ARTEXT
ARTEXT |MAGAZINE | BOOK | INFO |  
 
 




 

Emilio Isgrò  

 

- Puoi raccontare il processo creativo che ti ha portato a realizzare "Dichiaro di non essere Emilio Isgro''.

- Nel 1968, alla fine delle prime tre puntate del Cristo cancellatore (edizioni Apollinaire), una nota diceva : "L'editore avverte che queste pagine sono state cancellate da Gesù Cristo", e sul frontespizio mancava il nome dell'autore. Era il mio primo rifiuto dell'identità e Pierre Restany arguì che io mi identificavo con il Cristo (un Cristo non cristiano, ovviamente) come qualcuno, nelle case di cura, si identifica con Napoleone.

- Questa non è l’unica volta che hai lavorato sull'identità e sulla sua negazione.

- Nel 1969, in una mostra alla galleria del Naviglio, mi dedicai tre opere. La prima diceva: Emilio Isgrò (a sinistra) medita sull'immortalità dell'anima. La seconda: Emilio Isgrò (sotto l'albero) medita sul destino del vecchio continente. La terza : Emilio Isgrò (al centro) scivola verso la morte. E in tutti  e tre i casi appariva un vasto fondo grigio, vuoto e struggente, privo della mia immagine. Le vestali della nostra cultura (facitori di versi, lettori di case editrici, critici del regime) conclusero giustamente che il mio era un caso limite di narcisismo : qualcuno, preoccupato del mio futuro, mi consigliò di non eccedere. Ma che cosa sarebbe la mia vita se mi si vietasse di eccedere?
Nel febbraio del 1971  ho dichiarato (vedi il relativo dossier) di non essere Emilio Isgrò e ringrazio gli amici Arturo Schwarz, Guido Le Noci, Franco Vaccari, Fiorella Minervino, Amalia Rinaldi, Basilio Reale, che hanno voluto accogliere quella confessione.

- Forse solo sdoppiandosi l’artista rappresenta l'ambiguità del mondo e del linguaggio che vive continue metamorfosi.

- Vorrei rispondere che mentire è una mia abitudine. Ma preferisco dire, a scanso di equivoci, che la menzogna è uno dei procedimenti logici di cui mi servo.

- Nell’ Avventurosa vita di Emilio Isgrò uno dei falsi testimoni dichiara: " Era sicuro (Isgrò) che prima o poi Andy Warhol sarebbe diventato l'Emilio Isgrò americano". Cosa vuol dire?

- Che prima o poi Andy Warhol dovrà riconoscere di essere anche lui cittadino di un mondo sconfitto.

- In quegli anni sostenevi - Io non rappresento la realtà: io rappresento la distanza che mi divide dalla realtà.

- Erano gli anni più duri della guerra del Vietnam e i bonzi si bruciavano sulle piazze. Da lì mi era venuta l’idea di questo suicidio rituale che, cancellandomi provvisoriamente, e schermandomi mi salvasse almeno come artista e come individuo.

- Cancellare se stessi per assumere identità altre! A volte ribadisci tutto questo in una versione spettacolo, in una versione-platea. Perché “le mie cose non hanno una sola destinazione, ma mille, centomila destinazioni” e sostieni:  “Vivo dove c'è aria per respirare, cinque minuti, perché di più non si può vivere”.

- L’arte [--] vive di deviazioni e di scambi, di mascherature e di smascheramenti, di avvistamenti e di svisature linguistiche. Vive dove è e dove è non vive.



Emilio Isgro

 Le Api di Lipari. 2014   Frame


- Vuoi parlare di questo nuovo lavoro in video - Le api di Lipari - al Centro Luigi Pecci.

- Video d’artista con cancellature mobili su Maledetti toscani. Partendo da un autoscatto realizzato da Malaparte negli anni del confino a Lipari – l’antica Meligunis, l’isola delle api – viene rievocata l’Italia degli anni Trenta in cui lo scrittore affermò la sua presenza, riassumendo in sé le drammatiche contraddizioni di un mondo ormai distante e defunto: non così distante, tuttavia, da non doverne esorcizzare gli effetti con gli strumenti dell’arte e della cultura.

- Farfalle, api e formiche che si posano sui libri e sciamano sulle pagine come precedentemente crome e semiminime sugli spartiti aperti sui leggii dei pianoforti alludono alla corruzione e alla trasformazione della realtà naturale. Cancellature mobili, sono state definite, a conferma di come lungo i decenni la cancellatura si affermi come una strategia visiva e mentale capace di mutare metodo e discorso.

- Questa è la cancellatura. Una macchia che copre una parola, la separa dal mondo, la libera.

- Come vivi la situazione attuale, il collezionismo, il Museo?

- Ci sono molte difficoltà. Mi sembra che il mondo dell’arte così come è non regge più. Ha smarrito la sua verità. Ed il pubblico che acquista arte lo percepisce, e si chiede dove potrà condurre tutto questo.
Certo la globalizzazione è una cosa meravigliosa e necessaria. Ma di un mondo globalizzato, si dovranno vedere anche i suoi limiti. L’Italia dovrà mostrare il suo profilo migliore. Di una popolazione colta che cerca modelli culturali nuovi, consapevole del suo valore.
Ad esempio il Centro Pecci che aprirà la sua attività, si potrà permettere gli artisti alla moda che propone il mercato dell’arte? L’Italia non può permetterseli, costano troppo e non si sa se valgono tanto.
Si dovrà quindi inventare un modello nuovo.
Proporre un'arte che sia soprattutto umana. Perché l’arte che ci viene offerta, a volte non è tale. Non ha utilità alcuna un’arte che contribuisca alla disumanizzazione dell’uomo.
Ho molti amici che comprano arte, e lo dico con affetto – non fanno altro che un listino di borsa –
Mentre dell’arte si dovrà dire solo quanto vale, non del suo costo.     

- L’artista ha ancora un posto nella società?

- Chiedere ad un artista quale sia (oggi) il suo posto nella società, è come chiedere a un bruco quale sia il suo posto nella natura. Né l’uno né l’altro può dirlo.



Emilio Isgro

     Dante, 2014, acrilico su tela montata su legno, 140x249cm.


- Colpiscono gli undici “Ritratti incancellabili” preparati per Palazzo Pretorio. E si  apprezza, il gioco delle identità umane che coinvolge Michelangelo e Galileo, Dante Alighieri e Lorenzo il Magnifico. In che rapporto stanno queste opere con la celebre installazione del 1971, Dichiaro di non essere Emilio Isgrò, ora accolta nella galleria degli autoritratti degli Uffizi?

- Sono la continuazione di un discorso identitario allargato alle civiltà umane nel loro complesso. Quando lo stesso Leonardo da Vinci, dico il sommo Leonardo, pronuncia le parole che un artista non dovrebbe mai dire – Dichiaro di non essere Leonardo -, dubitando così della sua stessa esistenza storica, vuol dire che la società mercatista è arrivata là dove neppure Hitler e Stalin erano arrivati: la distruzione della memoria. E dunque della stessa poesia, che della memoria è la custode più fedele.

- Sei stato definito “un grande pittore di storia”. Hai qualche attitudine per la pittura?   

- Non so stendere un colore sulla tela e tremo al pensiero di essere chiamato, prima o poi, all’esame più difficile: quello di tracciare una linea dritta con lapis e riga. Credo che molti pittori potrebbero dare una risposta del genere. Anche se io, forse, ho l’attenuante di non considerarmi un pittore ma un poeta che scrive per immagini. Il mio quadro, allora, non può che essere un luogo duplice e doppio.
Il primo luogo è quello della possibilità, e contempla un conflitto tra forze opposte e materiali non equiparabili. Un conflitto, per esempio, tra segno iconico e segno verbale. Questo significa che le parole e le immagini, schierate sulla superficie come in una pagina bianca, dovranno in qualche modo determinare un’azione, uno scambio, un dramma.
Il secondo luogo è quello dell’impossibilità, e prevede la trasmutazione del limite in limite infinito. Se non so scrivere, dirò che la cancellatura è la forma più alta di scrittura. Se non so tracciare una linea dritta, griderò che l’universo è fatto di linee storte. Sul piano delle tecniche e dei materiali, infine, adotterò tutti gli accorgimenti capaci di rendere possibile l’impossibile e impossibile il possibile.

- In definitiva, si potrebbe pensare che proprio attraverso le tecniche del linguaggio tu voglia negare  ogni relazione necessaria tra pensiero e realtà, quindi tra realtà e rappresentazione.

- Certamente devo dire che io esprimo si questa impotenza dell’arte ad afferrare il reale e a stringerlo in un pugno. L’impotenza di Dio è l’impotenza dell’uomo e dell’artista, delle sue conoscenze e del suo operare. Ma (..) quest’inquietudine mi dà un delirio di ebbrezza e di felicità enorme. Sono felice nell’accorgermi che l’arte non possa più nulla”.



/Emilio Isgro  

       La pelle scorticata, 2014,   Teatro Metastasio Prato  Photo Ivan Dali


- Per “La pelle scorticata” Isgrò diventa Malaparte in una performance al Teatro Metastasio  scritta e recitata dallo stesso artista. Lipari e le sue api, portate dallo scirocco, invadono Prato e la Toscana. Forse Curzio è tornato nella vecchia fabbrica del padre trascinato da una forza oscura, impenetrabile. O forse è rimasto confinato a Lipari, accolto come Ulisse alla corte di Eolo, il capriccioso re dei venti che gli dà in sposa una figlia. Tra l’autore della Pelle cancellato da uno sciame di api e l’artista performer (anche lui cancellato da uno sciame) si instaura quasi una sovrapposizione di identità, un dialogo-monologo sui nodi del vivere e della vita che solo la poesia può sciogliere.

- Ho realizzato questa performance pensando che solo se mi metto in gioco fino in fondo posso realizzare  questo piccolo sogno  - di andare io in scena. Mi fu chiesto a Gibellina, ma per pudore rifiutai.
E dunque dovrete avere pazienza perché ci saranno defaiances, mi mancherà la parola e mi emozionerò.
Dovrete capire che è un gioco, un grande gioco che attraversa le nostre vite - e che attraverso questo
possiamo crescere tutti insieme e un giorno fondare quel nuovo laboratorio teatrale di cui parlo:
il teatro cancellatore.

- Quali furono le circostanze per la realizzazione del trittico di Gibellina?

- L’Orestea di Gibellina – è stata l’occasione per confermare in grande che tutte le mie ipotesi sul rapporto tra spazio verbale e spazio visuale non solo erano praticabili, ma erano tra le poche ipotesi in grado di introdurre nell’arte, e ora anche in teatro, una carica dirompente capace di riscattare l’immagine del suo edonismo di superficie e la parola della sua inerzia comunicativa. E’ proprio in questo senso che parlo di prospettiva verbale.

- I problemi concreti che hai dovuto affrontare per la performance Maledetti toscani?

- Scrivendo il testo ho toccato principalmente le corde dello spiazzamento continuo, facendo di Curzio un personaggio angelico là dove il pubblico se lo aspetterebbe riottoso e sprezzante. E tuttavia nella mia performance rimane pur sempre la volontà di sorprendere che fu tipica dello scrittore. Fedele alle sue abitudini di affabulatore, il mio Curzio vive il suo confino a Lipari come si trattasse del viaggio di Ulisse alla corte di Eolo, il re dei venti. Forse i venti ideologici che lo dilaniarono per tutta la vita tirandolo da una parte e dall’altra: Senza contare che, anche dal punto di vista linguistico, spariscono nella performance l’italiano e il francese – le due lingue di riferimento dello scrittore – per far posto a un idioma che conclude l’Odissea omerica con un saluto rituale quanto augurale, “Baciamu li mani, Italia”, pronunciato da Malaparte in dialetto siculo-lipariano. E’ l’ultima mutazione del vostro grande concittadino, quella che lui gradirebbe di più. Perché spiazza anche lui. Un Malaparte buonista, nientemeno!

- Presente e passato, causa e effetto, soggetto e oggetto sono categorie di questa scrittura, che si fa immagine, voce e gesto in un rapporto di comunicazione squisitamente “affettivo”.

- Poesia e teatro, tuttavia, accettano per vero e verosimile tutto ciò che vero non è né tale può apparire. Tutte le vite sono inenarrabili. Ma tutte sono smontabili e rimontabili anche le più compatte.


Toscana 2014


 
     ARTEXT © 2014