• LUCA BEATRICE        
  •        BEATRICE BUSCAROLI

biennale

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La Biennale di Venezia
53. Esposizione Internazionale d’Arte
Venezia, 7 giugno – 23 novembre 2009

 

“Da una generazione all’altra. Dal 1979 alla fine degli anni Zero”
Testo di Luca Beatrice,
Curatore del Padiglione Italia

 

 

Il 2009 non è soltanto il centenario del Futurismo. Esattamente trent’anni fa nasceva la Transavanguardia, super-gruppo/jam session di cinque pittori e un critico-teorico in cabina di regia, che irrompeva nel panorama dell’arte italiana spezzando di colpo il lungo dominio della linea concettuale, culminata nel 1967 con la fondazione dell’Arte Povera.
Interpretata come epifenomeno del cosiddetto “ritorno alla pittura”, la Transavanguardia non si può certo semplificare nella produzione di quadri e talvolta sculture di impianto prettamente figurativo: si inserisce, piuttosto, dal punto di vista dell’arte, nella necessità epocale da parte della società e della cultura italiana di riscattarsi, interrompendo la corrente negativa e drammatica degli anni post 1968, dominati dalla fine del boom economico e dalla convivenza con la crisi, ma soprattutto funestati dal terrorismo stragista e brigatista.
Nonostante i mezzi di comunicazione e la tecnologia non fossero neppure lontanamente paragonabili a quelli odierni, allora tutto cambiava molto più rapidamente e, soprattutto, se ne vedevano subito gli effetti. La prima metà del 1978 è lo specchio dell’annus horribilis nel nostro secondo dopoguerra: il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro equivalgono alla consapevolezza che il terrore è entrato nel cuore dello Stato. Dal dramma più acuto, l’imprevista reazione del popolo italiano, che forse covava da tempo l’idea di ribellarsi alla cupa rassegnazione, di non piegarsi all’infinita sequela di morte. Nel recente saggio Dancing Days, il giornalista-sociologo Paolo Morando individua proprio nei ventiquattro mesi tra 1978 e 1979 “i due anni che hanno cambiato l’Italia”, riferendo nell’episodio apparentemente banale di una lettera pubblicata in prima pagina sul “Corriere della Sera” del 13 settembre 1978 il segno inequivocabile che il momento di svoltare fosse davvero giunto. Nella missiva un anonimo cinquantenne annuncia la decisione di volersi suicidare perché tormentato da un problema sentimentale: innamorato di una giovane donna non si sente però di lasciare la moglie, madre dei suoi figli. Qualsiasi decisione non potrà che causare una catena di infelicità, a ciò lui si sottrae e preferisce farla finita.

Oggi una confessione del genere farebbe fatica a trovare spazio su un quotidiano, tanto siamo abituati a misurarci con la cronaca nera o rosa, tra “fact” e “fiction”, realtà e finzione. Allora, invece, era molto diverso perché cultura e informazione erano obbligate, dal lascito sessantottino, a discutere solo su ciò che fosse politico (un significativo cambio di passo lo dimostrò già il “sex-seller” tinto di rosso, Porci con le ali, uscito nel 1976), mentre il personale veniva tenuto segregato in una stanza chiusa, con un certo imbarazzo. Da un episodio secondario quindi, Morando trae lo spunto per analizzare il fenomeno della “Febbre del Sabato Sera”, conseguenza planetaria del clamoroso successo dell’omonimo film di John Badham con John Travolta, capace di spaccare in due l’opinione pubblica tra chi lo considerava qualcosa di poco serio e chi (fortunatamente la maggioranza) non vedeva l’ora di tornare a ballare.
Dopo Aldo Moro, dunque, Tony Manero e siamo entrati in pieno nel “terzo dopoguerra” –perché quella contro il terrorismo è stata davvero una guerra, lunga e logorante – e come nei primi anni Cinquanta, la gente ha di nuovo voglia di allontanare da sé la tragedia, divertirsi, uscire, curare il proprio aspetto, dal corpo all’abito, acquistare nuovi beni di consumo, dedicare più spazio a se stessa, alla felicità e alla realizzazione personale, insomma al sé come individuo.

Sandro Chia

Sandro Chia Agguato, 2009
olio su tela, cm 150 x 203 Courtesy Studio Sandro Chia

 

Forse è un caso o forse no, ma nel 1978 il pittore Sandro Chia, a Transavanguardia ancora non formata, pubblica un libretto di immagini e poesie dall’inequivocabile titolo Intorno a sé, una dichiarazione di poetica che spiazza i teorici di un’arte oggettiva e spersonalizzata, priva fin qui di emozione e di empatia.

Si sa, la fortuna di un marchio o di un fenomeno scatena una serie di effetti secondari che portano fieno in cascina al fenomeno stesso. La voglia di recuperare l’uso della pittura, delle tecniche e dei materiali tradizionali, delle immagini, della narratività, della comunicazione diretta dell’arte, passano dalla Transavanguardia, che di questo sommovimento si pone come epifenomeno, ad altre esperienze artistiche coeve o di poco successive, dalla Scuola romana di San Lorenzo all’Anacronismo fino ai Nuovi Nuovi, se si vuole rimanere in un ambito “alto”, quantomeno accademico, provocatoriamente accademico.

Ma uno dei termini chiave utilizzati da Achille Bonito Oliva nel primo saggio sul gruppo del 1979 è “nomadismo”: ovvero quella capacità di muoversi trasversalmente tra i vari linguaggi, rifiutando le categorie di alto e basso, confondendo l’aulico e il profano, scivolando in commedia dopo aver colto la vera essenza del tragico. Il “terzo dopoguerra” italiano è dunque attraversato dalla Graffiti Art, importata pressoché in tempo reale dal Times Square Show di New York, identificata come arte giovane per antonomasia, così provocatoria da dover imporre un cambiamento persino al linguaggio della critica specializzata (ne resta un esempio la fulminea prosa di Francesca Alinovi), che diventa più letteraria, poetica addirittura. Dal graffitismo alla contaminazione della pittura con fumetto e illustrazione il passo è breve, considerando il ruolo davvero propulsore delle riviste indipendenti (“Frigidaire”, “Cannibale”, “Il Male”…), della scultura con gli oggetti di design –al grande successo del design italiano nel mondo si affianca l’esperienza del Nuovo Futurismo, in piena enfasi di riscoperta del moderno attraverso la lettura di secondo grado del postmoderno, di cui Marco Lodola è stato protagonista fin dai primi anni ottanta, in particolare nell’idea di maquillage urbano positivo, vitale, ironico, in una parola “bello”, aggettivo che dall’arte sembrava allora bandito.
Tornando ancora sulla questione del privato, è evidente che solo in un clima permeabile a rileggere le coordinate della storia si rende possibile una pittura come quella di Gian Marco Montesano, che prende avvio negli anni ottanta pur ottenendo il successo nel decennio successivo, in particolare con la partecipazione alla sezione “Aperto” della Biennale di Venezia 1993. Al centro del suo discorso convivono la Storia condivisa e le storie di tutti i giorni, dove la famiglia italiana torna a giocare un ruolo fondamentale. Niente male per chi, solo poco tempo addietro, sbandierava con orgoglio testi quali La morte della famiglia di David Cooper (1972). Il tutto in un linguaggio che asciuga la pittura sino a uniformarla allo stile dell’illustrazione popolare o del fumetto.

Sandro-Chia

Sandro Chia Art dealer, 2009
Bronzo, cm 200 x 60 x 60 Courtesy Studio Sandro Chia

 

Tra 1978 e 1982 (dalla morte di Moro alla vittoria ai mondiali di calcio, oppure dal Travoltismo al concerto dei Rolling Stones a Torino) nel Paese succede davvero di tutto, al punto che sembra davvero possibile rivivere il primo miracolo italiano degli anni sessanta, con la differenza fondamentale che ora il cambiamento passa per l’individuo e non per la massa, per il progressivo laicismo della società ad anticipare la fine delle ideologie, ipotizzando un’alternativa al binomio chiesa-marxismo: dall’Italian Disco alla tv di Renzo Arbore, dal Nome della Rosa a Un weekend postmoderno, dalla moda al design, il fermento è materia quotidiana.
Alla consapevolezza del nuovo si apre definitivamente anche l’istituzione artistica per eccellenza, la Biennale di Venezia. Nel 1980, da un’intuizione di Bonito Oliva e di Harald Szeeman, nasce negli spazi dimessi dell’Arsenale la sezione “Aperto”, che per un quindicennio testimonierà le ricerche emergenti in campo nazionale e internazionale. E, sempre nel 1980 a Venezia, l’architettura si stacca dalle arti visive, di cui era costola minoritaria: si intitola “La presenza del passato” la nuova Biennale di Architettura curata da Pierpaolo Portoghesi, passata alla storia come la rassegna italiana sul postmoderno, una sorta di manifesto che si dipana attraverso mostre ed eventi cui parteciparono tutte le “archistar” degli anni ottanta, in aperta polemica verso il modernismo, includendo un forte impatto visivo e un altrettanto evidente richiamo alla tradizione che innerva il gusto contemporaneo, dove il richiamo alla pittura (da de Chirico alla Transavanguardia) risulta fondamentale.

Ci si accorge che il lungo inverno è finito. I colori della primavera hanno la meglio sul grigio degli anni di piombo e sull’arte da ciclostile. Al centro del “nuovo rinascimento” c’è la cultura italiana, più viva e splendente che mai. Sull’Italia si rischia insieme. Nel modo italiano ci si identifica, con orgoglio, e a nessuno viene in mente, come purtroppo accadrà, di relegarlo a posizioni di rincalzo in nome di uno scellerato globalismo.
I germi del presente, del nostro presente, prendono avvio da quei formidabili anni.
Se gli anni ottanta sono stati quelli della nostra formazione, i novanta si potrebbero chiamare quelli della nostra affermazione. Molte delle esperienze testimoniate in Collaudi prendono avvio nell’ultimo decennio del secolo, nell’ultima tranche del millennio: l’arte si veste finalmente di una chiave generazionale che condivide percorsi, sensibilità, gusti, scelte di vita, interessi, stili.

A un’arte dichiaratamente giovane, che non teme affatto di “contaminarsi“ con la cultura popolare, anzi proprio nel basso trova la forza per impregnarsi del nuovo (come accade nella musica pop, clamorosamente rinata negli anni novanta), inizia però a contrapporsi un’arte elitaria, predestinata al successo dal contesto, che espande con parsimonia messaggi cifrati indirizzati a pochi. Si allarga progressivamente la forchetta tra chi, utilizzando in egual misura linguaggi tradizionali e nuove tecnologie, punta a comunicare accrescendo il più possibile la schiera del pubblico, e chi si convince sia sufficiente l’approvazione del consesso ristretto, in un’insistita ripetizione di formule già viste, al massimo rinnovate dalla predisposizione al minimalismo domestico, piccole storie a uso quotidiano, specchio della precarietà dell’esistere e, più tardi, forme importate di cultura relazionale o parapolitica, dove l’opera finita è marginale rispetto al progetto o all’intenzione. Paradosso attuale mutuato dagli anni novanta, chi innova viene considerato di retroguardia mentre il cliché e il comportamentismo sono i soli a passare il guado dell’indifferenza. Nonostante ciò, il successo generalizzato non manca di premiare i valori reali, per cui non si può certo parlare, nel primo caso, di esperienze marginali.

Sandro Chia

Sandro Chia Come in un film, 2009
olio su tela,cm 180 x 185 Courtesy Studio Sandro Chia

 

Emerge al contrario, a testimonianza di assoluta vitalità, una pittura d’immagine generazionale e contaminata con altri linguaggi e discipline, a conferma che gli steccati sono in via di definitivo smantellamento. Diverse le novità messe allora in campo, le più rilevanti riguardano la consapevolezza ormai diffusa che il genere sta soppiantando l’autorialità e l’abitudine a considerare “miscelabile” la sfera del visivo a 360 gradi, ivi comprese serialità e tecnologia, la letteratura e la musica: la giovane pittura degli anni novanta si può certamente guardare, ma anche leggere e ascoltare, condividendo una medesima sensibilità culturale.
Testi di riferimento di quell’epoca non sono saggi critici ma opere di finzione: film come Trainspotting di Danny Boyle(1996) tratto dal romanzo di Irvine Welsh del ’93 e soprattutto Pulp Fiction, capolavoro epocale di Quentin Tarantino (1994) le cui fonti e riferimenti coincidono abbondantemente con gli argomenti trattati dalla nuova pittura. Anche l’Italia di metà anni novanta ha la sua microgenerazione acida, la cosiddetta “Gioventù Cannibale”, una pattuglia di giovani scrittori che si fa notare anche dai media, applicando la formazione d’avanguardia, desunta dai maestri del Gruppo ’63, sull’immaginario di serie B, di cui la cultura nostrana degli anni settanta offre una casistica davvero ampia e stimolante. Esattamente nello stesso periodo assistiamo a un vero e proprio rinascimento dell’“Italia sonica”, fusione tra pop e cantautorato, sperimentazioni elettroniche e r’n’r vecchio stile contaminato qua e là da aperture in direzione “word”. Un decennio che tiene dunque a battesimo il meglio della cultura italiana di fine millennio e funziona da incubatrice a molteplici esperienze, le più meritevoli delle quali giungeranno fino a noi con caparbia resistenza.

In un ambito di pittura pura, protagonista è certamente Daniele Galliano che mai si allontana dalla figurazione pur esplorandola in ogni suo minimo dettaglio, forzandone spesso i limiti. Si serve di un linguaggio apparentemente tradizionale per mettere a fuoco visioni “cultuali”, notturne, quotidiane, mentre nel frattempo si diffondono la fotografia istantanea o “snapshot”, le camere digitali e il video a bassa definizione, che per la pittura diventano paragoni costanti e necessari. Remix e contaminazione sono ormai all’ordine del giorno: nella seconda metà degli anni novanta si parla sempre più insistentemente di “pittura digitale”, a Roma l’allora ventenne Matteo Basilé rivoluziona il concetto di pittura non pezzo unico ottenuto attraverso una manipolazione tecnologica spesso con immagini attinte dalla rete, mentre Giacomo Costa compie il percorso inverso, perché il suo concetto di fotografia risulta alieno da ogni richiamo al realismo acquisendo senso dal forte pittoricismo, sia che si tratti di architetture fantastico-utopistiche, oppure, nelle serie più recenti, di natura ribelle e minacciosa, versione digitalizzata del moderno “Sturm und Drang”. Pittura nell’era della sua riproducibilità tecnologica.
Contemporanea, come si è detto, è la diffusione su larghissima scala dei nuovi apparati high tech, sempre più raffinati ma economici, piccoli ma sofisticati, cui ovviamente va aggiunto il definitivo ingresso del web nella nostra vita. Gli anni novanta segnano il punto più alto di democratizzazione nell’arte perché l’abbassamento dei costi della tecnologia ne modifica radicalmente l’estetica: le camere digitali permettono di realizzare molti più scatti in presa diretta e ognuno può realizzare il proprio video con uno stile analogo a quello che si vede su MTV.

Sandro Chia

Sandro Chia Guardinga, 2009
olio su tela cm 180 x 155 Courtesy Studio Sandro Chia

 

Di questa enfasi è testimone la città. La cultura metropolitana fornisce spunti a 360 gradi agli artisti, partendo dal classico “tormentone” della prima parte del decennio – i Non Luoghi di Marc Augé, oggi francamente superati, hanno dato il là a decine e decine di pittori, fotografi, videomakers – fino alla città globale, meticcia, interrazziale e lacerata di oggi. In un Paese come il nostro, privo di centro e dove la provincia gioca un ruolo davvero determinante, la città resta comunque il punto in cui le cose accadono e l’arte ne è assoluta testimone. Se la pittura di Daniele Galliano forma un tutt’uno con la Torino degli anni novanta, fondendo il proprio linguaggio con chi in quel tempo sperimentava nella scrittura (i Culicchia, i Remmert, i Ragagnin), nella musica (Subsonica, uno dei gruppi pop italiani più conosciuti si esibisce per la prima volta dal vivo “sonorizzando” la mostra personale di Galliano), nel cinema (con Calopresti, Ferrario, Chiesa, Torino diventa dagli anni novanta in poi la città più cinematografica d’Italia); e se la pittura digitale di Matteo Basilé cresce nel contesto romano permeato di neograffitismo, hip hop, Street Art, culture alternative, diverso è il rapporto tra la poetica di Luca Pignatelli e la sua città, Milano. Appartiene infatti a un piccolo gruppo inizialmente definito dal critico Alessandro Riva Officina Milanese le cui fonti iconografiche e teoriche vanno rintracciate nel passato, nelle Perifierie di Sironi, nella letteratura oscura che va dall’aulico di Testori al romanzo di genere di Scerbanenco, nel modernismo architettonico dei BBPR (progettisti della Torre Velasca) e di Giò Ponti. In un tessuto non proprio permeabile alla pittura d’immagine – già alla fine degli anni ottanta a Milano si sviluppa una linea “leggera”, che supera la Transavanguardia attraverso il concettuale ironico, che non utilizza la pittura come un dogma ma se ne serve solo quando necessaria (e proprio in questa microgenerazione Marco Cingolani muove i suoi primi passi) – Pignatelli specifica una poetica assolutamente originale in Italia, che consiste nell’unire l’emotività di una figurazione bloccata su un repertorio di immagini subito a lui riconducibile, con l’utilizzo di materiali anomali, in particolare sacchi di juta al posto delle tele, che senz’altro rimandano al processo di superamento della pittura tradizionale: una linea italiana che parte da Burri, prosegue in Fontana, Manzoni, Rotella e sfocia nell’Arte Povera e che per la prima volta incontra la pittura classica.

Molti degli artisti scelti per Collaudi avevano circa trent’anni negli anni novanta; ciò significa che si trovano oggi tra i quaranta e i cinquanta, ovvero nella piena maturità anagrafica e professionale. Il loro lavoro testimonia un percorso solido, sviluppatosi attraverso esperienze sul campo non certo occasionali, in grado di superare l’enfasi degli esordi – la moda può rappresentare in molti casi un limite di durata – e raggiungere finalmente il riconoscimento che meritano.

Nel frattempo sono quasi finiti gli anni Zero dei quali ancora risultano in via di definizione l’estetica e la poetica.
Appaiono però evidenti, e non solo nell’arte italiana, il superamento delle contrapposizioni tra un linguaggio e l’altro, il raggiungimento di una libertà espressiva ben al di là di tendenze, l’affermarsi, o il riaffermarsi, di una “cosalità” dell’opera solo apparentemente contraddetta dalla smaterializzazione dell’oggetto, dall’insistenza sul simulacro, dal procrastinarsi ideologico del “work of art” come processo, intenzione, relazione, enunciato.

In alternativa al diffondersi, peraltro in crisi soprattutto in occidente, della teoria del cosiddetto “International Style”, e forse conseguente al fallimento del miraggio globalizzazione tout court, l’arte degli anni Zero riscopre, anche in Italia, il rapporto con la preziosità dei materiali, il fascino delle tecniche artigiane, a cavallo tra recupero di una ricchissima tradizione popolare e la futuribilità utopistica del design contemporaneo.

Sandro Chia

Sandro Chia Osservando la Battaglia, 2009
olio su tela, cm 191 x 191 Courtesy Studio Sandro Chia

 

Coincidenza o meno, nel 2001, poco prima del drammatico attentato alle Torri Gemelle, nella nostra provincia si tennero due mostre entrambe incentrate sull’utilizzo di materiali decisamente inconsuete nel panorama contemporaneo: ad Albissola, regno della ceramica prima futurista poi con Fontana, fu avviato l’esperimento della Biennale di ceramica nell’arte contemporanea dal taglio decisamente internazionale, mentre a Fano, nelle Marche, Laboratorio materiale indagava, con realizzazioni site specific, materie “fuori moda” come il legno, il vetro, la stessa ceramica, il marmo, il mosaico.
Se non fosse tramontata l’ipotesi teorica di Adolf Loos secondo cui “l’ornamento è delitto”, affiliata all’ideologia del minimalismo, da Donald Judd ai mobili Ikea, forse faremmo ancora fatica a considerare due strabilianti artisti arcimboldeschi come Bertozzi & Casoni oltre la superficiale definizione di abili artigiani, proprio per colpa della seduttività implicita alla ceramica. Il duo emiliano, in verità, è stato capace di inventare un nuovo utilizzo di questo materiale, la fotoceramica, una sorta di mix tecnologico-alchemico fondato su intuizioni visionarie e ricettari segreti. Discorso analogo vale per la scultura lignea, risalente addirittura all’epoca pre-rinascimentale e oggi persistente nella tradizione artigiana di alcune valli altoatesine, ad esempio la Val Gardena. Può dunque sembrare una scommessa quella di Aron Demetz il farsi carico di questo peso storico che non può esulare dal localismo e dalla tipicità, eppure sta proprio qui la scommessa vinta: infondere la scultura figurativa “a cliché” di un’anima, di una profondità spirituale che non può essere limitata al puro impatto visivo. L’abilità nel fare, inoltre, riconquistando il rapporto diretto con il materiale, non più delegato ad altri ma affrontato direttamente, con tempi lunghi e tecniche laboratoriali (da Bertozzi & Casoni come da Demetz), costituisce un valore aggiunto, non certo un limite come qualcuno ha voluto farci credere.

Del primo decennio del Duemila è anche l’abbandono, da parte della pittura, di linee di tendenza massificate. Negli anni novanta era evidente l’influenza della fotografia fino a parlare, in qualche caso, di vero e proprio mimetismo tra i due linguaggi. Poi c’è stato il boom del confronto pittura-architettura, quindi l’ampio ricorso al “fondo bianco”, allo scopo sia di ritagliare la figura decontestualizzandola da eccessi di narrazione, sia di attribuire all’oggetto-quadro una certa “coolness”, indispensabile in determinate occasioni. Negli anni Zero gli stili si fondono e si confondono, sempre più la pittura invade lo spazio talora aspirando all’installazione (è questo il metodo prescelto da Manfredi Beninati, fine pittore dalla sviluppata sensibilità a relazionarsi con l’ambiente) e, soprattutto, riacquistano diritto di cittadinanza quelle soluzioni formali in buona parte abbandonate dalla Transavanguardia in poi, magari perché considerate superate o inadatte a misurarsi con il contemporaneo: ci si riferisce in particolare all’Iperrealismo, tornato in auge negli Stati Uniti e all’Astrazione, da tempo sacrificata a beneficio dell’immagine.

Sandro Chia

Sandro Chia Ricordo di un viaggio, 2009
olio su tela, cm 170 x 180 Courtesy Studio Sandro Chia


Concepire un Iperrealismo attuale non è semplice, soprattutto in un Paese che ha visto negli anni ottanta un fugace interesse per il neo-Manierismo e la citazione dall’antico. Nicola Verlato, che da tempo vive e lavora a New York, non si fa scrupoli nell’unire la pittura accademica al virtuosismo dei cartoonist, la deformazione del reale ai rendering animati del 3D, sino ad avvolgere lo spazio in una progettualità complessa e articolata, dove sovvertire i concetti di tempo, illudere lo spettatore per poi disarcionarlo e metterne in crisi, una volta di più, la capacità percettiva. Quanto all’Astrattismo contemporaneo, esso conserva ben pochi rapporti con la nozione teorica dell’avanguardia storica, e risente invece della fluidità e della liquidità delle visioni del terzo millennio. Interessante sia il lavoro pionieristico di Roberto Floreani, dove il quadro non è che uno tra i possibili elementi atti a innescare un dibattito culturale ad ampio raggio, incentrato sulla scrittura, prima che diventi senso o significato, bensì codice primario (Floreani è anche scrittore, saggista, uomo di teatro), sia la “soluzione italiana” per una nuova Process Painting di Davide Nido – tra i suoi riferimenti, più che gli inglesi anni ottanta tipo Davenport o Innes troveremo Turcato, Festa e Boetti, ovvero una linea nostra di riflessione sulla pittura dopo la crisi- che di fatto è pittore senza dipingere in quanto le sue composizioni originano dalla ripetizione meccanica, di minima gestualità, spogliata da qualsiasi enfasi soggettiva.

Anche nel video gli anni Zero hanno indicato il superamento di quell’estetica del quotidiano che da una parte “rivoluzionò” la grammatica del mezzo negli anni novanta offrendo di fatto la possibilità a chiunque di misurarsi con un linguaggio privo di regole, dall’altra forzò indubbiamente i limiti giustificando eccessi di dilettantismo e soluzioni noiose. Ricordando la propensione alla spettacolarità multimediale ed emotiva in Silvio Wolf, talento visionario e misuratissimo, gli autori più significativi oggi trascendono la categoria del video d’artista e si misurano con un’idea, seppur ibrida, di cinema. Torna l’esigenza di opere spettacolari, seducenti, narrative: per “inchiodare” lo spettatore dentro una stanza buia è necessario gli si racconti qualcosa, una storia, che vengano trasmesse emozioni, che si tratti di un breve frammento, concepito come un trailer di un film ipotetico – è il caso ad esempio della poetica emotiva di Elisa Sighicelli – oppure di uno sforzo produttivo molto più evidente e “barocco” su cui si arrischia il duo MASBEDO. L’estetica di Masazza e Bedogni coinvolge letteratura – hanno condiviso i loro primi progetti con lo scrittore francese Michel Houellebecq – musica – colonne sonore d’autore, composte dai Bluvertigo e dai Marlene Kuntz – attori; particolarissima è la scrittura, assai curato l’editing, il taglio delle riprese, il montaggio. Li avvolge un’atmosfera romantica, esaltazione di quel sentimento di deriva ormai connaturato nella società occidentale.

Avviati a un inevitabile naufragio, impossibile trovare un approdo, perdersi veleggiando nel lusso, nell’eleganza, nella voluttà. Nel 1979 Achille Bonito Oliva, definendo i caratteri della Transavanguardia, indicò la figura dell’artista sospesa tra tragico e comico. Nell’oscillazione tra questi due opposti continua a giocarsi il destino del creativo italiano, ancora trent’anni dopo, genio romantico fragile e combattivo, forte e disincantato, che lotta senza farsi illusioni, si ripara dalla storia tenendosi a debita distanza.
Tutto il lavoro di Nicola Bolla tratta di inutile, di vanità, di fatuo. Dove spettacolare è lo scenario, il palcoscenico, la festa è già finita, gli attori andati via, rimane lo specchio, il luccichio dei cristalli simile a quello dei diamanti: simile ma non vero, nel gioco dell’illusione. Anche la scultura-performance di Sissi ha qualcosa di residuale, non c’è più enfasi, ogni gesto parte dalla misura del proprio corpo che si espande nello spazio, attaccandosi alle cose, rinvigorendosi nel contatto. Restiamo a teatro, ipnotizzati dalla bellezza, provando nostalgia, qualcuno ha annunciato la fine, non si sa se e quando accadrà.

Per crescere, svilupparsi, ipotizzare il futuro e crederci, una cultura ha bisogno di considerare costantemente le sue radici. L’arte italiana ha un cuore cattolico, un bisogno di spirituale, di confronto con l’Altro da Sé, anche eventualmente per distanziarsene. Se c’è un filo che unisce, da una generazione all’altra, trent’anni di sperimentazioni, lavori, discussioni, tendenze, progetti eccetera…, è il costante riferimento a un patrimonio implicito nel nostro dna, ricorrente eppure vario, denso di sfumature da cui sorgono ipotesi di mondi possibili. Già negli anni ottanta Montesano dipingeva “provocatoriamente” santini, raccontando parabole evangeliche e piccoli miracoli quotidiani. Dal decennio successivo Cingolani incentra la sua intensa pittura sulle storie bibliche e sulla cronaca dei quotidiani. Intanto l’artista più giovane invitato a Collaudi, il piemontese Valerio Berruti inscena un delizioso disegno animato ispirato alla parabola di Isacco, protagonista una bimba che sale e scende da una sedia. E forse è proprio questa l’immagine più rappresentativa del Padiglione Italia 2009. Un’immagine che sa di domani, che sa di futuro.
Il pianoforte di Paolo Conte, intanto, regala il surplus di emozioni ricordandoci quante storie ancora abbiamo da raccontare.

 

Testo tratto dal catalogo del Padiglione Italia  edito da Silvana Editoriale.

 

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La Biennale di Venezia
53. Esposizione Internazionale d’Arte
Venezia, 7 giugno – 23 novembre 2009

 

“Ragione dei collaudi”
Testo di Beatrice Buscaroli
Curatrice del Padiglione Italia

 

 

“Là dove non bisogna vedere che il bello, il nostro pubblico non cerca che il vero. Quando dev’esser pittore, il francese si fa uomo di lettere. Un giorno, al Salon dell’esposizione annuale, vidi due soldati contemplare perplessi un interno di cucina: “Ma dov’è dunque Napoleone?” diceva uno (nel catalogo il numero era sbagliato, e la cucina era contrassegnata da un numero che apparteneva legittimamente a una celebre battaglia). “Imbecille!” disse l’altro. “Non vedi che stanno preparando la minestra per quando ritorna?”.E se ne andarono soddisfatti, del pittore e di se stessi”.

Charles Baudelaire, Théophile Gautier, 1859, Riflessioni sui miei contemporanei

 

In questo anno centenario, per rievocare un celebre incipit di Marinetti, in questo anno centenario il futurismo vive uno strano ma forse prevedibile momento di oscillazioni, rivisitazioni, conclusioni, fazioni, favorevoli e contrari, e ancora mostre, pubblicazioni, manifestazioni.
“Noi lo desideriamo!”
Marinetti fu profeta straordinario fino in fondo, oltre la sua vita e le sue attese, oltre la storia che ha fatto patire al suo movimento crisi cicliche e ripetute che hanno smisuratamente accresciuto una bibliografia degna di un’occhiata psicanalitica, se è vero, come si vede quasi ogni giorno sui giornali, che il futurismo non riesce a trovare un assetto stabile nella nostra italiana storiografia, storia dell’arte, o semplicemente storia. Cento anni dopo.
Continua quel che il fondatore aveva visto e misurato, l’“uragano di polemiche e le raffiche d’ingiurie e d’entusiastici applausi che accolsero” il primo manifesto.
E ancora ci troviamo ad aver a che fare con l’irrisolvibile dilemma se Marinetti sia fascista o rivoluzionario, se sia poeta vero o pagliaccio, se abbia costruito o distrutto.
(“Noi lo desideriamo!”).
L’omaggio a Marinetti di questo Padiglione Italia, implicito nella parola Collaudi, non ha l’ambizione di aggiungere titoli al futurismo.
Non è un tema obbligato, non è una dimostrazione a tesi. È stato un invito, che ha coinvolto venti artisti italiani, e come tale è stato accolto, da tutti.
Una suggestione, lanciata con ambizione e cautela insieme.
Quando Boccioni e gli altri quattro firmano il Manifesto tecnico della pittura futurista, a Milano, 11 aprile 1910, si fa cenno all’“Arte che noi preconizziamo” (“tutta di spontaneità e di potenza”). Nulla è ancora stato fatto, solo auspicato, pensato, col dubbio atavico dei fondatori: non sanno ancora se quel che vogliono si avvererà, ma sperano nel progresso che non è solo l’automobile, ma la scienza, la cultura, il futuro.

“Il Futurismo vuole introdurre brutalmente la vita nell’arte; combatte il vecchio ideale degli esteti, statico, decorativo.”
“Abbiate fiducia nel progresso, che ha sempre ragione anche quando ha torto, perché è il movimento, la vita, la lotta, la speranza.”
L’idea che il futurismo fosse, in Italia, oggetto di un’incomprensione programmatica, è il perno dell’analisi che Maurizio Calvesi incominciò più di mezzo secolo fa (1954) per raccogliere poi saggi e interventi nel fondamentale e insuperato testo intitolato Le due avanguardie.
Nella sola Premessa, datata 1966, Calvesi rivendicava perentoriamente l’“attualità dei principi futuristi” per la nuova arte italiana, nei cui confronti il movimento ha costituito “una vera e propria tradizione operante”.
“In vari scritti ho cercato di cogliere l’effettivo diramarsi di una tradizione futurista, per diversi aspetti, nel linguaggio di Fontana o di Burri, Vedova o Dorazio, fino al neo-dada e alla cosiddetta ‘pop’ romana. E anzi ritengo che le influenze futuriste dei movimenti italiani fioriti nel secondo dopoguerra potrebbero essere più sistematicamente indagate.”
Da allora sono passati quarantuno anni e le “influenze futuriste” sono effettivamente state indagate. Ma in che modo?
Forse non resta, ancora oggi, una sorta di eco residua, incancellabile e fastidiosa, di quella “commiserazione” con cui, scriveva Calvesi, si guardava al futurismo fino a “qualche anno fa, quando ancora si alludeva […] al futurismo come ad un tentativo equivoco e deteriore d’avanguardia italiana”?
Molta della pubblicistica di questo 2009, ma anche gran parte delle riletture “scientifiche”, non possono che fornire una risposta affermativa. Resta la commiserazione, resta il tentativo di limitare la portata del futurismo alla “rivoluzione mancata” stigmatizzata da Carlo Bo nella Storia della Letteratura Italiana Garzanti (Era il 1969).
Ben lungi dal riconoscere e indagare linee di paternità o genealogie, il futurismo, anche in arte, è stato relegato alle sue scansioni cronologiche, ai suoi rapporti con il fascismo, alle sue contraddizioni. Ancora si discetta sulla esistenza del primo, secondo, terzo futurismo; ancora ci si è chiesti se non fosse più opportuno ritenere chiusa l’esperienza del movimento al 1916, morte di Boccioni e fine della prima guerra mondiale.

 

Ossessione lirica della materia
Marinetti ha annullato il tempo e lo spazio, Umberto Boccioni ha messo lo spettatore al centro del quadro.
“Usciamo dalla pittura?… Non lo so […] Verrà un tempo forse in cui il quadro non basterà più. La sua immobilità, i suoi mezzi infantili saranno un anacronismo nel movimento vertiginoso della vita umana! Altri valori sorgeranno, altre valutazioni, altre sensibilità di cui noi non concepiamo l’audacia”.
Arduo diventa arginare e valutare la portata di queste affermazioni, che hanno quasi cento anni di vita.
Nel frattempo sono nate le installazioni, le performances, la video arte, la contaminazione di tutti i linguaggi, l’azzeramento degli accademismi, l’imperio della pubblicità, l’arte delle réclames che Boccioni intravedeva, “che si ripetono violentemente espressive a tratti uguali, esasperando gli esteti dell’arcadia”, “le affiches gialle, rosse, verdi, le grandi lettere nere, bianche e bleu, le insegne sfacciate e grottesche dei negozi, dei bazar, delle LIQUIDAZIONI…”.
“Distruggere nella letteratura l’‘io’, cioè tutta la psicologia”.
Così iniziava un capoverso del Manifesto tecnico della letteratura futurista, uno dei testi capitali dell’estetica di Marinetti, datato 11 maggio 1912.
“Sorprendere attraverso gli oggetti in libertà e i motori capricciosi la respirazione, la sensibilità e gli istinti dei metalli, delle pietre, del legno ecc. Sostituire la psicologia dell’uomo, ormai esaurita, con l’ossessione lirica della materia.
Guardatevi dal prestare alla materia i sentimenti umani, ma indovinate piuttosto i suoi differenti impulsi direttivi, le sue forse di compressione, di dilatazione, di coesione, e di disgregazione…”.
Un grande poeta e storico della letteratura come Piero Bigongiari, uomo che, ha scritto Davide Rondoni, “non era certo un temperamento incline alle effervescenze marinettiane né frequentava nelle sue opere uno stile vicino alle esclamazioni futuriste”, si soffermò su questa affermazione sottolineando come, negli stessi anni dell’apparizione del Manifesto di Marinetti su “Le Figaro”, Max Planck proponesse, in una conferenza alla Columbia University, la “teoria del disordine elementare come principio e perno dell’entropia o disordine microscopico”.
Dunque se Marinetti annuncia che “il Tempo e lo Spazio morirono ieri”, Bigongiari insiste sulla contemporanea enunciazione della teoria della relatività di Einstein e spiega che “il futurismo è una manifestazione, la presa di coscienza più o meno avvertita, ma io direi avvertita fino in fondo, seppure ancora in modo iniziale, grafizzata, di questo nuovo rapporto Uomo-Natura”. Per concludere che, “il futurismo ha adempito a una vera e propria rivoluzione del rapporto tra l’uomo e la scrittura, fra l’uomo e la parola: la parola viene considerata come un nucleo da spezzare nelle sue componenti per constatane e analizzarne la consistenza fisica…”.
E ancora: “Non è altro che la presa di coscienza che la parola ha una sostanza, bombardando la quale questa sostanza sprigiona energia. È questo il punto fondamentale in cui il futurismo ha veramente rovesciato la concezione classicistica dell’uomo come utente di una parola che era considerata statica”.
Il testo di Bigongiari è del 1978. Difficile trovare, nella storia dell’arte, un’affermazione altrettanto limpida, libera, autonoma. Ma c’è, vivo e presente, il lavoro degli artisti.
Fontana: “Ogni giorno sono più convinto del genio di Boccioni. È il grande iniziatore dell’arte moderna, il vero precursore degli artisti spaziali”. E l’informale, con l’ascolto della materia e la sua democratica rivalsa, l’arte cinetica, gli scritti di Jean Tinguely, le Quattro fontane per Balla di Jim Dine, anno 1961, gli italiani Schifano ed Errò, gli americani della pop, i poeti visivi, il Tondo di Merz e Pensando a Balla di Boetti, il trittico di Paladino Quelli che partono e quelli che restano, il Nuovo Futurismo, conseguenza dell’originario Enfatismo, gruppo creato tra Bologna e Milano nei primi anni ottanta, fino a eccentricità anche recentissime (1997), come il secondo album da solista di Mike Patton, leader del gruppo americano Faith No More, ispirato al Manifesto della cucina futurista.
Un artista americano nato nel 1894, Stuart Davis, stessa generazione di Hemingway, che in parte anticipò l’esperienza della pop-art (muore nel 1964), nel 1950 dichiarò di amare l’arte popolare, le idee attuali e non l’alta cultura o il formalismo modernistico”. Anzi: “L’arte vera influenza la cultura”, “quando la sua immagine è una visione comune della soddisfazione dell’istinto – non soltanto l’S.O.S. di un evento soggettivo”.
“La pittura non è un esibizione di sentimenti”, e l’artista è un “freddo spettatore-reporter di una calda arena di eventi.”
“Distruggere nella letteratura l’io”, aveva detto Marinetti; “Noi vogliamo cioè che il soggetto si identifichi con l’oggetto”, avrebbe aggiunto Boccioni.
Impossibile rievocare un secolo intero alla ricerca completa dei legami, bàstino alcune considerazioni fondamentali: l’intento di questa mostra e di queste parole sono necessariamente diverse.
Quel che preme sottolineare è l’urgenza, l’attualità, la verità di tante affermazioni futuriste che non appartengono alla storia dell’arte o della letteratura, ma alla quotidianità di quel che siamo vedendo e facendo.

 

Cento anni
Le concomitanze, gli anniversari, la novità del nuovo Padiglione Italia, la presenza di un’arte italiana in buona salute e l’aura preziosa del futurismo che si allunga sulla laguna non sono che le prime suggestioni cui si sente di dover rispondere.
È un intreccio per certi versi apparentemente inestricabile, ma in realtà molto più agevole di quanto cento anni di storia sedimentata non possano far apparire.
Cent’anni fa il Manifesto di Marinetti scuoteva il mondo, cambiandolo per sempre. Una delle poche cose riguardanti l’arte del Novecento che delimitarono un prima e un poi: il mondo dopo il Manifesto non sarebbe stato più lo stesso.
La sintesi tra la rivoluzione industriale e la nascita del nuovo mondo, dove compariva una nuova umanità legata alla fabbrica, alla tecnologia, al disagio sociale era compiuta. Una saldatura esplosiva tra la realtà delle masse e delle ideologie, dei nazionalismi post rivoluzionari che, agli inizi del Novecento prendevano corpo in una società industriale nascente: il socialismo, il fascismo, il comunismo, il nazional-socialismo e il nuovo ruolo centrale dell’artista in tutto questo.
L’artista al centro.
È a questo nuovo mondo che Marinetti si rivolge, con forza, veemenza, sgradevolezza, indicando nell’eccesso la nuova misura.
È l’affermazione dell’avanguardia, di ciò che va contro e oltre il convincimento diffuso, la logica piccoloborghese, la calma provinciale. È l’elettricismo, il dinamismo, il futurismo che prende a schiaffi la storia.
Oggi, in tutto il mondo, il messaggio del futurismo, indipendentemente dalla volontà di mistificarlo, può apparire chiaro. Marinetti aveva concepito il suo progetto, la prima avanguardia, oltre ogni equivoco, oltre ogni camuffamento, oltre ogni tenace tentativo di dissimulare quel che il fondatore aveva affidato ai lucchetti inossidabili dei manifesti: per ogni àmbito un sussulto, per ogni àmbito mille novità, per ogni àmbito una lezione resa alla storia dell’arte.
Questi cento anni non sono quel che si dice normalmente un secolo, in realtà. Perché la strabiliante attualità di quella lezione italiana è ancora lì che ammicca alla libertà espressiva degli artisti di oggi, la multidisciplinarietà delle loro ricerche è figlia di quell’ardire, di quell’osare, di quel non voler accettare steccati, ubbidendo solo alla lezione della modernità secondo coscienza.
Pittura, scultura, fotografia, filmografia, arte ambientale, installativa: quella lezione di ieri negli artisti di oggi. Oltre ogni polemica, ogni lezione dell’ultima ora, ogni possibilità di condizionamento deciso a tavolino.
La storia è più audace delle prefazioni, degli articoli, delle ricostruzioni storico-critiche parziali, la storia ci racconta di pittura (tanta), di scultura, di fotografia, di filmografia, di costruzioni architettoniche. Centinaia di mostre con migliaia e migliaia di pittori, di scultori, di fotografi ci raccontano questi cento anni: biblioteche intere sono dedicate a loro. Non basta ometterli nelle prefazioni. La storia ha tutte queste facce e tutte queste facce vanno lette con attenzione. Quel che resta oltre è accademia, anche se travestita da rivoluzione.
La storia dei venti artisti del Padiglione Italia giunge fino a qui a partire dall’inizio degli anni 80. Ed è alla Biennale del 1980, alla sezione Aperto che si riferiscono.
Già dalla fine degli anni 60 alcuni movimenti avevano riportato alla ribalta internazionale l’arte italiana. Non era più accaduto dai tempi eroici del futurismo.
Nel giugno del 1966, con la mostra Arte Abitabile della galleria Sperone di Torino iniziava la sua affermazione L’Arte Povera teorizzata da Germano Celant, sintesi perfetta di quel rimescolamento sociale che sarebbe stato da lì a poco il Sessantotto. Un’arte impostata sul “sociale”, vera e propria cassa di risonanza delle istanze di ribellione di quel periodo.
Periodo assoluto, intransigente, militarizzato, dove dipingere era diventato reato, dove scolpire era a dir poco sconveniente, agire secondo semplice coscienza impossibile.
L’artista doveva essere il testimone oculare del “sociale”, interprete fedele di un dogma che sorvegliava l’attinenza o meno dell’opera all’ideologia. Un rimbalzo simmetrico e contrario al quindicennio precedente, straordinario per varietà e qualità: da Afro a Birolli, da Burri a Fontana, da Santomaso a Dorazio, da Vedova a Tancredi. E dopo dieci anni di ubbidienza assoluta, ecco riesplodere la libertà anarchica della Transvanguardia teorizzata da Achille Bonito Oliva, una capriola dal dogma al nomadismo culturale, dalla monocromìa asettica al trionfo mediterraneo dei colori e delle luci, dei soggetti, dal rigore del concetto alla contaminazione degli stili. Una contro-rivoluzione pacifica, libertaria, una contro-rivoluzione liberatoria, straordinariamente creativa nella sua libertà espressiva. Talmente attesa da divenire egemonizzante. Sandro Chia fa parte di quel piccolo gruppo, vive già, dalla fine degli anni 70 (trent’anni quest’anno), questa fantastica avventura e ancor oggi ne dimostra la vitalità e la coerenza.
Nascono, in quegli anni, altri sodalizi legati alla multidisciplinarietà artistica, alla ritrovata libertà del fare, più o meno articolati come La generazione postomoderna dei Nuovi Nuovi di Renato Barilli o gli Anacronisti di Maurizio Calvesi o i già citati Nuovi Futuristi tra cui milita già un giovanissimo Marco Lodola.
Dieci anni di egemonia, una vera e propria sbornia da successo. Poi il rimbalzo verso una stagione di nuova intransigenza concettuale, di dittatura della sociologia globale, di politicamente corretto applicato al sistema dell’arte. Ma questa stagione, ancora non conclusa, non riscuote lo stesso consenso della precedente, allora supportata da una ideologia strutturata e dominante.
 Il 1998 è l’anno in cui la giovane pittrice Cecily Brown dichiarava: “Mi vergognavo del mio piacere di dipingere. Alla fine smisi”, avvertendo “l’ignominia di essere una pittrice figurativa dopo Freeze”, la mostra organizzata dall’allora giovanissimo Damien Hirst che sancì la nascita della nuova tendenza della Brit Art.
Dopo qualche tempo Cecily Brown ricominciò a dipingere con grandissimo consenso. Vent’anni prima non sarebbe accaduto.
Erano passati almeno due ventenni da quella che Robert Hughes chiamò la “painting-is-dead-rethoric” e la vittima principale di questa propaganda contro la pittura fu, secondo il critico australiano, “l’idea che l’arte astratta fosse la maniera più eletta di dipingere”.
Nel 2001 l’artista tedesco Gerhard Richter, riferimento di almeno due generazioni di pittori che guardano alla figura, dichiara al critico Robert Storr: “Vorrei essere capito come il guardiano di una tradizione” …morale o filosofica? “Uno qualsiasi dei due va bene”, esprimendo con chiarezza il grande livello di consapevolezza di chi opera all’interno della pittura, ma anche l’autonomia rispetto alla necessità di definizioni che il nostro tempo sembra pretendere.
Le ragioni che alimentano la pittura non sono necessariamente la causa e l’effetto della stessa. Non sempre la pittura può favorire la risoluzione dell’opera. Accade infatti che artisti, pur preminentemente pittori, possano renderla trasversale alla rappresentazione.
Il caso di Martin Kippenberger è esemplare, nella sua eccentricità.
Pittore, scultore, performer, fotografo, titolare della leggendaria sala di spettacoli S.O.36, proprietario di una stazione di servizio in disuso in Brasile (l’incredibile stazione di servizio Martin Bormann), autore della rana in croce esposta di recente al Museion di Bolzano, l’artista viene saccheggiato da versanti che invece rifiutano la pittura come forma espressiva, rapinandone il contenuto col cambio di un’etichetta.
Alla fine degli anni 70, l’egemonia dell’arte americana era destinata a scemare, anche per l’eccessiva pressione proveniente dall’Europa (gli americani erano incapaci di sostenerla, sostiene Hughes).
Dopo il mitico sbarco degli americani a Venezia, nel 1964, la “grande pop art americana conflagrò pubblicamente […] Da quella data la pittura americana non diffonde più luce di quanto non dispensi una gigantesca ombra, sbarratrice, sul mondo e sull’Europa”, scrive l’artista e drammaturgo Fabio Mauri, osservatore acuto del panorama internazionale, lui stesso partecipe dell’avanguardia letteraria di quegli anni.
Fu soprattutto attraverso l’inglese David Hockney che l’America si riappropriò della dimensione figurativa della pittura. Faticosamente riconquistata, se Erich Fischl raccontava come, da giovane studente d’accademia degli anni settanta, in California, si dovette sottoporre a “lezioni dal vivo” rotolandosi nudo sul pavimento e spruzzandosi di pittura con gli altri allievi…
Il recente gruppo di artisti inglesi che si raduna intorno alla rivista “Turps Banana”, segna un’interessantissima virata verso quello che somiglia a un possibile ritorno all’origine.
Il “Painting-magazine” stampato a Londra dai pittori Marcus Harvey e Peter Jones non ammette i contributi di critici o scrittori d’arte professionisti: “In parte perché la critica d’arte non è una scienza e perché noi crediamo che la buona pittura non sia guidata da principi ideologici”. Non assumono posizioni, non c’è distinzione tra figurativo e astratto, si trovano soltanto pittori che scrivono di pittori.
Del gruppo fa parte anche l’ormai leggendario Damien Hirst, che, presentando i suoi “New Paintings” nel primo numero della rivista (2004) dichiara che, “benché non gli interessi ammettere se sente se stesso un pittore o meno”, dal momento che “non sta andando completamente in quella direzione”, ama allo stesso modo “abstract things and images”. Nulla nel mezzo. “Volevo che la nuova pittura catturasse il potere dell’immagine, come un oggetto ‘dentro’ la pittura. Volevo che l’immagine mi sorprendesse.”
Lo sguardo che alcuni filosofi e antropologi hanno gettato in questi ultimi anni sull’arte contemporanea mondiale, il suo cosiddetto sistema e le sue conseguenze sulla cultura generale, sulla educazione, sulla natura delle identità nazionali, non cela una sorta di disarmata preoccupazione. I casi di Warhol, Damien Hirst, Mapplethorpe, sopra tutti, hanno eccitato pensatori e filosofi del contemporaneo, come Jean Baudrillard, Paul Virilio, Robert Hughes che sono all’unisono giunti all’amara conclusione che il mondo dell’immagine, della pubblicità, della televisione ha definitivamente ammazzato il mondo dell’arte, inteso in senso tradizionale, e l’arte tutta.

Esemplare interprete del sentimento della catastrofe dei nostri tempi, Paul Virilio prende le distanze dalle “novità ad ogni costo”, appellandosi con Robert Hughes e Mario Vargas Llosa alla necessità di una sorta di cenacolo “conservatore” per arginare la banalizzazione nel contemporaneo e limitarne il ricorso all’eccesso.
“Architettura, scultura, pittura… l’arte non è ormai che uno stato della materia fra gli altri. Una materia che ciascuno si accanisce a decomporre, dissolvere e disintegrare, al punto che il materialismo arriva a confondersi col nichilismo.”
L’analisi sull’arte contenuta nell’ultimo saggio di Paul Virilio, è azzerante, sconfortante. “Violare, avvilire ciò che restava ancora delle regole artistiche, degradare le pratiche dell’arte profana, come prima si erano degradate quelle delle varie arti sacre: tale era l’obiettivo di un secolo spietato […]”. Dove si giunge a citare un testo come la memorabile Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti, datata 1999. Quel testo così eccentrico, rispetto alla storia e alla critica dell’arte ufficiali, diventa prova lampante della spietata “profanazione”, non più soltanto del sacro, ma dell’arte profana che restava.
L’autore del massacro: “Il comunismo dell’emozione pubblica che ha sostituito con tanta discrezione, il comunismo dell’interesse pubblico.”
Il tono è millenaristico, le conclusioni spaventose. Virilio assorbe e scavalca anche le affermazioni più estreme contenute ne Il complotto dell’arte di Jean Baudrillard in cui, pagina dopo pagina, par di dover giungere alla fredda constatazione che si è davvero arrivati alla fine, al “nulla”.
“La maggior parte dell’arte contemporanea si dedica proprio a questo: ad appropriarsi della banalità, degli scarti, della mediocrità, eleggendoli a valore e a ideologia […] Il passaggio al livello estetico non salva alcunché, al contrario: è una mediocrità al quadrato. Afferma di essere nulla: ‘Sono nulla! Sono Nulla!’ – ed è veramente nulla.”
Parole che cascano come pietre settant’anni dopo un’altra analisi tanto lucida quanto apocalittica, firmata dal filosofo spagnolo Ortega y Gasset. Nel pamphlet dedicato alla Disumanizzazione dell’arte, datato 1925, Ortega aveva preconizzato la totale divisione tra l’uomo e l’arte nascente, l’impossibilità di comprenderla da parte della “maggioranza, la massa che non l’intende”, e quindi la successiva “umiliazione dell’uomo”, celata sotto il “falso presupposto della eguaglianza reale”.
“E in questo processo si arriverà a un momento in cui il contenuto umano dell’opera d’arte sarà tanto esiguo che quasi non si avvertirà più. Allora saremo in presenza d’un oggetto che potrà essere attinto soltanto da chi possegga questo dono speciale dell’intelligenza artistica. Sarà un’arte per gli artisti, e non per le folle; sarà un’arte di casta e non di tutti.”
Pur comprendendone le ragioni e la elaborata genesi del pensiero, non si vorrebbe condividere fino in fondo l’addolorata durezza di Jean Clair, storico di culto, già curatore di una Biennale di Venezia, quando afferma: “Si distoglie lo sguardo dalla forma, in particolare al volto umano, per immergersi nelle secrezioni, negli intestini, tra le mucose e gli escrementi”.
Da premesse, culture, biografie e posizioni filosofiche diverse, giungono considerazioni simili che attraversano i continenti e le epoche per approdare alla medesima conclusione. Un falso concetto di democratizzazione dell’arte (l’arte per tutti), l’ha condotta invece a estraniarsi completamente dall’uomo, dagli scopi naturali, dalla storia, dalle esigenze reali.
Eppure, come diceva il grande storico Marc Bloch nel suo studio sull’età feudale, non è vero che l’anno mille sia stato atteso dai popoli medievali con il terrore che noi abbiamo immaginato e proiettato all’indietro, semplicemente perché quasi nessun uomo di quel tempo poteva calcolare con precisione quando il millennio finisse.
Da ogni parte del mondo, in ogni parte del mondo, la “pratica” eletta dai pittori inglesi a sola verità, torna a reclamare una realtà impellente, urgente, non mistificata. Uno stato delle cose.
Si arriva forse a smentire di fatto un altro passo in cui Baudrillard, nel 1997, dichiarava “una grande difficoltà, oggi, a parlare della pittura perché c’è grande difficoltà a vederla”.
Se è stato vero che movimenti come la Bad Painting o la New Painting usavano la pittura per rinnegarla, “fare la parodia di se stessa, vomitarla”, giungendo soltanto “alla simulazione di se stessa o a alla caricatura”, oggi non è più così, o almeno, non soltanto così.
Venti artisti italiani descrivono un mondo attraverso venti mondi differenti.
Una visione dove conta l’espressione e non la provenienza, dove le declinazioni temporali hanno un senso compiuto, dove la frequentazione prolungata di un ambito artistico riesce a dare un senso a un lavoro che attraversa tre decenni d’arte italiana, una fine secolo e una fine millennio. Per scoprire che si attraversa il territorio che si conosce di volta in volta con gli strumenti che arrivano dal passato, seguendo lezioni come quelle di Richter, “guardiano della tradizione”, senza passepartout a buon mercato come l’inossidabile, romanticamente fallace affermazione della “morte dell’arte”, declinata di volta in volta in “morte della pittura”, astratta o figurativa che sia, infinite versioni di un nichilismo teorico, soltanto teorico e banalmente preconcetto.
Rivendicano il loro senso le terminologie mai abusate di figura, di astrazione, di scultura, di filmato, di fotografia, d’installazione, in un contesto che non serve a diffondere il verbo tra addetti ai lavori, ma rispetta le istanze di chi aspira a conoscere, a vedere. Un’arte “popolare”, anche, come lo era quella di Boccioni, di Balla, di Depero, che esponevano in saloni sovraffollati, accettando di dividere lo spazio con decine di ottimi artisti, ancora sconosciuti. Uno di fianco all’altro senza primogeniture critiche, consensi trasversali, sistemi commerciali.
In questa mostra le tele si dipingono, le sculture si sbozzano, le installazioni si progettano e si costruiscono, la sequenza del fare arte riprende il suo senso, annichilito dall’impotenza della fine dell’idea. E l’idea riprende il suo senso, la sapienza artistica la sostiene, la versatilità le completa, il talento la distingue. Vengono così ribadite le ragioni storiche della pittura, declinate nel contemporaneo con l’attualità del tempo che sedimenta e insegna.

 

Venti personalità distinte che significano anche molti differenti filoni, altre decine di artisti italiani impegnati con successo nella reinterpretazione di un mondo passato che affiora ogni giorno nelle pieghe della storia. Venti personalità definite, capaci, sicure nell’utilizzo del mezzo espressivo prescelto, impiegato con la consapevolezza di chi conosce, di chi ha scelto, con il coraggio dei propri mezzi. Venti personalità che attualizzano non solo la lezione che giunge loro dall’Italia, ma anche le esperienze europee e americane di questi ultimi trent’anni.
Introdotti da Sandro Chia e Gianmarco Montesano, i nove pittori italiani del Padiglione si dispongono in successione, declinando visioni distanti ma affini. Se Sandro Chia continua a rendere onore alla solarità mediterranea di una forma larga ed espansa, che si dispone sulla scena con piena solennità, l’installazione pittorica di Montesano riattualizza il suo percorso storico di caposcuola del ritorno alla pittura in Italia. Montesano celebra la fine dell’Occidente rendendone eclatanti le figure tragiche dei protagonisti, le icone dell’imagerie nazional-popolare, ingrandisce e ritaglia brani di memoria comune in una celebrazione che li rende protagonisti e insieme vittime perdute. Ma la storia dell’Italia frantumata nelle cento tele, fornisce oggi un movimento ulteriore, altro fotogrammi di una vicenda da rotocalco e tragedia insieme, compiendo il percorso circolare che cancella le contraddizioni.
Le tele di Roberto Floreani sono spazi sui quali l’autore proietta una singolare profondità spirituale. Combina la modularità geometrica dei suoi pattern alla morbidezza delle superfici pittoriche che si alzano, sovrappongono strati di colore uno sull’altro per giungere a una superficie corrugata, ultima pelle di un lavorìo intimo e meticoloso, paziente. Le sequenze di Nido, dinamiche, apparentemente giocose e disincantate, sono il risultato di un operare altrettanto paziente, ma freddo e meccanico, curiosamente più vicino ad una sensibilità anglosassone che a quella mediterranea. Colle colorate vengono disposte per linee, gorghi, cerchi, nel solco duttile di una riconoscibilità topografica o geometrica che appare e scompare, si rivela e si cela. Luca Pignatelli ridà alla bellezza la capacità di suscitare quello shock of recognition che secondo Mario Praz l’osservatore prova davanti a Piranesi. Afroditi, madonne, aerei, galeoni, angeli appaiono come frammenti di un paradossale rovesciamento logico: i reperti archeologici sopravvivono sopra i teloni ferroviari di un’archeologia contemporanea. Spostano tempi e luoghi, azzerano distanze visive e materiche. Storia e modernità si scambiano i ruoli.
La storia dell’arte italiana, la più aristocratica, veneziana e barocca, è il terreno su cui Nicola Verlato innalza le sue visioni. Che hanno bisogno di tutta la complessità del passato, per far agire insieme i linguaggi: pittura, scultura e architettura, come nelle cappelle delle chiese, nelle decorazioni dei palazzi, vagheggiano l’unità e l’unitarietà di quella opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk) cui tutta l’Europa di fine Ottocento aspirò, e mai riuscì a raggiungere. Una pittura ricca, vertiginosa, in cui i temi si combinano in modo bizzarro e autoreferenziale: da James Dean ai cartoons, dall’heavy metal alla Pop Art.
Fluttuante come un sogno interrotto di cui si ricercano malinconicamente i connotati, l’opera di Manfredi Beninati aggiunge al peso fisico e reale della sua tecnica, una sorta di affresco staccato, la seconda memoria di un’apparizione, Marinetti e Russolo. Relitto senza tempo di un passato ormai “globalizzato” nel suo perdersi, Beninati sfoggia uno stile lirico, che azzera profondità e tempi sullo schermo piatto di una visione che appare, ma sembra sfaldarsi, proprio come un vero affresco, casualmente ritrovato…
L’entusiasmo per un colore quasi riscoperto, dopo il ritorno alla pittura, domina la figurazione accalorata di Marco Cingolani che gioca la sua vicenda tra una realtà, cronachistica e attuale, e una sorta di brutalizzazione espressionista che serpeggia all’interno dell’opera, quasi spartendosi i singoli riquadri narrativi.
Realtà e vita, nel senso più tradizionale di persone e di paesaggi animano la visione di Daniele Galliano, da anni concentrato sulla pittura, dentro la pittura, con opere di estrema qualità – ombre, luci, colore à plat e minimi accorgimenti locali – che sospendono la visione in una sorta di atemporalità poetica, fitta di rimandi storici e l’accenno continuo alla presenza di uomini donne bambini colti nell’istante quotidiano della vita.
I video dei Masbedo introducono al secondo padiglione conducendo agli altri linguaggi, le contaminazioni, gli spessori sonori. Contraddizioni narrative ed estrema tensione tecnica attraversano l’opera della coppia di artisti, la cui purezza visiva finale convive con una ricchezza di citazioni e ammiccamenti, una raffinatezza estrema, profonda attenzione alla storia.
Elisa Sighicelli dedica al futurismo i suoi lavori.
Matteo Basilè e Giacomo Costa lavorano mescolando arte e tecnologia. Il fine, solo apparentemente consentaneo, sembra quello di approdare a una sorta di “bellezza” siderale, dove la tecnologia è asservita alla ricerca ideale di una forma superumana, una visione freddamente ricercata attraverso il computer ma caldamente e interiormente elaborata dalla propria personalissima visione del mondo. Come i ritratti di Basilè sembrano trascendere divisioni razziali e religiose per raggiungere una superumanità irreale ma vivissima, così i giardini segreti di Costa pullulano di odori, colori, sensazioni, foresta primordiale e paradiso in terra.
Apparentemente umile, nella scelta dei materiali e nel “risparmio” del segno, Valerio Berruti sfiora temi di assoluta pregnanza, bambini, famiglia – che qui giungono alle sacre scritture inscenando addirittura la storia della Figlia di Isacco. La successiva elaborazione delle immagini in una sequenza video, che ammicca all’universo dei cartoon attraverso un lungo percorso artigianale, aggiunge all’opera un ulteriore scatto logico, come se i secoli fossero compressi, interrogati, sovrapposti tutti insieme per giungere non tanto a una risposta, ma a una domanda ripetuta.
Il lavoro di Nicola Bolla poggia ancora una volta sulle contraddizioni. Oggetti utili e necessari allo spettacolo sono rigorosamente resi inutili dal loro silenzio, ma, nello stesso tempo, sono addobbati di gioielli. Non c’è suono, non c’è canto, solo scintille di cristalli che portano duchampianamente l’oggetto altrove, ma è un altrove che seduce, e invita ad ascoltare questo silenzio luminoso.
La straordinaria perizia tecnica di Bertozzi e Casoni, il personale e lungamente coltivato rapporto con la ceramica, sono soltanto un aspetto della loro opera. Che unisce la piacevolezza del mezzo, affettuosamente assoggettato a piegarsi per racchiudere mòniti e allusioni. La bellezza intrinseca dell’opera, la sua mirabile armonia di forme e colori, una festa, schiude storie, simboli, allegorie. Dentro la scatola perfetta di una tecnica perfetta è ancora l’uomo a reclamare il so ascolto. Pronto soccorso, umanità.
E sempre sull’uomo lavora Aron Demetz, altro artista dotato di straordinarie qualità tecniche, che abbandona i suoi ragazzi in un peregrinare affannoso. Dalla forma polita delle sue origini, Demetz è approdato ai simulacri sofferti di quell’umanità corrugata e ferita, che ancora una volta sembra anelare a un luogo, a una pace, a una pelle diversa.
A Marco Lodola e a Silvio Wolf sono state affidate le pareti di fondo della “seconda tesa”.
Il lavoro “freddo”, quello di Wolf, animato da una luce siderale che accoglie vibrazioni e movimenti del corpo e dello spazio, colloquia per necessità col teatro di Lodola, “caldo” e rumoroso, futurista e pop. Un vero e proprio palcoscenico, dove, a differenza di quel che è successo finora, i corpi sono figure che ballano davvero, e le luci brillano davvero, e il rumore c’è. Forte della sua esperienza di nuovo futurista, Lodola non ha esitazioni: show must go on.
Sissi, infine, con l’esplosione dei brandelli delle sue ceramiche rinchiuse nella gabbia di un corpo metallico duro e duttile insieme, sta lì, sul limitare della porta, a dire che tutto resta sempre in gioco. Un padiglione, un corpo, un’installazione nata col travaglio vero della nascita, tra sofferenza e dubbio, a dire che l’“opera d’arte”, come scriveva Thomas Bernhardt, resta comunque aperta, e non la si può “chiudere a forza di chiacchiere”.
Alla fine di un testo che per l’autore diventa davvero una “responsabilità”, ed è necessariamente una veloce (e transitoria) scorribanda tra nomi e date, torna in mente la densa intervista di Damien Hirst, il bersaglio preferito di chi sostiene l’ennesimo avvento della “fine dell’arte”, uno dei più inestricabili grovigli di contraddizioni che l’Europa abbia avuto, quando accenna alla sua “responsabilità” di pittore, e del “pubblico che si aspetta qualcosa da lui”.
E si potrebbe restare in silenzio, quando si rileggono le parole della Lettera di Papa Giovanni Paolo II, che parla di “responsabilità” e del “bisogno” che il mondo ha degli artisti…

 

Testo tratto dal catalogo del Padiglione Italia  edito da Silvana Editoriale


 

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