Emanuele Becheri  
  Emanuele Becheri Senza titolo, 2008, crayon, diametro 0.5x18cm.  
Alessandro Sarri  
Where Ash Fears To Thread  
 


Alessandro Sarri
Where Ash Fears To Thread


Tale fuoco, tale cenere, tale caduta in sé non ha niente di accidentale, questa fiammata non subisce la pesantezza come un evento contingente. Si potrebbe dire che essa non accade mai, non cade mai, essa è accaduta, essa è caduta nell’impossibilità di cadere nel tranello della sua risultanza, del suo spurgo o resto che verrebbe a cancellare a posteriori l’a priori di questo atto che non inizia mai.

Da dove viene questa cenere che non è già più lì mentre mostra quello che non riuscirà mai a non diventare? Una cenere bianca? Una cenere che inscena un cedimento in una figura proprio per sventare la sua presenza come la sua assenza?

Sempre invisibile e mai assente, già posta, scritta, spedita, imbucata, all’interno di più giovani elaborazioni che l’accusano quanto l’escludono. Essa, come la Carte Postale cara a Jacques Derrida, può anche non arrivare, può anche non giungere a destinazione, a combustione, in questo caso, ma non per questo cesserà d’arrivare, di bruciare, rimanendo sempre in viaggio, come se non fosse mai consegnata.

Arrivata prima della sua presenza e partita prima della sua assenza e tuttavia essa è lì, dispiegata, oscenizzata nell’innesto che la coglie di sorpresa, bruciandola al suo posto, cogliendola nell’anticipo senza inizio che la cenere secerne per far collassare la sua presenza in un’assenza.

Una cenere senza di sé, senza resto, una cenere a cui affidare, scrive Roland Barthes a proposito della fotografia” il teatro morto della sua morte”, il ripiegamento senza teleologia di una rappresentazione che rapprende solo quello che non cerca neppure di tentare di mostrare.

Il fuoco morto, la cenere morta, il ritornello della fiamma bloccato nell’impossibilità di divampare (ritornello inteso qui nell’accezione datane da Gilles Deleuze, quella cosa che continua a ripetersi per la prima volta, la ripetizione senza concetto che torna dove non è mai stata), si può forse riassumere nell’amore morto di cui parla Carmelo Bene a proposito di Maria Maddalena de’ Pazzi, una mistica del seicento.

Amore morto, amore che ama senza nessun amore, amore che non si sa, amore non amato, senza nessuna rispondenza o corrispondenza. Esattamente come la cenere a cui mi riferisco, una cenere senza metafora o metonimia, una cenere che dice nulla, che dice solo il proprio senso, senza scarti, in una eteronomia apparente che circoscrive la sua ‘verità’ in una severa e implacabile autonomia.

La sua cenere, solo sua, cenere della sua cenere, quindi nessuna cenere in qualche modo. Una sorta di immortalità positiva di se stessa, in cui gli opposti ( l’universale e il particolare, la vita e la morte, il prima e il dopo, il tempo e lo spazio) non si oppongono più, in quella indifferenza, in quella inerzia figurale che domina e annulla ogni dialettica.

In questo caso a cosa si riduce quello che, almeno qui, un po’ avventatamente, si chiama processo di delegazione? Come si delega una combustione, questa combustione? A chi poi? Esiste una vettorialità della cenere? Si può donare la cenere? Forse per delegazione, in questo caso, si può intendere ugualmente un processo ma di un genere affatto particolare: un processo di trattenimento.

A prima vista la cosa può sembrare paradossale, indecidibile, come lo è del resto la cenere della cenere di cui stiamo parlando. Un processo che non avanza o retrocede ma che, a ben vedere, non resta nemmeno in sospensione, restando al limite in sospensione sul suo stesso atto. L’atto che inaugura a cose fatte, a cose bruciate diremmo, il rischio infinito di una morte che non accadrà mai.

Un infinito intrattenimento della cenere, cenere che restituisce sempre di nuovo la propria soglia definitivamente configurata tra l’apparizione e lo svanimento, cenere che si carbonizza proprio per portare la responsabilità irresponsabile della propria manifestazione priva di profondità e di superficie, né bidimensionale né tridimensionale, cosa in rilievo, in rilievo costante di sé, tra la figura, l’oggetto e la sua distruzione.

 


 

La cenere così non inventa nulla, non asseconda nulla, tranne forse il limite mobile della sua staticità che non concede alcuna presa. La cosa della cenere sta fra la referenza e la sua rappresentazione, fra l’a priori della sua virtuale incarnazione e l’a posteriori della sua azione dissolutrice; la cenere non lancia l’oggetto una seconda volta, non gli offre una seconda chance, non gli concede nessun potere di propagazione.

Nel cinema si usa il ‘trasparente’, di fatto una retroproiezione, sia per indicare una coincidenza di verosimiglianza tra l’ambiente e l’azione sia per indicare però un eccesso della verosimiglianza stessa, una sorta di cortocircuito autoreferenziale, una tautologia fra lo sfondo e la figura che letteralmente fa girare il film a vuoto, facendolo collassare proprio mediante il proprio armanentario, ovvero la riproducibilità che, in virtù della propria oltranza, smarrisce l’oggetto della riproduzione stessa, divenendo appunto pura riproduzione.

Ecco, forse ciò che chiamiamo cenere, ciò che con questa parola sancisce il punto non tanto di non ritorno quanto di non arrivo, si esemplifica proprio con la doppia struttura che agisce il trasparente nel cinema. L’oltranza della cenere rispetto alla cosa che ospita e a cui sembrerebbe dare asilo, seppur, come dire, in negativo (primo effetto del trasparente), può nondimeno ravvisarsi anche in ‘positivo’, e cioè scardinando, come dire, dall’interno (secondo effetto del trasparente) la stessa cenere a cui l’oggetto sarebbe poi chiamato a concedere asilo.

Voglio dire che questa cenere qui, lungi da tornare per venire da qualcosa e in qualcosa, resta qui, non si è mai mossa da qui, essa è prima di ogni origine e dopo ogni fine. E’ una sorta di automatismo che nasce morendo della sua stessa vita. Un automatismo che brucia il tempo alla propria combustione mettendola definitivamente ‘in salvo’ nel repentaglio infinito di un fallimento, di un fuoco che brucia nel proprio spegnimento.

La cenere ha fallito, essa non proviene né sigla, non conduce né trascina; essa è solo l’esser mezzo di sé, l’esser mezzo che resta confitto fra sé e sé, non procede da niente e non perviene a niente, cenere orfana del suo lutto, materia bianca listata a lutto per una morte che non ha mai saputo di vivere, “dietro a tutte le sue possibilità”, direbbe Martin Heidegger.

E’ questo, proprio questo ciò che chiamo l’automatismo, “ la maculata concezione”, scrive Tommaso Ariemma, della cenere; la cenere è ben prima di quello che lei stessa andrà a compiere sotto dettatura; essa non ha sottolineato niente. La cenere è ben dopo di quello che lei stessa andrà a tracciare sotto la sua scomparsa; essa non ha conservato niente.

La cenere non c’è, essa è qui.

 

 

 Text - Alessandro Sarri A Tempo Debito. Pdf
  © Artext 2009