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Vittorio Corsini



 

Artext   incontra Vittorio Corsini 

Firenze Castello, Scuderie Medicee. Lo studio di Vittorio Corsini.

 

 


Artext - Da dove nasce la tua arte?
Per uno scrittore, un poeta c'è un istante, un momento irripetibile, da rivivere...

Vittorio Corsini - Esistono momenti importanti, altri meno, ma la cosa che funziona quasi sempre è l'accumulare materiale, il più vario, dentro di me. Dalle letture, al cinema, la musica, le pitture, ciò che accade nel mondo, le pratiche quotidiane, ad un certo punto si sviluppa una tensione rispetto ad un nucleo, un tema, una problematica.
Così nasce il mio lavoro, fatto di nuclei apparentemente dislocati in momenti diversi.
Poi naturalmente inizia un processo fatto da interazioni, che danno vita a qualche altra cosa; direi che c'è sempre qualche domanda che mi pongo. E' importante che il lavoro assolva ad una esigenza, ma non si tratta di un soddisfacimento personale, quanto piuttosto che l'opera transiti, ponga domande, stia nel mondo.


A. - Di cosa parliamo quando parliamo di arte? attività procedurale, produzione del sensibile, attivazione di un senso altro!

V.C. - Durante i miei studi mi sono confrontato con i maestri, le definizioni, con i modi e quindi ho preso coscienza di come l'arte appartenga costantemente al proprio tempo.
E' arte ciò che in quel momento riesce ad essere tale. L'arte non è data in assoluto.
Poi diventa “assoluto”, ma col passare del tempo, perché attrae e collega altre cose.
Di cosa parliamo quando parliamo d'arte? Ho sempre pensato che l'arte sia un mondo vasto di pratiche, di linguaggi, di interrogativi.
Arte è tutto ciò che in quel momento riusciamo a far esistere e a nominarlo come tale. Nominarlo vuol dire anche pienezza del nome, della nominazione. Cosa intendo? potrei dire molte cose ed il contrario di tutte quante e tutte avrebbero comunque ragione di esistere.
Può essere “apertura”, un concetto che però ha un senso sostanzialmente labile, che sfugge e non ha una concretezza.
Cos'è allora il senso? E' la pienezza del nostro agire.
Il sapersi riconoscere in quel momento, il saper dare continuità e valore a tutto quello che ci sta intorno.
E l'arte lavora sempre su questo limite di senso, anche perché la nostra vita perde di senso continuamente ed abbiamo costantemente bisogno di trovarne altro, abbiamo bisogno di attivare nuovi territori.
Il territorio è quella zona che si attraversa, talvolta anche fisicamente, è dove si cammina. Ed essendo uno scultore mi sento con il corpo in mezzo a questo territorio.
In fondo l’artista è come un esploratore che rende visibili quei nuovi territori, che oggi sono fatti non tanto di materiali, tecniche, linguaggi, quanto piuttosto di modi, rapporti, energie.

 

Vittorio Corsini

Walkabout 2008 tappeto.legno 1800x780


A. - " Ritrovare il senso generativo primario " Come sei giunto a questa determinazione? Da dove sei partito dal minimalismo?

V.C. - Il minimalismo è stata la mia prima lezione.
Mi sono dedicato per giorni al segno minimo della "pennellata", lavorando sull'azzeramento.
Non mi ha mai entusiasmato l'oggetto cieco, ovvero l'oggetto su cui il pensiero si blocca, arriva e si ferma.
Mi interessa maggiormente il momento generativo cioè quello che ha costruito il mondo, ciò che ci circonda.
Io mi soffermo a volte a pensare all'uomo di qualche milione di anni fa, un uomo che prende la terra, la impasta ne fa una ciotola. Uno sforzo creativo di costruzione del mondo che non riusciamo più ad immaginare, ma quel gesto ha proprio cambiato il mondo, l'appartenenza, il territorio, il modo di muoverci.
Ecco a me interessa quel momento lì, in cui dall'indistinto nasce l’opera.
Per questa ragione negli anni passati ho usato il vetro blu soffiato per realizzare oggetti banali. Mi interessava il vetro blu perché era quello che più si avvicina al cielo più indistinto, al blu profondo della notte, al momento in cui l'oggetto magicamente arriva tra noi. Questo è il momento germinativo. Ed è per questo che credo che la cosa più bella sia mettersi in viaggio, non arrivare alla meta. Partire è il momento magico in cui tutte le nostre forze si organizzano per creare un senso, una forza che ci fa muovere, che ci dà la struttura per organizzarci e affrontare le varie situazioni.


A. - Altro momento della tua esperienza è il discorso sull'arte pubblica - " un' arte relazionale "
il tentativo continuo di costruire qualcosa che permette degli scambi.
Puoi dirmi come progetti queste "social macchine" come performance? di un' arte che può anche non essere riconosciuta come forma d'arte!

V.C. - Non c'è un valore per l'arte, una ragione, una definizione tale che la identifichi per sempre; costantemente abbandona dei parametri per acquisirne altri.
La “Social Machine” che io progetto non è una costruzione solo artificiosa, al contrario nasce mettendo in gioco una sensibilità che coinvolge innanzitutto colui che si mette in contatto con l’opera e la vive. Io predispongo una “macchina” che solleciti le persone a fare esperienza secondo una prescelta modalità, un luogo, ad esempio una piazza o uno spazio chiuso.
Nell'arte pubblica abbiamo vissuto molte vicende, che io trovo lontane dallo stesso concetto di “fare un’arte pubblica”; per capire meglio cosa intendo, potrei prendere ad esempio l’installazione di Richard Serra, che ha disposto in una piazza una scultura che risulta come un impedimento. Si tratta di una scultura, certo, ma il mio pensiero viaggia in altro modo, non mi piace andare contro, mi piace andare “con”, fare un percorso con qualcuno.
Andare da qualche parte, costruire qualcosa. Andare per mano.
Allora in questo senso forse si capisce cosa intendo per “Social Machine”.
Una scultura che non si riconosce come tale, che però agisce e rende possibile il vivere una piazza o un luogo con delle modalità. Ci dà delle chances!
L'arte pubblica per me è un nodo fondamentale per i nostri tempi e per l'arte stessa, in quanto essa sta ridefinendo i propri modi di agire e intervenire dentro uno spazio che non è privato (non è il museo), ma è condiviso, è uno spazio che appartiene ad una comunità, a persone che attraversano quello spazio. Quindi questa comunità può riconoscersi o non riconoscersi, integrarsi o battersi contro l’intervento che organizza e “simboleggia” questo spazio, concettualmente e nel suo contenuto.
Credo che la lastra di acciaio di Richard Serra posta temporaneamente in una piazza di NY sia una concezione ottocentesca della scultura, della scultura pubblica intendo. Come dire, poiché questa non viene più investigata, recepita, consumata, allora si sente l'esigenza di violentare lo spazio e la gente che attraversa la piazza, impedendo il passaggio – e dunque si obbliga a fare i conti con la scultura attraverso un impedimento!
Per me fare scultura è esattamente il contrario di tutto questo.
La scultura pubblica per me è qualcosa che attiva uno spazio; ne ho quindi una concezione totalmente diversa dalla piazza neoclassica con il monumento centrale, che non è una scultura, è una organizzazione complessa, un simbolo forte in cui ci si riconosce.
Ed evidenzierei anche il ruolo dello scultore in una scultura pubblica: io credo che l’artista non debba emergere come attore principale. E' molto più importante che l’opera funzioni, che si possa attraversare, che sappia dialogare che possa assumere una dimensione umana e sociale, di scambio e di relazione. Questo è per me il ruolo dello scultore, che mette in piedi un organismo che possa agire e funzionare, dove, ad esempio i bambini ci giochino.
Chiaramente i processi in questo senso possono essere di vario tipo e si definiscono di volta in volta.
Certo l'arte pubblica è un territorio molto vasto, in cui dentro ci sono molte altre cose, l'idea di rieducazione, incontri sociali, interazioni.


Vittorio Corsini

GOD Save THE PEOPLE 2007 legno.vernici.neon 128x138x192


A. - Sorge spontanea una considerazione sullo spazio.
Tu intendi lo Spazio, come Sè, come svuotamento, incavo, tessuto, spazio in-formato.
La domanda : la scultura come lo spazio è non rappresentativa…

V.C. - La condizione iniziale per realizzare la scultura pubblica è in realtà mettersi in ascolto.
Allora in questo senso parlo di spazio vuoto, concavo, uno spazio in cui le voci affluiscono, si depositano, lo spazio del Sè.
Poi c'è un lavoro da realizzare, ma il punto fondamentale credo sia la definizione del procedere di questo "lavoro", di chiarire come avvenga il processo in cui il manufatto da oggetto diventa arte; questo è il dato più complicato da afferrare.
E parliamo di un ambito delicato, in cui può accadere che l’esigenza di creazione abbia il fine di soddisfare l'Io che il più delle volte è arrogante.
L' Io, quando va bene contesta, oppure si arroga un diritto, e questo è il terreno che che ho lasciato.
Ciò che più mi interessa infatti è l’ascolto, creare assonanze. La comunità stessa per me è fatta di riverberi di una luce che ci appartiene.
E' su questo che io fondo il mio lavoro di arte pubblica.

Tenendo conto di simili presupposti, il discorso sulla “Social Machine” diventa così più concreto, meno sfuggente e complicato; dal mio lavoro vorrei che emergesse una metologia del fare arte chiara e semplice, un'arte che sta tra la gente. Anche in relazione alla percezione dello spazio, cerco di praticare la semplicità e l'autenticità dei modi. E’ quindi per sottrazione, grazie ad un processo di approfondimento che ritrovo lo spazio vuoto; esso è tale perché ho dovuto svuotarlo. E dunque faccio riferimento ad un approccio ove contano le attenzioni e non le certezze, più il sentire e l'ascoltare, che il dire.
Ed è in questo senso parlo di spazio vuoto, ma potrei riferirmi ugualmente allo spazio concavo, lo spazio che accoglie come un ventre.
L’installazione è il tentativo incredibile che fa l'artista di reintrodursi in un ventre; un approccio molto diverso da quello che richiede una scultura o un dipinto, a cui si sta davanti o ci si gira intorno, con una modalità simile a quella che si ha rispetto al corpo.
L'installazione è invece spesso qualcosa che include e che, dal momento in cui ci si trova all’interno, non si sa dove inizia o dove finisce. Trattiene, accoglie, non mostra.


A. - Periodicamente torni a riflettere sull’architettura, e sul rapporto tra corpo e ambiente,
piante architettoniche, planimetrie, tappeti - e quindi - la progettazione di cortili, fontane, giardini -
puoi dirmi di questa energia positiva dell’atto creativo, così diversa dallo stato d’animo meditativo?

V.C. - Su questo posso dire varie cose e chiaramente riflettono il mio passato, il mio vissuto in cui la necessità di camminare è sempre stata preponderante rispetto allo stare, mi riferisco proprio all’azione del camminare.
Camminare è una parte essenziale del mio lavoro, mi genera energia e molto spesso camminando progetto. Quindi esistono molti piani all'interno del progettare che si integrano costantemente e sono sempre in dialogo.
In molta parte del mio lavoro c'è un progetto vero e proprio, la mia anima ingegneristica!
C'è poi il momento della meditazione, della riflessione, il momento in cui il progetto viene percepito, quasi fisicamente digerito, e se produce qualcosa allora può proseguire il vaglio, altrimenti vuol dire che deve essere ancora elaborato e che non è diventato così semplice come dovrebbe essere.
La meditazione è sempre assolutamente presente e dà via libera al progetto. In quel momento la meditazione è proprio muta, non c'è intellettualismo sopra. C'è di fatto la percezione al suo stato puro.
Quindi questi due piani sono contemporanei ma mai un'unica cosa, sono divisi, hanno ognuno il proprio posto, ad ognuno compete un modo, una funzione.


Vittorio Corsini

Parma #33 neon corten - Torino 2009


A. - La condizione dell'abitare, del riunirsi in un luogo - come nascono alcune parti di "Opera evento"
... Aleluja cantati (caveau delle Papesse) Mantra recitati (Good save the people ambiente,
mantra condotto da Daniela Petrini Atmabhava, Poleschi arte contemporanea)
sono Performance, proiezioni che aprono spazi virtuali?

V.C. - L'arte pubblica per me è intervenire nella piazza, un luogo in cui arriva chiunque.
Dei lavori che citi, il primo è stato realizzato in un museo, il secondo in una galleria, quindi per un pubblico selezionato che ha deciso di arrivare fin lì.
Sono due opere apparentemente simili ma molto lontane.
L' Alleluja era una vera Social Machine.
Chi vi entrava dentro, due o tre persone a volta, ascoltava un Alleluja cantato da un coro. Si trattava quindi di una macchina dispensatrice di gioia. Se il luogo era stato il deposito della Banca d'Italia, con tutto il suo l'oro, il denaro, cosa potevo metterci? La gioia, che altro! Un elemento altrettanto potente di quello che c'era stato fino a quel momento.
Il Mantra è in qualche modo la prosecuzione di questo lavoro, su di un livello diverso e con modalità differenti. Nel Mantra il visitatore poteva partecipare e quindi tirar fuori energia ed emettere energia.
Il Mantra era una parte dell'opera in mostra.
C'erano persone che recitavano il Mantra, altre che si muovevano nello spazio circostante.
Il Mantra come quello dell'Alleluja, è il momento generativo di una energia. Nel Mantra si tratta di un'energia pura.

L'abitare per me è una riflessione costante, continua perché non è soltanto il risiedere in una casa o in un appartamento, è proprio un modo. E infatti quello che mi interessa è capire come è cambiata la casa, non solo architettonicamente, ma nel nostro modo di viverla, di percepirla, di dargli valore.
La casa come luogo in cui l'individuo si definisce e si realizza.



Corsini VittorioCorsini Vittorio

Conquest 2007 vetro 17x30x25cm
Gusci (a Marcel Broothaers) 1994 vetro.acciao.smalto 45x54x54


A. - Componente del lavoro sono le parole trattate nei loro tratti semantici, quasi come immagini.
La scrittura è dunque un senso da intersecare con altri sensi?

V.C. - La parola è come un segno, un disegno, all'interno dell'opera sono contigui, trapassano costantemente l'una nell'altro.
Alcuni anni fa ho iniziato una serie di disegni che per ragioni varie ho poi lasciato, in cui le parole ed il disegno nascevano in contemporanea ed erano le une integrate nell'altro, non potevano vivere altrimenti. Ma non erano le parole che disegnavano, c'era un disegno vero e proprio e c'era una parola scritta, una frase, a volte una esclamazione, una esortazione, una descrizione, il brano di un romanzo.

La parola organizza, fa procedere in modo più puntuale la nostra immaginazione e se il segno talvolta è una sorta di nebulosa, la parola è più vicina ad un vettore con tanto di direzione e di verso.


A. - Quale futuro per l'arte? Quale arte per il futuro?

V.C. - L'arte esisterà sempre perché è quel momento in cui si mettono in relazione nuovi sogni, nuovi territori. L'uomo ha esigenze di valori, di creazioni di senso, non può farne a meno dal momento in cui ha smesso di pensare esclusivamente alla propria sopravvivenza. L'arte è il futuro dell'uomo, è il suo concretizzarsi, è il prendere forma nella pienezza del senso, è la parola d'amore che si solidifica.

 

Testi
- Vittorio Corsini   Senza scultore: l’arte pubblica dopo le grandi narrazioni

 
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