Viktor-Misiano    
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Ubaldo Fadini    
"L’arte del fuori"  
 
   
 

 

Osservazioni sull’arte e sul cyberspazio  
     

 

Nel suo dialogo con Enrico Baj sull’“orrore dell’arte”, Paul Virilio prende criticamente in considerazione il motivo dell’immagine correct, prodotta da quell’arte della “motorizzazione”
(“attraverso la proiezione, i fasci di luce fortissima, le video installazioni, l’alta definizione”), che sembra oggi declassare ogni altra sensibilità e figurazione ottica, grazie alla sua “efficacia” e “spettacolarità”, fino ad accennare addirittura ad una vera e propria “sparizione della pittura, del disegno e dell’incisione” (1).

Anche riprendendo la nota formula di M. McLuhan sul “villaggio globale” non si può che prendere atto, secondo Virilio, che il “villaggio” si è ampliato fino a coincidere oggi con la realtà della globalizzazione,
dentro la quale la comunicazione (mediante “schermo”) viaggia a velocità straordinarie. La realizzazione di immagini sempre più spettacolari – e qui sarebbe importante articolare un rinvio allo “spettacolare integrato” di G. Debord – conduce, all’interno della realtà “globalizzata”,
ad una marginalizzazione crescente degli artisti che continuano a lavorare con tecniche di rappresentazione diverse da quelle specifiche dell’arte motorizzata, tanto che si avverte oggi l’urgenza di una riproposizione seria della questione dell’arte: di nuovo, che cos’è un’opera d’arte?,
soprattutto nel momento in cui lo sviluppo della microelettronica che s’ “incarna” in Internet sembra favorire un modo diverso di concepire la “ricettività”, trasformandola radicalmente
(per non dire; mutandola in qualcosa d’altro), in particolare nei confronti di una istantaneità che si confonde con la pratica tradizionale della falsificazione, con la produzione di una vera e propria “arte del falso”.

E’ però altrettanto significativo che l’arte contemporanea, nella sua evoluzione, appare spesso come lo stimolo più appropriato per una proliferazione di discorsi di taglio filosofico, estetico, soprattutto nel momento in cui il raffinarsi delle tecnologie della comunicazione si propone come “ambiente” apprezzabile di una pratica espressiva caratterizzata in termini nuovi. (..) In questo senso, anche nel rinvio alla rete come nuovo “ambiente” della produzione di immagini deve essere fatto valere il principio tipico dell’inclusione (e non dell’esclusione) che contraddistingue un campo come quello del cyberspazio che “è votato a interconnettere e mettere in interfaccia tutti i dispositivi di creazione, registrazione, comunicazione e simulazione” (2).

 

In effetti è possibile pensare allo stesso cyberspazio come ad un cantiere da designare e riconoscere come “traguardo di bellezza”, così come sostiene Pierre Lévy, nel senso che con esso si disegna un ambiente tecnoculturale in grado di favorire l’affermazione di forme artistiche non più caratterizzate dalla “separazione tra emissione e ricezione, composizione e interpretazione” (3)(..)

Lévy insiste in modo particolare sul fatto che lo sviluppo di nuove forme d’arte non può che essere favorito da un ambiente tecnoculturale da intendersi come una sorta di “possibile” concreto sempre aperto alla realizzazione e alla mutazione. E’ questo “mutante” complessivo – cioè lo spazio antropologico del sapere, del virtuale per eccellenza, delle reti – a costituirsi oggi in termini tali da rinviare appunto ad una nuova forma d’arte, in grado di proporre, a coloro che ne partecipano, “altre modalità di comunicazione e creazione”.

L’“artista” opera per delineare “un ambiente, un dispositivo di comunicazione e produzione, un evento collettivo” che viva del coinvolgimento dei destinatari, portandoli come “attori” all’interno di un’azione che si qualifica appunto come essenzialmente “collettiva”.
L’arte del cyberspazio non si identifica con delle opere in particolare, ma si caratterizza come articolazione di processi, come pratica creativa di/in un ambiente vivente di cui i “molti” sono i coautori (si possono ricondurre le manifestazioni di questo ciclo creativo “a momenti, luoghi, dinamiche collettive, non più a persone”). In breve, si dà la possibilità concreta che un cervello collettivo, dei collettivi intelligenti, in virtù dei nuovi mezzi di comunicazione, possano dare “corpo” (in questa prospettiva: un “corpo” artistico), come immaginante multiplo, a processi di invenzione continua (di lingue, segni, figure…).

 

E’ in quest’ottica che si può sostenere, come fanno critici acuti, che l’opera d’arte si sta radicalmente trasformando, così come probabilmente sta metamorfosando la stessa figura dell’autore. Quest’ultimo si presenta sempre più oggi come parte esecutiva (quindi non come “tutto”) di una sperimentazione progettuale e teorica che non è affatto riferibile a un unico soggetto. Naturalmente l’attenzione va qui portata sulla dimensione dell’arte reticolare, così come si articola nel mondo del digitale a partire dalla sua dinamica essenziale di richiesta di partecipazione generalizzata.

E’ qui che si può apprezzare un’idea di identità artistica non scontata, lontana da forme tradizionali, nel momento in cui il rapido sviluppo tecnologico favorisce una metamorfosi dell’identità dell’autore nella sottolineatura del carattere di impresa collettiva di molte tendenze dell’arte odierna in rete. L’ambiente “elettrico” dell’artista mette in comune i segni, ma non si limita a porsi come terreno di diffusione e di distribuzione dell’arte: i gruppi, le comunità, che lo costituiscono/costruiscono sono autori di pratiche espressive. Queste ultime non sono minimamente afferrabili senza una comprensione della loro qualifica comunitaria, che ci stimola ad approfondire un “nuovo” modo di intendere ciò che si definisce come “autore” (e il suo “ruolo”).

Queste comunità “ci dicono che l’arte è ormai dappertutto e gli autori sono in ogni luogo, in qualsiasi dimensione sociale, volendo esagerare: in qualsiasi estensione collettiva, in qualsiasi grandezza pubblica, in qualsiasi lunghezza comune alla fisicità ambientale, (..)(4).
L’espressione “reale” dell’intelligenza collettiva – la rete o il complesso delle reti – appare dunque oggi come opportunità, per coloro che sono interessati a pratiche artistiche fondamentalmente dis-individualizzanti (“di-segni senza nome”), di contatto con le potenzialità segniche, estetiche, della dimensione dell’intelligenza “comune” (..)

 

Non si può allora non sottolineare il fatto che la progressione telematica ha apportato maggior “spirito democratico” alla creazione artistica e allo stesso sistema dell’arte, conferendo ancora più senso alla concezione duchampiana di un’arte non più sotto tutela, cioè sovradeterminata dai poteri forti dominanti, a livello temporale, simbolico, segnico ecc. Nel momento in cui l’opera d’arte acquista forma virtuale,
come opera d’arte delle reti, essa dismette la sua tradizionale veste oggettuale per diventare evento fluttuante, flusso comunicativo variabile e collettivo, veicolato attraverso i molteplici reticoli del cyberspazio, laddove vale il principio dell’inter-azione. E’ in quest’ottica che si può apprezzare come l’arte delle reti produca “comunità”, diventando essa stessa una rete, un vero e proprio medium per individui/collettivi differenti e rivelando così una capacità di critica nei confronti dei meccanismi di produzione della cultura all’interno della società dell’informazione globale.

Una riflessione di ampio respiro sull’arte novecentesca non può fare a meno di avvertire come essa presenti alcune linee di sviluppo che sembrano sfociare nello scenario artificiale, in quella Umwelt della rete, in cui oggi si colloca la sperimentazione (tecno)-artistica.
Da una parte, si concretizzano dei processi di messa in discussione radicale del concetto di arte come oggetto (“merce”) di collezione e/o di esposizione museale (inserito all’interno di un ben definito sistema di mercato artistico), della figura unitaria dell’artista, che si presenta oggi come frammentata in una pluralità aperta di fruitori in grado di movimentare e prolungare nel tempo la stessa creazione artistica; dall’altra,
è proprio alla risoluzione dell’oggetto d’arte materiale nella cosiddetta “arte sociale” che si può agganciare il motivo dell’ “arte del fare network” a cui si collegano gli esiti odierni della “net-art”, che vedono la creazione nella rete di spazi virtualmente esistenti ad opera di artisti in grado di partecipare insieme alla realizzazione del valore-arte.

C’è, in questo particolare fare arte, un’idea della creazione possibile di uno spazio comunicativo mobile, aperto, metamorfico, predisposto al manifestarsi di un protagonismo consegnato nelle mani di collettivi in grado di autogestirsi: ciò anche in virtù delle accelerazioni tecnologiche e dei dispositivi di interfaccia che permettono la co-evoluzione delle distinte pratiche umane e delle stesse operazioni artistiche. Si può anche affermare come l’arte delle reti sia costitutivamente una “arte del fuori”, di un “fuori-interno”, per dirla con Foucault, in grado cioè di disegnare il protagonismo dei divenire, della infinità di trasformazioni, delle tante “teste” e dei tanti “corpi” che nella nuova Umwelt elettronica trovano la possibilità concreta di una espressione non mortificata/depotenziata.

C’è infine anche una ripresa di “apertura al mondo” in questo sperimentare, che si può restituire in una particolare traduzione della celebre formula di P. Klee, quella dell’arte come resa visibile dell’invisibile, da “complicare” nei seguenti termini, che ancora molto devono alle suggestioni critiche foucaultiane: l’arte delle reti ha il compito, tra l’altro, di rendere visibile, nel suo operare, come l’invisibile rimanga tale. Può riuscire in ciò, a mantenere il contatto con delle forze potenziali di creazione, nel momento in cui si delinea sotto veste di agente collettivo, come un “fenomeno collettivo”, una sorta di catalizzatore a cui rimandare ancora una volta una pratica di libertà.

 

Note
1) E. Baj – P. Virilio, Discorso sull’orrore dell’arte, tr. a cura di E. Baj, Elèuthera, Milano, 2002, p.21.
2) P. Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, tr.di M. Colò e D. Feroldi, Feltrinelli, Milano, 1996, p.126.
3) Ivi, p.129.
4) G. Perretta, Art.comm. Collettivi, reti, gruppi diffusi, comunità acefale nella pratica dell’arte: oltre la soggettività singolare, Cooper & Castelvecchi, Roma, 2002, p.7. Accanto al testo di Perretta pongo anche le riflessioni di studiosi particolarmente attenti agli sviluppi dell’arte multimediale digitale: in primo luogo, rinvio alle analisi di M. Costa; ricordo però pure gli studi di M. Deseriis e G. Marano.

 

 
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