Mauro Staccioli  
  Dino Incardi Mauro Staccioli 2009
Dorfles / Staccioli
Incontro

 


Mauro Staccioli Volterra



Dorfles  - Ho pensato che oggi potremmo fare qualcosa di diverso delle consuete e sterili “presentazioni”. Vorrei provare a fare il contrario: di solito è il critico che interpella l’artista mentre invece pensavo che oggi potresti essere proprio tu a interpellarmi.

Staccioli  - Intendi che potrei fare io a te le domande? D’accordo, ci provo.

D.  - Sì, per movimentare un po’ la cosa. Non so, tanto per dire: preferisci le opere metalliche oppure i cementi?

S.  - Sì ecco, potremmo iniziare proprio da qui. In effetti è la prima volta che faccio delle opere di metalli diversi. Cosa ne pensi? E poi per la prima volta forse, mi è venuto di dare un titolo.

D.  -  E’ interessante.

S.   - Sì, generalmente non faccio titoli, di solito i titoli miei sono il luogo e la data, magari il materiale, in questo caso ho invece dato proprio un titolo agli interventi.

D.   - A me pare estremamente importante perché io ho sempre considerato che l’arte, cosiddetta astratta, è sempre narrativa; in altre parole, la pittura, la scultura, entrambe, non sono mai astratte, come si dice per solito, ma hanno o un contenuto figurativo esplicito, quando sono effettivamente figurative, o hanno un contenuto narrativo implicito. Ora quando tu mi mostri questa opera dedicata “al bimbo che non vide crescere il bosco”, immediatamente questo mi porta a pensare che cosa possa esserci dietro questo titolo e, appena mi viene spiegata l’origine di questo titolo, l’opera acquista subito un valore estremamente diverso, molto più profondo. Come del resto hanno quasi sempre le tue sculture, cioè sono in apparenza soltanto delle grandi sagome tridimensionali ma in realtà sono quasi sempre delle coordinate del paesaggio o del luogo in cui sorgono, questo vale tanto per la grande opera in mezzo al bosco di Giuliano Gori come vale per il grande arco di Seul. C’è sempre questo raccontare qualche cosa che trasforma un posto anonimo in un posto che ha una storia: cioè creare una storia.

S.  - Sì, c’è una questione che a questo punto mi viene naturale domandarti. Come si può considerare nel contesto contemporaneo questo modo di lavorare? Di auto….

D.  - Di autocitazione se vuoi. Naturalmente lo trovo molto importante proprio oggi in cui molta dell’arte figurativa e le varie installazioni sono in un certo senso eteronome, cioè non sono che una raccolta di fattori esterni, lo vediamo anche in Damien Hirst (tanto per fare un nome tanto discusso che però ha la sua importanza) anche in un Cattelan, si tratta sempre di elementi esterni che vengono presi: il cavallo, il sasso; invece quasi sempre nelle tue opere c’è questo autoriferimento che mi pare estremamente importante.

S.   - Questo autoriferimento di cui parli lo considero sempre, mi domando cioè il cosa, il come e il perché del lavoro che faccio. Ad esempio, la scultura che tu hai visto, quell’anello che ho installato a San Martino è per me un segno proprio di quel paesaggio, della zona che inquadra: è un considerare le storie e le fatiche di quel luogo.

D.   - Sì, infatti, proprio quel cerchio a me ha fatto molta impressione, perché è posto in una posizione così eccezionale come quella che guarda Larderello e i suoi meravigliosi soffioni. Trovo importante che ci sia un segnale identificativo.

S.   - Tu sai la vicenda che ha interessato quell’intervento? C’è stata una bufera di vento terribile su Volterra e sul crinale dove ora è collocata la scultura. Il vento, la pioggia hanno allentato il terreno e a un certo punto l’anello è crollato. Il primo che si è interessato della sua risistemazione in modo da renderlo solido è stato il contadino, è andato dagli organizzatori di quella mostra chiedendo di poter fare una fondazione in cemento per assicurare l’anello a terra perché, diceva, l’anello è importante: la gente si ferma, si interessa, vengono le persone, le coppie di sposi, le comitive…. Questa attenzione segna, secondo me, quello di cui ti parlavo, il come-cosa-perché. Queste cose si fanno per una mostra o per una collezionista o un mercante, in questo caso il destinatario era un “artefice del paesaggio”, della sua qualità, colui che coltiva la terra in modo che sia espressione di un segno storico, di una storia intera che risale dagli antichi etruschi e arriva fino a noi. Questa è una cosa che a me interessa molto e mi coinvolge specialmente in questa occasione.
Ti faccio una domanda in proposito. Ho fatto un intervento alla chiesetta di Corbano, una piccola chiesa che sta completamente crollando perché non è stata tutelata. Ci sto lavorando perché, secondo me, questa costruzione che risale all’anno Mille, ha un grande significato. Ho cominciato a considerare la presenza sul territorio volterrano del secondo Papa, San Lino, che si interessava appunto degli aspetti sociali della chiesa e ho riflettuto sull’interesse della religione cattolica alla costruzione di un pensiero che va oltre gli elementi pratici. Quel dare senso all’esistenza: il matrimonio, il funerale, la cerimonia del battesimo, sono diventati elementi costruttivi di un senso, quello della vita consociata.

D.   - Giusto. Oltretutto questo mi pare un fenomeno che si riscontra anche nelle tue prime opere, penso alle Balze di Volterra ‘72, quando c’erano questi aculei...

S.   - I pali neri, sì. E le mura etrusche

D.  - Anche lì c’era questo senso di difendere un territorio. Per cui la scultura non era un ornamento ma era rendere significante una determinata zona. Mi pare che le tue opere siano sempre state legate a questa funzione. Penso a quell’opera, completamente diversa, del Palazzo delle Esposizioni di Roma. Anche lì, questa scultura che “scende le scale”... Una situazione che non si vede mai per solito… Direi che anche questo è molto significativo: dare a un’opera stabile e statica, il senso del movimento, come qualcosa che sale o scende dalle scale.

S.   - In questa manifestazione cerco di far parlare certe situazioni ambientali che hanno una loro piccola o grande, ma comunque consistente, storia. Per esempio la fattoria di Roncolla, oggi di proprietà della famiglia Inghirami, fu costruita sfruttando la fornace dell’allora proprietario, l’architetto Campani. Coinvolse degli operatori plastici, degli scultori, per realizzare puttini, fregi, … Costruì tutta la facciata della villa in terracotta. Siccome sto realizzando alcuni pezzi con la ditta Poggi di Impruneta, che celebra la sua fondazione con un mio grosso anello in conci in terracotta, allora mi è venuto spontaneo fare una semplice forma conica da mettere all’ingresso di questa villa.

D.   - Questa scultura però ancora non c’è…

S.  - No, non ancora. Si tratta di un cono di circa due metri e mezzo di argilla, di terracotta. Vorrei dedicarla a questo architetto dell’Ottocento che ha voluto realizzare quest’opera. In cima al cono c’è un piccolo foro in cui farò passare una canneggiola con le foglie, la canna sottile con cui si fanno le coperture. Un simbolo di natura. Anche questa mi sembra una dedica importante, intitolare l’opera a un architetto, a un’artista che, usando la terra, proprio la sua terra e la sua fornace ha realizzato il decoro dell’intero edificio.

D.   - Mi sembra molto interessante che tu abbia fatto un’opera di creta invece che di ferro, perché effettivamente la creta è un materiale eterno, che ha una storia lunga quanto quella dell’uomo. Mi pare importante che tu l‘abbia adoprato. Il fatto che tu non l’abbia adoprato di solito è altrettanto strano. Come mai hai spesso preferito ricorrere al cemento o al ferro?

S.   - Ti posso dire che non lo so. Certe cose nel lavoro le faccio ma non so spiegarle fino in fondo. Ad esempio alcuni giorni fa sono venuti alcuni studenti [della scuola di specializzazione] di Siena con Enrico Crispolti e Massimo Bignardi. Mi hanno posto diverse domande, per esempio visitando la chiesa di San Dalmazio, dove ho costruito un triangolo che inquadra un dipinto della metà del ‘600, un intervento, un segno che io trovo molto interessante, una geometria pulita che inquadra questa grossa tavola. Mi sono state fatte delle domande che mi ponevano il problema della religiosità, ma non ho argomenti per spiegare, è complicato.

D.   - Ah...non parliamone. Purtroppo i critici spesso ricamano delle spiegazioni filosofiche che non arrivano mai a capo, che sono sempre sbagliate. Perché è solo un’intuizione che può spiegarla. Questa è una delle cose che più ha colpito anche me, proprio perché sarebbe facile dire che questo triangolo contiene l’occhio divino, troppo facile, mentre invece è un triangolo capovolto. Se fosse stato nell’altro senso non avrebbe avuto significato. Ma non c’è spiegazione, la spiegazione non può essere altro che l’intuizione di fare così. Credo che bisognerebbe agire in questo modo, l’artista dovrebbe agire sempre così. Il critico, poi, non dovrebbe mai cercare spiegazioni metafisiche o retoriche dove nessuna spiegazione è sufficiente.

S.   - Questa è grossomodo la spiegazione che io ho dato, dico, il triangolo al di là di tutte le altre cose…diciamo che la Sicilia è triangolare ma è triangolare per caso…

D.   - Se non fosse triangolare non sarebbe la Sicilia, ossia la Trinacria.

S.   - Io non posso spiegarmi dei concetti che sono la costruzione del nostro pensiero dalla Grecia in avanti, sono troppo complessi, non posso razionalizzarmi al punto da trovare ogni spiegazione possibile per le cose che faccio. Fondamentalmente è l’intuizione che mi guida: una cosa o sta bene o sta male, o è grande o è piccola, ma la sostanza è legata a questo dato emozionale che mi spinge.

D.   - Devo dire che qualcosa di analogo io l'ho visto anche in questo insieme di prismoidi dentro al chiostro di palazzo Solaini. Mi pare molto interessante vedere queste forme insolite, anche per il loro colore, dentro al chiostro. Non so se tu facendole hai voluto, diciamo, accompagnare l’atmosfera che c’era in questo chiostro, con queste forme che sono abbastanza insolite per te.

S.   - Io le avevo già fatte e ho trovato che in quel luogo ci fosse la condizione per presentarle e renderle significative in qualche misura. Cioè l’architettura del Quattrocento con questi elementi è, come dire, provocata, provocata nella sua regolarità.

D.   - Direi che è appunto il contrasto tra l’equilibrio e la simmetria rinascimentale che attraverso questi elementi si "barocchizza", nel senso buono della parola. Qui mi pare molto interessante anche perché la tua scultura non è mai barocca come è quella di altri artisti moderni. E trovo che sono particolarmente indovinati in questo caso, perché creano una vivacizzazione dell’ambiente.

S.   - Sì, esatto. Di questo sono convinto. Anche perché poi c’è una ragione per questo lavoro, una ragione, diciamo così, di carattere antologico; in questa occasione ho fatto diversi interventi, ma non un lavoro unitario, in un'unica maniera. Ho ricollocato e avvicinato anche alcune opere di periodi diversi.

D.   - Anzi trovo che è importante per rompere una successione di dischi o di forme analoghe. Queste ultimissime opere, sia questa del bimbo [le cinque steli, ndr] che il triangolo nella chiesa, che questo gruppo di prismoidi, offrono molta varietà. Mi pare che tu sia riuscito nelle diverse tappe a creare una molteplicità di segni che è molto importante.

S.   - C’è una cosa che mi ha interessato proprio nel senso dell’intuizione e del rapporto esperienziale che ho vissuto in quel particolare luogo. Nell’ellisse che inquadra la casa dei miei nonni, dei genitori di mia mamma, dove io ho vissuto da bambino. Vicino a dove i miei genitori andarono per un po’ di tempo a dissodare la terra, su una strada che scorre lungo un crinale che permette di vedere il paesaggio di Volterra da lontano rispetto alle Balze.

D.   - Ah, sì.

S.   - Sul fondo si vedono le Balze, poi sulla sinistra si vede, e questo è sottolineato intenzionalmente, Montebradoni, il piccolo borgo fuori dalle Mura etrusche dove io sono nato. Quando ero bambino andavo a giocare in questa zona. Mi ricordo che dicevo con mia madre: “vado a ruzzà alla buca ’trusca”; questa buca era il residuo di una tomba etrusca scoperta per caso da un contadino. È dal punto in cui ho installato l’ellisse che andavo a prendere l’acqua ai miei genitori, che stavano dissodando un pezzo di terra, i “sodi”, così venivano chiamati. Quest’esperienza mi ha segnato, così come quella vissuta durante il periodo della trebbiatura. Un giorno tutti i contadini erano impegnati e si sono posti il problema di come portare i sacchi di grano alla fattoria. Ad un certo punto mi sono offerto di andare io e loro hanno accettato. Mi sono così trovato bambino di 8/9 anni, a condurre il carro con i buoi alla fattoria fino a Lischeto con questi sacchi di grano, e naturalmente ho provato l’orgoglio di un bimbo che incomincia a “impastarsi la vita” con le cose dei grandi. Così sono andato a Lischeto e sono ritornato con il carro vuoto attraversando tutta la campagna: è stata un’esperienza…

D.   - Un’iniziazione.

S.   - Questo segno che ho fatto là mi sembra che sia un lavoro definito in tal senso, mi pare che dentro ci sia un’esperienza e un paesaggio denso di eventi e che questo sia forse uno dei lavori più risolti da un punto di vista formale.

D.   - Primi passi. Giusto?

S.   - Sì, l’ho intitolata così.

D.   - Beh, primi passi che ti hanno portato lontano

 

Testo : Mauro Staccioli. Volterra 1972-2009. Luoghi d’Esperienza, Damiani Editore, Bologna, 2009.


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