Alexandra Navratil     
  Alexandra Navratil Movie-Goer,2006
Alessandro Sarri
L’evento immobile. Sfogliare il tempo
 
 

 

COLPO DI STATO

S’ha da essere fatto allora meglio sarebbe farlo subito. Se l’assassinio
potesse trattenere nella sua rete tutte le conseguenze e il colpo inferto
fosse il suo principio e la fine, allora, qui, su questa bassa riva del tempo,
rinunceremmo alla vita eterna.
Carmelo Bene, Macbeth Horror Suite.

 

Parafrasando Giorgio Manganelli, si può fare esperienza di un tempo morto, finito, estenuato, compiuto, se proprio
questa stessa fine genera un tempo, in cui dimoriamo, che ce ne preclude l’esperienza? Si può dare un tempo che sopporta la propria morte (temporale) e in essa si trattiene ? E se è così, di quanto tempo necessita? Di quanto movimento?
Di quanta stasi? Esiste, può esistere un tempo che si esaurisce indicando la coincidenza assoluta fra la concentrazione in sé e l’esposizione fuori di sé ?
Esiste un tempo che si consuma e si sigla nell’attimo dell’attimo che illumina il proprio futuro nel compimento assoluto del proprio passato? Un tempo che non si risolve in ciò che anticipa un futuro che intanto è divenuto esso stesso passato?
Una sorta di resilienza che non si limita a invertire la mira del tempo ma a sopprimerla, come dire, appena in tempo?
Di cosa è sintomo questo tempo che non passa?
Forse di un sintomo inteso qui non come metafora o metonimia, come significante temporale che sta al posto di un significato temporale rimosso, ma come sintomo di un olotempo incarnato nella propria lettera anasemica.
Sintomo che ha preso la via contraria a quella dell’espansione ad infinitum del senso (temporale), ovvero quella della sua riduzione, della sua scarnificazione, alla ricerca dell’incontro con una contingenza – con ciò che è appunto un senso solo, il senso-sincope sempre diverso e imprevisto della propria intransigente invarianza – intesa appunto come fattore d’espulsione endogena da una circolarità onniincludente che inevitabilmente viene a configurarsi tutte le volte che si valuta il tempo come un mezzo rispetto ad un fine.
Un tempo masssivamente e transitivamente tumulato in se stesso, senza crescita o decrescita, senza aumento o diminuzione, senza sistole o diastole, senza nessuna trasgressione insomma, fattore primo di rigenerazione e quindi di stabilità, di diacronia e di teleologia. Una sorta di scacco noumenico incistato in seno alla fenomenicità dialettica, qualcosa in meno che non si può esteriorizzare, che non si lascia evacuare ma che residua, intonso, nella propria ipostasi, che produce un resto vergine, un irriducibile indice a monte, una puntualità stigmatica che conserva e trattiene qualcosa rispetto all’essere-in-perdita del tempo che è implicato nel tempo stesso, nel consistere del tempo in quanto tale. Un tempo dunque con cui il tempo stesso non può scendere a patti e a cui non si può sottrarre se non sperando di mantenerlo assopito nella manducazione cronofagica che, fra perdita e ritrovamento, si separa congiungendosi nell’inesausta elaborazione -- elisione di un lutto significante costitutivamente interminabile.

 

Attraverso Henri Bergson, potremmo definire questo tempo senza tempo,  “quell’ in corso metatransitivamente finito in corso” di un atto in atto di un  presente dello star passando che non passa mai, non il factum ma il fieri di un  evento che sta sempre avendo luogo - essendo sempre già passato, in questo  momento - differenziandosi proprio attraverso la propria finitezza inesauribile.  Una tettonica del tempo che pare appunto sospendere e sorprendere la seconda  legge della termodinamica, quella che impone - al tempo - la sorte inesorabile  della propria infrangibile degradazione, attraverso una barratura d’immanenza  autotelicamente situata che altro non fa che ipostatizzare lo scarto fra l’atto  della sua potenza e la potenza del suo atto.
Tempo dunque senza pentimenti  (anche in senso pittorico), senza alcun metabolismo mnemonico; un tempo  occluso e occultato in un puro mostrare, ciò che preme rinserrato, una volta  per sempre in un “pre – cordare” (Paul Celan) che non si scioglie in nessun  solvente anamnesico, precedendo di fatto la possibilità strutturale di ricorrere  ad una qualche sorta d’ingaggio ritenzionale.
Se tale tempo non è dunque da intendersi come un’assenza oggettiva che altrove sarebbe presenza, cos’è dunque, se è pure qualcosa, questo qualcosa che non si racconta in vista di  un qualche temporeggiamento proprio attraverso un evento che coincide  con il suo attuale accadere e dove l’essere (tempo) di sé è “coestensivo a  quella performazione” (Jean-Luc Nancy) ?
Forse un altro del tempo che si  genera nello stesso nucleo del tempo stesso e lo tiene in sé espellendolo da  sé?
Il tempo che, come scrive Jean-Luc Marion, “è uscito definitivamente  alla finità” mediante una fenomenicità abortita che proviene proprio  dall’eccesso noumenico di cui è portatore l’atto finito che non ha tempo  per il tempo? A questo punto se volessimo cercare di derubricare ciò che  afferisce a questa temporalità arrestata nel fuori più intestino di sé, potremmo  cercare di rinvenirla in ciò che Ernst Bloch scrive in Tracce, a proposito  di ciò che lui definisce il “bada!”.
Questa ingiunzione, questa insorgenza  rileva, a suo dire, una sorta d’ossificazione, d’indurimento gettato come al  di qua di se stesso, una anatomizzazione tempor(e)ale che non ha in sé e per  sé assolutamente (non) senso. Si tratta infatti di un atto-decubito di reale  temporale così com’è, al di fuori del più dentro del tempo, una penetrazione  di un’ostensione da parte di un tempo che è il suo e che in essa si trattiene. 
Un reale improcrastinabilmente appropriato - partenza da sé e venuta a sé – un  reale il cui unico discorso, il cui unico senso non può essere, scrive proprio a  proposito di Bloch, Giampiero Comolli, che “ quello di autoindicarsi per dire:  guardami! bada! sono qui, sono fatto così, io sono questo e niente più. 


Ane-Mette-Hol

  Ane Mette Hol After Day And Night, 2010
 
  

Non dunque un tempo rimosso ma un tempo, potremmo forse dire, solamente mosso; un tempo incipitario che, come dicevamo, non  temporeggia, bloccato tra ciò che non passa in ciò che passa e viceversa,  palindromicamente fissato in sé, da sé, in ciò che sta accadendo, ora, già da  sempre (mai) accaduto per la prima e unica volta. Esso supera, dall’al di qua,  la rete di protezione del tempo stesso, generando, sempre di nuovo per questa  volta, il tempo postumo di una temporalità recisa che sopravvive nell’apnea  della propria datità integralmente interrotta, come un qualcosa fatto proprio per  (non) essere esperito, come accade esemplarmente in After day and night di  Ane Mette Hol. Il disegno, o meglio, i monstra grafici metastatizzati dall’artista  replicano, esattamente come la mappa descritta nel celebre apologo di Jorge  Luis Borges, l’intera giornata di ripresa di una web cam puntata su di uno  scorcio visibile all’esterno dello studio dell’artista. Qui il tempo s’annida nello  st(r)ato persistente e preesistente sia al movimento che mette in moto la stasi  sia all’immobilità che si arena nel movimento, ingenerando una temporalità  ruminante che si espelle nel momento stesso in cui si conserva al di qua della  propria denegazione-degenerazione diegetica.

In questo video il fatto di essere  già fatto del tempo, termina, non fa altro che essere terminato nel processo con  il quale, raggiunto il culmine d’effettuazione, quest’ultimo si commuta nel  suo contrario innescando il vuoto nell’eccedenza di compiutezza ipostatica,  di saturazione tautologica, detto altrimenti, il fatto di non poter più fare, non  avendo, in effetti, più nulla da fare. Mantenere il tempo in tempo a tempo  irreparabilmente scaduto attraverso quel gesto che - come mostra Carmelo  Bene in Lorenzaccio – nel suo compiersi si disapprova. Disapprova l’agire a  favore di un atto che sospende la continuità dell’essere per far essere l’essere  che non è più. Tempo dunque d’inciampo che si espropria nella concentrazione  che tocca la resistenza del tempo in se stesso, il suo corpo estraneo, il peso del  tempo assoluto che tracima nel più interno di sé - forse ciò che ancora Nancy  chiama il “ritrarsi della causa temporale”?. Il tempo in Hol firma, forma e  ferma così la propria morte nel ductus infinitamente finito di una sospensione  transitivamente esposta nell’intervallo assoluto che coagula un che di separato  come suo, l’evento indelebile, l’irrelato puro di un hapax monumentale che  passa proprio per non passare se non nello spazio chiuso di una “minaccia  d’eternità” (Charles Baudelaire) in cui si modifica incessantemente senza  avanzare mai. 


Alejandro-Moncada

  Alejandro Moncada Circa, 2010
  

Esistenza esposta, senza residuo, la quale si rapporta mediante la propria  possibilità - già esaurita nella propria finitezza infinita meramente a se  stessa, in un aver-da-essere-sempre-stato nel quale il suo senso è sempre da  darsi/farsi sempre qui, rinvenibile soltanto in rapporto all’esistenza che il  proprio esserci già da sempre e insuperabilmente è. Una sorta d’economia  dell’inceppamento, una specie di metaripetizione che si ravvisa nell’atto-sutura di Tango di Kathrin Sonntag e di Circa di Alejandro Moncada. Nel lavoro di  Sonntag un tavolo viene apparecchiato, tovaglia, posate e bicchieri. Una volta  finita l’operazione la tovaglia viene sfilata, lasciando gli oggetti al loro posto. 
Nel video dell’artista messicano si assiste invece ad una specie di cerimonia  dimidiata dall’atto balbuziente di una coazione a ripetere – la propria sola  volta - di cui non si conosce né origine né causa. L’indizio senza movente di  una conversazione a cui non abbiamo accesso sfocia, senza alcuna esfoliazione  diegetica, nel lavacro celibatario di più persone che a turno si alzano da delle  panchine e si gettano in un fiume mano a mano che il travelling della cinepresa  li colpisce, inquadrandoli. L’atto, il rito eminentemente tautologico di questi  ritornelli visivi sembra proprio ripartire il tempo pieno della singolarizzazione  più esposta di sé, senza parti nascoste, illuminando proprio l’oscenità di una  “primavoltità” (Giorgio Agamben) che impone l’impasse di un assoluto della  presentazione che non fa che saltare nell’esistenza che manifesta solo la  propria manifestazione. Si profila così ciò che resta afferrato a se stesso in  una pressione cardinale di un’insistenza a luogo che scava in fuori la propria  individuazione intestina che non possiede null’altro dietro di sé, lo spazio  assoluto del tempo che preme e fa irrompere una massa di presente senza  passato che spalanca e mummifica l’istante senza precedenti, la crepa di  nulla senza niente fuori di sé che ne permetta il dispiegarsi. Il più altro  della cosa stessa del proprio tempo interamente spazializzato, quel che vi  è di più duro, più resistente, più irriducibile, più ottuso nella segregazione  della propria presa di spazio, consegnato irreparabilmente e senza rimedio  alla propria emergenza locale intesa come dischisura che svelle il già aperto di  una gettatezza in cui il tempo “ tace come qualcosa di espropriato in quanto  intimamente mondano” (Alfonso Cariolato). A questo punto si tratta forse di  esperire a quale livello di temporalità il tempo lavora contro di sé attraverso  un’evidenza muta e opprimente? Forse che questo tempo – inconscio o magari  forcluso - incarna il movimento era-essere della propria impossibile flagranza  attraverso cui la propria immagine, più che gettare luce sul (proprio) presente,  alluma la presentificazione della (propria) gettatezza? Ciò che il movimento  sarà stato una volta che sarà compiuto e sarà sparito come movimento che si sta  facendo là dove non si cede tempo al tempo? 


Katherine Segura Harvey

  Katharina Segura Harvey Breathless, 2009
   


“Trasmettere un segreto come segreto rimasto segreto è trasmettere”?, si chiede Jacques Derrida. Nel video di Katharina Segura Harvey, Breathless, un uomo è caduto a terra nel proprio appartamento. Non conosciamo la causa  di ciò in quanto il video inizia, nel nero, proprio nell’attimo improvviso e cieco  in cui avviene la caduta già accaduta. Successivamente (e) d’un tratto, tutto ciò  che è dato esperire saranno le diverse soggettive raso terra di questo attante che  indugiano nei diversi angoli della casa mentre si avvicendano suoni e rumori  di vicini e di persone allarmate che, dall’esterno dell’appartamento, cercano di  stabilire un contatto con lui. Un evento dunque nella cui soglia non si passa  mai altrove? Non tanto l’atto colto in flagrante ma il flagrante colto in atto?  Un evento che, come scrive Carmelo Meazza, “ non riesce a non presentare  il suo non aver niente sotto di sé? Un evento il cui limite, continua Meazza,  “traccia un nulla e lo riempie di nulla proprio mentre lo svuota? Evento di un  momento senza momento che espone e mostra la propria condizione di atto  come mancante di ogni mancare? Un evento in cui nulla è presupposto ma  solamente posto in una ipseità quintessenziale nella quale un essere-di-tempo che  è già compreso in quanto non ha bisogno di essere (s)coperto si (ri)vela fuori  da ogni (crono)logica di velamento? Il tempo che il tempo ci mette per essere  sempre già finito nel (non) finire (mai) – non la fine del tempo ma il tempo della  fine – ciò che si stira e si contrae nel cominciare a finire, interamente trascorso,  nell’atto di costituirsi nel proprio annullamento conservativo? Tempo che non  si può forare; nulla ne zampillerà che non rimanga inscritto nello stesso tempo  che lo comprende e cioè nella presentazione che previene qualsiasi rivelazione,  e che non si convertirà mai in essa. Fatto uscire dall’atto che lo tiene “disattivato  attraverso il proprio compimento”, come scrive Agamben, il tempo in questione  si abolisce precisamente nell’attimo in cui si conserva, tenendosi, per così dire,  fermo nel compimento di una limitazione intestina che annuncia, senza fine, la  gettatezza incommensurabile della propria chiusura. 


George-Drivas
         

  George Drivas Case Study, 2007
   


Il fatto del tempo di essere-già-là caratterizza tutto il lavoro in pausa< di George Drivas. I cortometraggi Case Study e ClosedCircuit e il mediometraggio alphavilliano Empirical Data, enfatizzano proprio, mediante la pratica del ciné-roman, la mediatizzazione del divenire del tempo di ciò che resta all’inizio della  dialettica, ciò che, come scrive sempre Nancy, “ tutta la forza della dialettica  non riesce a portare con sé, a mettere in moto, ad alienare nella sua identità  motrice ”. Il tempo - in questi lavori composti primariamente da pedinamenti  sotto vuoto, inseguimenti palindromici, cul de sac dinamicidi che ammazzano  il tempo, che intasano e tassidermizzano ogni spiraglio di svolgimento e in  cui i corpi dei personaggi si gettano, per così dire, ad atto morto - non si pone  solamente come qualcosa d’assoluto sempre in procinto di (non) sparire  ritirato nell’aggetto recalcitrato della propria presenza, ma come l’atto stesso  di porsi sempre – ex nihilo - per la prima volta, nell’abbandono cioè della  propria nascita votata indefinitamente a nascere senza finirla mai di nascere  in una partizione che non può essere spartita. Immagini tautologicamente  incarnate o meglio, incarnite in se stesse, condannate a deambulare nell’oblio  di un’escrizione irrecuperabilmente ostruita di sé la quale, continua ancora Nancy,  “ non salvaguardia la riserva di una memoria recuperabile e curabile”. Come  se il tempo metalacunare che le caratterizza non sapesse ritrovarsi in quanto  mostra, ma vedesse se stesso prendere contatto per la prima volta con l’ultima  volta che lo mostra nonostante e attraverso di sé. Pure marche, impronte  acefale, iscrizioni ideogrammatiche, letteralizzate, assolutamente indecifrabili,  fuori-senso, mortificate di un osso temporale che smarrisce l’immagine proprio  afferrandosi all’immagine di sé, uccidendosi come immagine mediante   l’immagine che lo trattiene in ciò che Freud chiama “ la pulsione dell’uno”.  Una pulsione totalmente catastrofica, irriducibilmente distruttiva in cui il  tempo si rileva talmente sprofondato nel disastro inorganico della propria  ipostasi da non ammettere nessuna proliferazione differenziale, nessuna  germinazione incontrollata atta ad espellere la sua differenza attraverso una  differenza. Si profila così una sorta di sindrome astenica - per citare il titolo di  un film di Kira Muratova – in cui ciò che non manca al tempo è quello che  (non) stiamo vedendo mediante la sua presenza finita, inerte e sigillata nel  fort/da della propria apertura irrimarginabilmente olofrastica, idiomatica in  cui, per parafrasare Benjamin, il tempo si arresta in una costellazione satura  di tensione e provoca un urto di forza dal quale essa si cristallizza in monade. 

Il tempo-rocchetto compulsato dall’artista greco, pare proprio sopportare e  supportare un’affezione, una beanza il-limitata (dove il moto assoluto è la  stessa cosa della quiete), pur senza mostrare, dal punto di vista cinesico, alcuna  variazione che non sia ciò lo amputa, lo localizza, lo abbandona, allo scarto del  (suo) luogo a luogo, nel mysterium tremendum in cui lo svelamento si mantiene  nel vulnus insostituibile dell’evidenza indistruttibile del suo enigma che tenta  così di condurre a trasparenza la propria opacità cosale senza dissolverla come  tale. Il rigor mortis di queste immagini divenute in presenza s’insterilisce così  in una fissità automedusante in cui la certezza del proprio riconoscimento  coincide con la dissoluzione che dilaga nell’invulnerabilità della pulsazione  topologica in cui il tempo si dona la morte nel colpo di stato che sancisce la  possibilità del suo evento dell’evento in se stesso. 



 
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