrare nel mito, Jarvis Cocker dei Pulp è un’icona della coolness senza aver pubblicato nulla di memorabile e i Verve di Richard Ashcroft si sono persi dopo il successo di Urban Hymns), è soprattutto l’elettronica a restituire il mood inglese degli anni Novanta, con l’esplosione di Drum and Bass, Trip Hop, in particolare della cosiddetta scuola di Bristol che ha i suoi eroi nei Portishead, Massive Attack e in Tricky.
Tutto questo mentre le riviste dettano legge nel campo del design e della moda (con Alexander McQueen che, in quanto a creatività, prende il posto di Vivienne Westwood), nella letteratura esplode il fenomeno acido con Trainspotting di Irvine Welsh, che sarà anche un film martellato dal suono indimenticabile di Born Slippy degli Underworld. Soprattutto l’arte registra il più incredibile fenomeno occidentale dalla Pop Art in qua, ovvero la YBA di Damien Hirst e compagni, culminata con l’ultima mostra epocale del Novecento, “Sensation” (1997): quella dello squalo in formalina, del letto sfatto, del calco del padre morto, del ritratto della babysitter assassina, della madonna nera appoggiata su sterco d’elefante…
Non fortuito e ancor meno occasionale il rapporto tra questa generazione di artisti e la musica. La mostra che sancisce storicamente il trio da cui tutto ha preso origine –Angus Fairhurst, Damien Hirst e Sarah Lucas – si intitola In-A-Gadda-Da-Vida come il famoso pezzo psichedelico degli Iron Butterfly; lo stesso Hirst ama molto farsi accompagnare ai vernissage delle sue mostre da amici musicisti (a Montecarlo nel 2010 suonano per lui i Flaming Lips) e in passato aveva firmato come regista il clip Country House dei Blur. Percorrendo la stessa strada in senso opposto Jarvis Cocker è un vero appassionato d’arte: ha coinvolto il pittore americano John Currin nel video This Is Hardcore e ha accompagnato l’artista astratto Gary Hume durante il vernissage della Biennale di Venezia del 1999.
Questa storia per dire che se una cosa funziona bene è più facile che anche le altre seguano a breve distanza.

 

Ma è ancora vivo il rock’n’roll?

Scampati a una delle tante annunciate fini del mondo (la prima avrebbe dovuto essere il 31 dicembre 1999 ed è andata, attendiamo la prossima per il 2012) non è certo stato uno scherzo ciò che è capitato a New York l’11 settembre 2001. Paragonati al primo decennio di altri secoli, dove la spinta innovativa fu fortissima, gli anni Zero hanno mostrato al mondo un’espressione paralizzata, racchiusi tra il crollo delle due torri e quello dell’economia mondiale nell’autunno 2008.
Poche le mostre memorabili di questa prima parte del secolo – la più importante “Ce qui arrive” curata dal filosofo Paul Virilio, è incentrata sulle catastrofi, provocate dall’uomo e dalla natura, che l’arte in qualche misura deve sapere rappresentare. L’industria del disco è entrata prima in crisi poi in drammatica sofferenza a causa del fenomeno del download che permette di scaricare da Internet tutto ciò che interessa evitando di spendere quasi venti euro per un dischetto di plastica. Probabilmente l’estetica musicale ne ha risentito e infatti i fenomeni di maggior successo puntano sul brano singolo piuttosto che sull’intero disco. Il concept album degli anni Settanta appartiene ormai all’era giurassica del rock.
Ciò che invece non sembra aver subito recessioni è la musica live, che continua a rappresentare il momento clou della fruizione, pur senza presentare troppe novità, al punto che gli anni Zero si sono distinti per il fenomeno delle reunion (Police, Who, Sex Pistols, Simon & Garfunkel, Queen senza Freddie Mercury, Cream, Crosby, Stills & Nash, Genesis, Led Zeppelin) e del recupero degli evergreen (Depeche Mode, AC/DC, Springsteen, Cure, Neil Young, Patti Smith, Lou Reed, Iron Maiden, Leonard Cohen).
Quando invece dobbiamo pensare a ciò che lascia in eredità il rock dell’ultimo decennio, facciamo un po’ di fatica: Coldplay e Muse sul versante pop commerciale, Lady Gaga come surrogato di Madonna, White Stripes per il tormentone che ha accompagnato la vittoria della Nazionale di calcio italiana ai Mondiali del 2006, Strokes, Arctic Monkeys e Franz Ferdinand tra i gruppi indie.
L’unico nome sul quale c’è unanimità di consensi è quello dei Radiohead. Ogni loro disco suona come un ulteriore capolavoro (non ne hanno mai sbagliato uno, mostruosi), in ogni esibizione dal vivo Thom Yorke riscrive il palinsesto e la scaletta (notizia non a margine, il tour 2008 si è connotato di istanze ambientaliste) e sono stati la prima band di fama mondiale a ribellarsi alla dittatura delle etichette discografiche pubblicando i dischi prima sul web poi nei negozi. E comunque, a prescindere da ogni considerazione, i Radiohead sono la massima espressione nella poesia sonora da quindici anni a questa parte.
La stampa, nel frattempo, si diletta a recitare il periodico de profundis per il rock, che non sarebbe neanche lontano parente di quello che esplose negli anni Sessanta, si affermò nei Settanta, si consolidò negli Ottanta per offrire le ultime forme di innovazione nei Novanta. E poi?
E poi sono in molti a leggere come data simbolo di un’epoca davvero finita il 25 giugno 2010. Quel giorno a Los Angles Michael Jackson muore di arresto cardiaco con una modalità tragica che ricorda molto la fine di Elvis, a Memphis il 16 agosto 1977. Jacko stava progettando il suo rientro, partendo da Londra per poi proseguire a New York e a Mumbai.
This Is It, questo è quanto, ma non penso che una storia possa davvero finire del tutto. Per due volte si è fermato l’orologio del rock’n’roll, ma poi è sempre ripartito.


 

Note
1) Guaitamacchi Ezio, Mille concerti che ci hanno cambiato la vita, Rizzoli, Milano 2010, pp. 16-17
2) Paytress Mark, Io c’ero. I più grandi show della storia rock & pop, Giunti, Firenze 2007, p. 12
3) Bertoncelli Riccardo, Zanetti Franco, SGT Pepper. La vera storia, Giunti, Firenze 2007
4) Beatrice Luca, Visioni di suoni. Le arti visive incontrano il Pop, Arcana, Roma 2010. Su Paul Thek “Diver. A Retrospective”, Whitney Museum of American Art, New York, 2010-2011 (cat.)
5) Bertoncelli Riccardo (a cura di), 1969. Storia di un favoloso anno rock da Abbey Road a Woodstock, Giunti, Firenze 2009, pp. 257-287
6) Guaitamacchi Ezio, op. cit., pp. 143-144
7) Kent Nick, Apathy for the Devil. Memorie dagli anni Settanta, Arcana, Roma 2011, p. 31
8) Bertoncelli Riccardo (a cura di), 1969. Storia di un favoloso anno rock da Abbey Road a Woodstock, cit., p. 40.
9) Spitz Bob, The Beatles. La vera storia, Sperling & Kupfer, Milano 2006, pp. 528-529
10) Bertoncelli Riccardo (a cura di), 1969. Storia di un favoloso anno rock da Abbey Road a Woodstock, cit., p. 42
11) Ronnie Red, “3 giorni di Woodstock, un’estate a Riccione. Pace, amore, musica”, Riccione 2009, sip (cat.)
12) Bertoncelli Riccardo (a cura di), 1969. Storia di un favoloso anno rock da Abbey Road a Woodstock, cit., p. 244
13) Ibidem
14) Guaitamacchi Ezio, op. cit., p. 157
15) Richards Keith, Life, Feltrinelli, Milano 2010, p. 262
16) Ivi, p. 264
17) Chick Stevie, Psychic Confusion. La storia dei Sonic Youth, Arcana, Roma 2009
18) Lazar Zachary, Sway, Einaudi, Torino 2008
19) Hapkemeyer Andreas, Beatrice Luca, Raymond Pettibon. The Pages Which Contain Truth Are Blanck, Museion, Bolzano, GAM, Bologna 2003 (cat.)
20) Savage Jon, Pepper Terence, Beatles to Bowie. The 60s Exposed, National Portrait Gallery, Londra 2009-2010 (cat.) National Portrait Gallery Publications
21) Hirst Damien, Burn Gordon, Manuale per giovani artisti. L’arte raccontata da Damien Hirst, Postmedia books, Milano 2004
22) Guaitamacchi Ezio, op. cit., pp. 319-320
23) Savage Jon, Il (grande) sogno inglese. I Sex Pistols e il Punk, Arcana, Roma 2010
24) Greil Marcus, Tracce di rossetto, Odoya Cult Music, Milano 2010
25) EuroPunk. La cultura visiva punk in Europa, 1976-1980, Drago Editore, Roma 2011 (cat.)
26) Lissoni Andrea, “Fra tirare i remi in barca con disincanto e scavare troppo a fondo senza paura. Arte, artisti e immaginari dagli anni Zero”, in Antonelli Carlo (a cura di), Gli anni Zero, Isbn Edizioni, Milano 2009, p. 258
27) Guitamacchi Ezio, op. cit., pp. 298-299
28) Beatrice Luca, Da che arte stai?, Rizzoli, Milano 2010
29) Guaitamacchi Ezio, op. cit., pp. 369-370
30) Ivi, pp. 391-392
31) O’Brien Lucy, Madonna, Sperling & Kupfer, Milano 2008, p. 65
32) Liggeri Domenico, Musica per i nostri occhi. Storie e segreti dei videoclip, Bompiani, Milano 2007, p. 360
33) Ivi, p. 387
34) Guaitamacchi Ezio, op. cit., p. 464
35) Ivi, p. 615

 

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