Emanuele Becheri    
  Temporale 2008 still video
Alessandro Sarri
"Temporale" di Emanuele Becheri
 
   

 

JETZTZEIT

‘TEMPORALE’ DI EMANUELE BECHERI


Rendere citabili i gesti.
Walter Benjamin

 

Jetztzeit, ovvero il tempo-ora, scrive Walter Benjamin in Angelus Novus. Il tempo di una presenza che non è transito ma arresto, tempo che non trapassa indifferentemente e quindi indistintamente in altro ma che si arresta in bilico sul proprio tempo. Un tempo che non annuncia niente di passato, di presente o di futuro ma solo a che punto stanno le cose, in questo caso, trattandosi di un video, a che punto stanno le immagini. Immagini che sembrano non interrogare e che si oppongono a qualsiasi trance identificatoria, attivandosi solo nel momento in cui si innesca il futuro nel compimento del passato, un passato da sempre estinto, esaurito, visto, consumato, che taglia in questo modo l’ intervallo tra la causa e l’effetto.
Che cosa significa consumare un’ immagine nel caso del video ‘Temporale’ di Emanuele Becheri?
L’immagine è qualcosa che si lascia consumare da qualcosa o piuttosto è l’immagine, il ‘proprio’ dell’immagine il consumare se stessa proprio in virtù della propria manifestazione?
C’è un qualcosa d’esterno che sopraggiunge usurando così l’immagine o l’immagine è già l’usura diciamo, incarnata di sé? Detto altrimenti, l’immagine si può in qualche modo solo approcciare, girarci intorno, ag-girare o è possibile invece fare qualcos’altro.
Questo qualcosa che si potrebbe preliminarmente definire una sorta di cul-de-sac di un’ immagine che non può che mostrare ciò che la divide attraverso la propria unità costituisce, a mio avviso, il rilievo teorico più saliente di questo lavoro video. Innanzitutto però credo valga subito la pena di sgombrare il campo da un malinteso che rischia già da subito di neutralizzare e quindi di fraintendere un lavoro come questo.
Se, come pare scontato, il termine video non ha mai avuto né credo avrà mai a che fare con una sorta di implicitezza idiomatica che la svincolerebbe in fieri da quello che in effetti fa, come dice Philippe Dubois, video, vedo, ora in questo istante, nondimeno dicevo, questo lavoro, nell’economia di Becheri pare distanziarsi sideralmente da ogni tentativo annessionistico che l’artista intenterebbe con un medium più o meno ‘da scoprire’.

‘Temporale’, opera eminentemente video credo vada ascritta all’interno della riflessione dell’artista atta a far funzionare il supporto riattivandolo in qualche modo contro se stesso, o almeno contro il modo in cui il supporto è sempre stato rimosso in una strategia che definirei senza perifrasi ‘edipica’. Il lavoro di Becheri, come ho già avuto modo di scrivere altrove, tende ad enucleare proprio quel residuo attivo che fa retrocedere il supporto dove è sempre stato.
Pura possibilità d’inscrizione che precede ogni segno che di quel supporto diverrebbe il sicario autorizzato dal supporto stesso. In tutto il lavoro dell’artista si assiste invece ad una sorta di rigetto rovesciato, in quanto il segno non riesce a penetrare, ad infiltrarsi, più o meno edipicamente, nel supporto che in questo modo, resiste al suo annientamento.
Questo ammutinamento, questo stato “scioperato” del supporto, come lo definirebbe Carmelo Bene lo abbiamo visto, pur diversamente declinato, nel detournement del segno che viaggia insieme al supporto piuttosto che impadronirsene delle Carte Piegate, nella rivelazione a priori di un particolare che non avremmo potuto vedere anteriormente dei Rilasci, nelle decomposizioni in difetto delle Combustioni (che comprendono seppur metonimicamente anche l’installazione video ‘Time Out Of Joint’).
Anche questo nuovo lavoro cerca infatti di far lavorare il supporto facendolo restare esattamente al suo posto; ad esso non è promessa nessuna redenzione né resurrezione attraverso la propria infinita elaborazione del lutto ma la condanna a non morire mai, a restare, in altre parole, al di qua della propria funzione o finzione espiatoria. Esso non si aspetta già da sempre morto al suo compimento spettrale, alla sua vita d’oltretomba che lo inchioda alla propria sparizione necessaria per permettere l’apparizione; ciò che lo uccide per far nascere la nascita tout court.
No, il supporto in ‘Temporale’ resiste vivo proprio sulla soglia della propria apparizione in cui nulla appare tranne l’apparizione di quello che un eventuale apparizione s’incaricherà di distruggere. Accennavamo sopra ad un ritorno, ma che tipo di ritorno ‘ritorna’ in questo video?
Che cosa è un ritorno?
Parlavamo di consumazione.
Che tipo di consumazione si vede in ‘Temporale’ dunque?
Se l’immagine ( fissa, chiusa, inerziale, passiva, che sembra quasi aggrapparsi a ciò che non può non mostrare invece di mostrarlo) è quella cosa che si fa portavoce del supporto, così come sembra intenderlo l’artista, allora essa è condannata a restare sempre ‘se stessa’, a restare a sé senza nessun sé, a consumarsi in sé senza nessuna scoria o residuo di sorta, a togliere di mezzo, ancora e sempre, le tracce della propria comparsa come della propria scomparsa rimanendo come strappata a se stessa, restituita a l’immagine che nessuna immagine modificherà mai. Ora, è possibile un’immagine di questa fatta?
L’immagine infatti non è quella cosa che parassitariamente si nutre della propria vita per inscenare il “falso problema”, direbbe Gilles Deleuze, di una consistenza mediante una sparizione?
E’ infatti quella sparizione sempre presente che riesce a far vivere l’immagine della propria morte.
Detto altrimenti l’immagine muore senza sapere di vivere in un messianesimo metonimico che configura la morte già morta di una vita infinita.
Ma allora cosa accade di diverso in ‘Temporale’?
Forse assistiamo ad un’immagine che non avanza e non arretra, ad un’immagine che vive inceppata nell’istante già passato che tuttavia non si conserverà mai in un passato, né in un presente, né tantomeno a futura memoria? Un’immagine condannata a designare l’insopportabile stato di una cosa destinata a non essere altro che ciò che è sempre stata (ovviamente per cercare di avvalorare questa tesi non intendo sollecitare in alcun modo l’aiuto della presunta staticità della ripresa effettuata su di un balcone e sul relativo ‘piano sequenza’ che ne scaturisce che mostra appunto persone e cose alle prese con un temporale improvviso)?
L’immagine, in questo video, non tende verso se stessa; essa è immagine in se stessa, immagine che non è ‘altro’ e che escrive se stessa nel tempo calcinato di un’ estenuazione permanentemente in vita, privata della possibilità di sparire in un’immagine che la possa pensare da capo, ricapitolare, differenziare, ri-tenere attraverso ciò che non le appartiene.
Si potrebbe arrivare a dire che quest’immagine lascia la traccia viva della propria impossibilità a lasciare una traccia; “il piano medio che respinge qualsiasi avventura della percezione”, scrive seppur in tutt’altro contesto Gilles Deleuze.
Ciò che l’immagine di ‘Temporale’ (non) ha è già da sempre là, niente precede o procede da fuori, non c’è alcuna necessità di tenerne d’occhio i bordi, tutto si svolge, o meglio si è già svolto all’interno, nel foro che lascia passare ciò che l’immagine (non) mostra, nonostante ogni apparizione.
“Prima di essere multiplo in super-ficie, il video è plurale in sotto-ficie”, scrive il teorico del video nonché regista francese Jean-Paul Fargier. ‘Temporale’ si è già svolto dove adesso si sta svolgendo, nel sotto-vuoto di una fine che si mette ad essere già avvenuta senza peraltro situarsi mai fuori dal tempo ma bensì fuori nel tempo, non nel punto di fuga del tempo ma nella fuga nel punto del tempo.
Nel punto del tempo, nella temporalità che rivela ( aspetto questo rinvenibile in tutto il percorso dell’artista) la sua cosa attraverso un oscuramento in stasi sul proprio affioramento, in esclusivo rapporto a ciò che di sé costituisce lo sfondo cieco che da sempre tampona ogni possibilità di veggenza.
Il tempo nel punto del tempo non s’incorpora in nessuna processualità di esplorazione percettiva e in nessuna relativa semantizzazione, essendo il noema che darà vita al noema della sua restanza, come la chiama Jacques Derrida. Restanza, altro modo senza modo di dire la ventriloquia del supporto che infesta tutto il lavoro di Becheri: carta, oggetto, immagine, gesto, l’originaria (im)possibilità logica e materiale di tutto ciò che sarebbe potuto apparire.
Questo resto al di qua di sé si limita a preparare l’atto già accaduto che sta accadendo ora e mai più, antecedente ad ogni cornice, affrancato da “ciò di cui è gesto; esso cita l’accaduto e ne rimemora così l’eventualità che gli è propria, ma non è gesto per un evento”, scrive esemplarmente Chiara Cappelletto.
E’ forse questo che intende Walter Benjamin a proposito della struttura kafkiana quando parla, ancora in Angelus Novus, di “rendere citabili i gesti”?
Citabilità del gesto che corrisponde qui al suo assillante carattere (in)adempiuto, concluso in sé e di sé, già finito a dispetto di ogni inizio e già iniziato a dispetto di ogni fine. Il testo in Kafka e l’immagine in Becheri tenderebbero forse a questo; rendere visibile la presenza, il gesto, l’atto che la presenza stessa, il gesto stesso, l’atto stesso condannano a morte per poter continuare impunemente a sparire in ciò che si manifesta. Ciò che si vede in questo video è meno l’effetto della causa che la causa dell’effetto, ciò che dell’immagine resiste ad ogni differimento essendo il differire già spartito nella causa dell’effetto in cui ogni immagine inizia a non finire mai di farla ‘finita’ con sé, non riuscendo a lasciare un segno ma solo il proprio segno. ‘Temporale’ sembra appunto impossibilitato a lasciare il segno, a segnare il passo, a mostrare cioè la scissione fra momento presentativo e momento rappresentativo, non essendoci stata la separazione che l’immagine chiede per inverarsi nella congiura metonimica della propria apparizione. In virtù di ciò, ci potremmo effettivamente chiedere che cosa vediamo e che cosa ascoltiamo in questo video. Infatti, ‘l’immagine’ ( immagine s’intende qui nel senso più ampio possibile, dunque non solo visiva) che Becheri introduce, l’immagine del supporto, è esclusivamente muta? E’ un’immagine refrattaria quindi ad ogni effetto che non sia che il proprio effetto?
Che cosa implica il vedere e l’ascoltare in ‘Temporale’?
Che tipo di vista e d’ascolto occorre attivare qui?
Ma cosa significa ‘attivare’ in questo caso?
Se, come dicevamo all’inizio questo video elimina alla radice ogni contratto empatico con lo spettatore, non sono poi tanto sicuro che l’attivare qualcosa sia in fondo la giusta corrispondenza per un lavoro come questo. ‘Temporale’ si nutre proprio della totale mancanza di reversibilità, visto/vedente, sentito/senziente; esso resta lì, nel posto che la propria presenza non gli assegnerà mai.
Non prevede nessun innesco da cui allontanarsi proprio per suscitarlo; esso è un evento che non ha bisogno di realizzarsi in alcun evento e che proprio per questo non cerca più di occultare tutto ciò che potrebbe valere la pena di nascondere. Proprio così, ed è esattamente in virtù del ritmo del supporto che quello che si vede così come quello che si sente sembra quasi assurgere ad un ruolo catartico di didascalizzazione, di sottotitolo, un tentativo di sutura in extremis che l’immagine dissemina nel tentativo di ormeggiarsi al proprio sintagma.
Si avverte un effetto, un’ecolalia, un effetto trasparente (stratagemma cinematografico sviscerato esemplarmente da Hitchcock), un effetto malerisch ( stratagemma pittorico sviscerato esemplarmente da Bacon), che l’immagine cerca di dispiegare proprio per coprire o forse meglio per seppellire il ritmo del supporto. In Hitchcock il trasparente serviva per rendere la dismisura della verosimiglianza attraverso un fondale animato che ad un tempo accoglieva e sbarrava la strada alla scena che vi si veicolava.
In Bacon l’effetto malerisch si rifà principalmente al concetto di macchia (macula) che Heinrich Wollfin ascriveva al pittorico inteso come massa e non come contorno.
Tutti e due questi pharmakon, sincronicamente salvezza e minaccia sembrerebbero qui avere il medesimo scopo; quello appunto di esorcizzare la cadenza del supporto attraverso una sorta di quinta in fieri che tesse e ritesse senza fine l’ordito e la trama del proprio dispositivo di schermatura atto a disinnescare tutto ciò che appunto non si può (t)essere ma soltanto lasciar essere. Resta inteso che con immagine muta non intendiamo assolutamente riferirci ad una sorta di sorgività da cui tutto scaturirebbe, un’immagine bruta ( sia essa di matrice archetipica o trascendentale) che, mediante successivi filtraggi, si rispecchierebbe finalmente mondata nello specchio significante.
Ciò che sorge, se qualcosa sorge, è già di per sé il groviglio “bastardo”, nel senso di Aristotele, che rilancia senza sosta il travaglio anonimo del proprio aggiustamento. Ma forse e assolutamente senza nessun tipo di contrapposizione a tutto ciò, cosa che del resto apparirebbe alquanto sterile, in quest’immagine si mostra il limite del proprio al di qua, il limite come ciò che al di qua del quale l’immagine non sa che c’è qualcosa. In che modo?
‘Temporale’ rilascia una sorta di muraglia acusmatica che non investe solamente la parte sonora (ricordo che nel lessico cinematografico con acusma s’intende un suono che irrompe nell’immagine audio-visiva destrutturandola, in quanto non se ne conosce la causa o la fonte) ma la visione intera attraverso un supporto in atto che sta sempre per nascere dentro alla morte dell’immagine. In questo caso l’acusma, proprio in forza del ritmo del supporto, appare segregato, o meglio secretato dentro l’immagine stessa che altro non può fare che assistere alla ‘scena primaria’ del proprio concepimento.
L’acusma interno converge infatti nell’istante di una ‘coincidenza separata’, innominabile, di un’alterità che non si rimuove in nessuna alterità, in cui il supporto mostra l’aberrazione acrostica che scinde se stessa mentre ritira la delega al proprio spargimento in un’immagine, in un’ inscrizione in ritiro che non si posa in nessuna immagine ma che riposa sulla finitezza inesausta che ostacola la sua presenza proprio attraverso di sé. La scena del supporto non si offusca così nella catena semantica, ma s’investe del proprio irriducibile rilievo che si concretizza nel leitmotiv senza fine già finito di sé, il che ha come ‘effetto’ di riportare tutti gli eventi sullo stesso piano e di appianarli, senza più spessore, soppiantandoli clandestinamente in una contrazione monodimensionale (al di qua di ogni resa bidimensionale o tridimensionale), che giunge così ad estumulare ciò che l’immagine ha sempre rimosso, ribadiamo ancora, mediante l’immagine stessa.
L’opera scoperchia così l’assillo di un’immagine-supporto, un’immagine di gesto soltanto, cioè fissata, finita, sulla propria stessa fissità, un’ immagine impassibile che si redige come un verbale, dal reperto al referto, un’ immagine che prende atto sul proprio atto, senza regressione o conseguenza, un’ immagine-monologo(s), in attesa su ciò che è già accaduto e che perciò non accadrà mai, in altre parole, la lista nominale, ottusa, immodificabile, di ciò che permane insistendo, nonostante l’immagine.

 

L’immagine è piuttosto la separazione tra essa stessa e l’intero mondo di ciò che ha luogo nel visibile e nel dire.
Alain Badiou


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